Paratesto Archivi - Editoria & Letteratura https://editoria.letteratura.it/category/blog/paratesto/ Blog del Laboratorio di editoria diretto da Roberto Cicala Sun, 30 Jul 2023 13:58:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://editoria.letteratura.it/wp-content/uploads/2019/01/cropped-Icona-e1547805980831-32x32.png Paratesto Archivi - Editoria & Letteratura https://editoria.letteratura.it/category/blog/paratesto/ 32 32 Antologie e riadattamenti dei “Promessi sposi” https://editoria.letteratura.it/antologie-e-riadattamenti-dei-promessi-sposi/ https://editoria.letteratura.it/antologie-e-riadattamenti-dei-promessi-sposi/#respond Sat, 01 Oct 2022 17:44:38 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8776 L’analisi di alcune edizioni dei Promessi sposi, di progetti editoriali antologici e di riadattamenti del capolavoro manzoniano che varcano il confine del testo letterario, come, ad esempio, i fotoromanzi o le edizioni teatrali e cinematografiche. Il successo dell’opera manzoniana è stato tale da incentivare anche una serie infinita di opere che non contengono il testo […]

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L’analisi di alcune edizioni dei Promessi sposi, di progetti editoriali antologici e di riadattamenti del capolavoro manzoniano che varcano il confine del testo letterario, come, ad esempio, i fotoromanzi o le edizioni teatrali e cinematografiche.

Il successo dell’opera manzoniana è stato tale da incentivare anche una serie infinita di opere che non contengono il testo del romanzo integralmente, ma ruotano intorno ad esso. Queste opere possono contenere estratti di testo o citazioni più o meno lunghi oppure riadattamenti e parodie del testo.

Casi di edizioni antologiche

Molte sono le opere dedicate a personaggi emblematici del romanzo: sono delle edizioni antologiche contenenti gli estratti di testo che riguardano i protagonisti: i casi più affrontati sono quelli della monaca di Monza o dell’Innominato, ma non mancano monografie dedicate alla figura del Sarto, a don Ferrante, all’avvocato Azzecca-Garbugli o agli altri personaggi religiosi. Letture Manzoniane ’87[1] è una raccolta edita dal Centro Nazionale di studi Manzoniani di Milano nel 1988 in cui ci sono saggi che hanno per oggetto alcuni dei personaggi dei Promessi sposi e che fanno riferimento ai relativi capitoli del romanzo: Don Ferrante o la genialità del concreto di Edoardo Villa, Azzecca-Garbugli e il dispregio della parola di Sergio Pautasso e Dove si scopre un don Abbondio solitario e infelice di Geno Pampaloni.

Non mancano poi editori che pubblicano opere con un’ampia serie di estratti di testo del romanzo che ripercorrono solo alcuni capitoli ma nella loro interezza, oppure ripropongono i punti salienti del capolavoro offrendo al lettore il «sugo di tutta storia». Nel 2000 ad esempio, viene ultimata la stampa, presso la casa editrice Beretta per Lecco, a cura di Riello SpA, di un volume[2] intitolato I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta contenente i capitoli dal XXII al XXV, il cui testo è preceduto da un saggio di Danilo Zardin, Federico Borromeo: “Chi era costui?”, tradotto anche in inglese e seguito dai riassunti dei capitoli presenti nell’edizione. Partendo dalla domanda messa in bocca a don Abbondio, Zardin cerca di ricostruire il profilo del cardinale, protagonista dei capitoli in questione e riprodotti in questa edizione: «la domanda può essere adattata anche al potente cardinale che governava su Milano al tempo in cui sono ambientati i fatti dei promessi sposi». Si tratta di un’opera con la copertina cartonata, rivestita di tessuto blu. All’interno delle pagine sono presenti ampi spazi bianchi attorno al testo dei capitoli e sono inserite alcune pagine in carta patinata a colori che riproducono frasi tratte dai capitoli o immagini del cardinale di proprietà della Biblioteca Ambrosiana.

Sono poi molto frequenti le edizioni antologiche scolastiche che offrono agli studenti degli assaggi del romanzo, alcuni esempi tra quelle più recenti sono spesso accompagnate da supporti digitali come I promessi sposi. Antologia,[3] editi nel 2011 da Petrini o l’omonimo volume[4] pubblicato nello stesso anno dalla Loescher e curato da Gilda Sbrilli che cerca di catturare l’interesse del lettore inserendo sulla quarta di copertina la celeberrima frase tratta dall’introduzione del romanzo «nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanere tuttavia sconosciuta; perché…a me era parsa bella, come dico, molto bella».[5] Altri esempi sono I Promessi Sposi[6] del 2010 della casa editrice Bulgarini, un’edizione antologica con guida alla lettura[7] e commento a cura di Enrico Ghidetti, nata dalla collaborazione con il Centro Nazionale di Studi Manzoniani o l’edizione[8] di Edisco del 2008 a cura di Marco Romanelli e Giuseppe Battaglia nata proprio per rispondere alle esigenze[9] imposte dai tempi scolastici.

 

 

Copertine delle edizioni scolastiche antologiche edite da Petrini nel 2011, Loescher nel 2011, Bulgarini nel 2010 ed Edisco nel 2008.

Leggendo i Promessi sposi: il sarto

Angelo Restelli fece pubblicare nel 1927 presso la scuola tipografica Istituto san Vincenzo di Milano il libro intitolato Leggendo i promessi sposi: il sarto.[10] Si tratta di un’opera dedicata ad uno dei personaggi abbastanza secondari del romanzo la cui scelta è dovuta ad una vicenda biografica dell’autore: per caso un giorno ritrova in un cassetto sei foglietti sparsi contenenti delle annotazioni e degli appunti da lui scritti durante la lettura dei Promessi sposi riguardanti proprio questo personaggio. Il ritrovamento lo porta a realizzare un libro: «Raccolsi i foglietti, li ordinai, li ripulii, li rimpolpai, li numerai e, infine, li cucii assieme. Quando li ebbi ben cuciti…mi ritrovai tra le mani un libro bell’e fatto. E quando s’è fatto un libro…non resta che pubblicarlo».[11] Sempre nella prefazione l’autore aggiunge una nota di merito e di devozione a Manzoni, sostenendo che il lettore nel suo scritto avrebbe trovato molto più materiale appartenente all’autore dei Promessi sposi che a lui. Indica poi l’edizione seguita per le citazioni: quella speciale per il centenario 1821-1921 fatta da Ulrico Hoepli e illustrata da Gaetano Previati. Le citazioni di porzioni di testo tratte dal romanzo sono molto frequenti e sono seguite dalle indicazioni dei capitoli e delle righe.[12] Da un punto di vista contenutistico si dedica in prima battuta al ritratto del personaggio sottolineando il suo lato debole con le dovute attenuanti, poi si sofferma sulla famiglia, la moglie e i figli. Passa poi alle sue qualità: la carità declinata nell’ospitalità e nell’altruismo come l’episodio dell’elemosina alla vedova.

Manzoni e la Monaca di Monza

A Milano nel 1964, presso la casa editrice Cino del Duca, Le Edizioni Mondiali S.p.A., esce il libro[13] di Mario Mazzuchelli Manzoni e la Monaca di Monza.[14]

Nel primo capitolo Mario Mazzucchelli si dedica alle fonti storiche e letterarie a cui si rivolge Manzoni per il personaggio analizzato: principalmente La Religieuse di Diderot del 1796, ispirata alla vicenda di una monaca di Longchamp e il dramma di Jean François la Harpe Melanie ou la Religieuse scritto nel 1778 e rappresentato solo nel 1791. Di queste fonti l’autore riporta estratti di testo che mette a confronto con quelli tratti dai Promessi sposi. Nel secondo capitolo si concentra sull’episodio di Geltrude nel Fermo e Lucia e di Gertrude[15] nei Promessi sposi. L’autore riporta il testo delle due edizioni su due colonne «in modo che il lettore possa agevolmente constatare le diversità di concezione, proporzione, svolgimento e stile fra l’episodio della monaca di Fermo e Lucia e quello dei Promessi Sposi dell’edizione definitiva del 1840».[16] Il testo dei Promessi sposi è in corsivo, più breve di quello del Fermo e Lucia: ci sono delle pagine che contengono solo il testo nella colonna dedicata al Fermo, mentre la colonna accanto è vuota perché quella parte è stata tagliata nell’edizione definitiva. Nel terzo capitolo l’autore si sofferma sul raffronto tra Gertrude e suor Virginia nei riguardi di Egidio e dell’Osio: riporta il testo del Fermo e Lucia a confronto con quello di Ripamonti che testimonia la vicenda di questa monaca. Nel quarto capitolo si concentra sulle due edizioni dei Promessi sposi e sul loro rapporto con la critica e nel quinto sulla psicologia di Gertrude ed Egidio riportando il testo delle due edizioni a confronto. Nell’ultimo infine offre una panoramica sul personaggio di Gertrude in relazione al tempo in cui vive.

Con quest’opera l’autore si pone come obiettivo quello di colmare una lacuna di molti italiani riguardo questo personaggio diventato così popolare tanto che conclude in questo modo la prefazione:

troppi italiani, nonostante tanti congressi e conferenze, ignorano ancora – ed è tutto dire – come fra la sventurata del Manzoni e la de Leyra esista più vivo che mai anche il personaggio di Suor Geltrude, quello di «Fermo e Lucia», molto più vicino alla realtà storica della sua stupenda ma affievolita sorella e in pari tempo, pur sempre creazione autentica di Alessandro Manzoni, anche se da lui implicitamente sconfessata.[17]

Copertina dell’opera. Mario Mazzuchelli, Manzoni e la monaca di Monza, Cino del Duca. Le edizioni mondiali S.p.A., Milano 1964.

Pagina 37: il testo del romanzo a confronto con il testo delle fonti. Mario Mazzuchelli, Manzoni e la monaca di Monza, Cino del Duca. Le edizioni mondiali S.p.A., Milano 1964.

 

Riadattamenti linguistici, teatrali, cinematografici, satire, parodie e reinterpretazioni

Come molti altri capolavori, anche l’opera di Manzoni non è stata relegata al solo piano letterario, ma ha varcato anche le soglie della drammaturgia e del cinema. Possiamo quindi trovare edizioni contenenti il testo del romanzo manzoniano riadattato per la scena o il grande schermo oppure opere che documentano i processi di preparazione dei Promessi sposi a questi due ambiti. Ne sono alcuni esempi Lucia Mondella ovvero I promessi sposi. Dramma per Ferdinando Villani[18] edito a Lanciano presso Masciangelo nel 1869 nella cui prefazione[19] l’autore sottolinea il suo impegno a rispettare il più possibile le intenzioni messe a punto da Manzoni rispetto, ad esempio, ad Adolfo de Cesare nell’ Atto notorio, un’altra opera teatrale modulata sul romanzo manzoniano del 1853:

Però egli [Adolfo de Cesare] (e tralascio qualunque altra osservazione) vagheggiò in preferenza il tipo comico, e burlesco, e, non che seguire lo accaduto, soffermassi ad una parte sola del romanzo, mettendo a maggior vista i casi, e gl’impacci di don Abbondio. Cangiato costui in un notaio, immagina che Cecco Mondella abbia abbandonata da molti anni la sua famiglia, senza dare di sé più notizia, e che dovendosi maritar Lucia, sua figlia, con Renzo Tramaglino, vi sia mestieri di un atto notorio, attestante l’assenza del padre di lei per supplire al consenso richiesto. Di qui lo incarico e le resse a don Abbondio, notaio del paese, da parte degli sposi; di qui pure il divieto datogli da don Rodrigo, che aveva post’occhio a Lucia, perché le nozze non avvenissero. […] Dalla quale narrazione chi ha letto i Promessi Sposi, e ne ricorda lo argomento, già scorge di quanto se ne allontani il de Cesare per riuscire nello scopo proposto, laddove poi dal mio libro risulterà ben chiaro che, postomi per diverso cammino, io vidi il soggetto in una sfera più alta, e mi attenni più strettamente al romanzo, serbando nel miglior modo possibile lo schema istesso de’ dialoghi, e quasi talvolta i concetti medesimi dell’autore. Ma non è già che il mio dramma sia esente da licenze, a cui ricorsi anch’io.

Altri esempi sono I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti[20] di Antonino Catulli, I promessi sposi. Riduzioni teatrali[21] di Anne-Christine Faitrop Porta, I promessi sposi nel cinema[22] di Vittorio Martinelli e Matilde Tortora e Promessi sposi d’autore: un cantiere letterario per Luchino Visconti[23] in cui i due curatori Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti ricostruiscono la storia del cantiere di scrittura cinematografica dei Promessi sposi raccogliendo e ordinando i progetti di scrittori e intellettuali come, ad esempio, Alberto Moravia, Emilio Cecchi, Giorgio Bassani. Tra i vari riadattamenti che sono stati fatti del capolavoro di Manzoni spiccano quelli linguistici, eccone alcuni esempi: Nuizes, libera traduzione e interpretazione de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni in vernacolo ladino[24] di Debettin Giovanni, edito a Milano da Tetragono nel 1983; “Ste spusalizi un’ s’à da fè!” I promessi sposi in dialetto romagno[25] di Farneti Duilio, edito da Stilgraf a Cesena nel 1986; I Promessi sposi in poesia napoletana[26] di Raffaele Pisani, edito a Catania nel 2013 presso la Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di Magistero. Non mancano poi le edizioni satiriche come i celebri Promessi sposi[27] di Guido da Verona o I Promessi topi[28] o I Promessi paperi[29] editi dalla Walt Disney rispettivamente nel 1989 e 1976 su “Topolino”.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti

Un esempio interessante di reinterpretazione dei Promessi sposi[30] in chiave teatrale è offerto dall’opera di Antonino Catulli: I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti.[31] Nella prefazione troviamo esplicitato il motivo che ha spinto l’autore a scegliere come oggetto della sua commedia proprio I promessi sposi:

Ho procurato di trascegliere un soggetto il quale riproducesse l’amore di due sposi e in pari tempo disvelasse in esso il suo senso cristiano.
Quest’argomento con brio e leggiadria di stile ritrovo svolto nel tanto divulgato romanzo: “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, il quale mentre fa vedere l’amore casto, costante, sincero di Renzo e Lucia, manifesta altresì la loro fedeltà al Signore in mezzo alle più dure traversie. Da questo romanzo ho estratto la presente commedia.[32]

L’intreccio dell’opera, divisa in sei atti, non segue l’ordine delle vicende descritte nel romanzo per esigenze prettamente drammaturgiche; ciò è ben evidente nell’atto quarto in cui viene narrato il ritorno di Lucia dal castello dell’Innominato. Catulli pubblica la sua opera nel 1900 a Roma presso la casa editrice Artigianelli.

Copertina dell’opera. Antonino Catulli, I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti, Artigianelli, Roma 1900.

 

I Promessi sposi di Guido da Verona

Una delle edizioni satiriche più famose dei Promessi sposi è quella realizzata da Guido da Verona nel 1930.[33] L’opera, pubblicata dalla Società Editrice Unitas di Milano, mantiene il titolo dell’originale manzoniano I Promessi Sposi,[34] ma con annesso il sottotitolo di Alessandro Manzoni e Guido da Verona. Di quest’opera sono stati impressi anche cento esemplari su carta speciale numerati da uno a cento.

A causa delle sue caratteristiche l’opera viene messa al bando[35] nel 1929 sia da parte dell’autorità religiosa, sia da parte del regime fascista, infatti l’autore decide di riprendere la vicenda di Renzo e Lucia trasportandola, con molta ironia, negli anni venti, inserendo aspetti poco conformi alla morale e al clima del regime, come dice la seconda di copertina dell’edizione del 1998:

Lucia è una bellezza provinciale che parla francese e che, per farsi strada a ogni costo, non si rifiuta a nessuno, tranne che a Renzo. Quest’ultimo viaggia in Fiat 525, mentre Don Rodrigo, più comodamente, in Chrysler. L’astuto Don Abbondio invece, va a letto con la perpetua e converte i vecchi Buoni del Tesoro in Prestito del Littorio. Per non parlare della Monaca di Monza, lascivissima e con spiccate tendenze lesbiche. Il rifacimento del capolavoro manzoniano risulta divertente quanto intelligente.[36]

Quest’opera segna una sorta di svolta nel rapporto tra Guido Da Verona e Alessandro Manzoni: più volte Guido da Verona manifesta il suo disappunto nei confronti dell’autore milanese, sia per le sue opere in versi, sia per quelle in prosa[37] ma leggendo la sua Introduzione ai Promessi sposi i toni nei confronti di Alessandro Manzoni sono molto più pacati e positivi.

Copertina dell’opera. Guido Da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice 1998.

 

I fotoromanzi

Il fotoromanzo è un genere di letteratura popolare nato in Italia nel 1946[38] e poi diffusosi in tutta Europa e nel mondo intero, destinato principalmente ad un pubblico femminile. Si tratta di una sorta di racconto in sequenze, accompagnato da disegni, fotografie, dialoghi e didascalie. La cosa che più incuriosisce di questo fenomeno editoriale è la sua popolarità, come sottolinea Anna Bravo nell’introduzione alla sua monografia dedicata proprio al fotoromanzo:

quello che importa è però la sua popolarità, immediata, fragorosa, e di dimensioni tali da farne il massimo boom editoriale del dopoguerra. Giovane, più femminile che maschile, più proletario, contadino o piccolissimo borghese che la classe media, il pubblico è fra i meno raggiungibili dagli altri mezzi di comunicazione, e infatti in buona parte è nuovo.[39]

I principali protagonisti di questo fenomeno sono “Grand Hotel” della casa editrice Universo, “Bolero film” di Mondadori e “Sogno” di Rizzoli. Negli anni cinquanta è proprio “Bolero Film” che dà alla luce la serie “Le Grandi Firme” che riadatta il testo di romanzi classici alle linee del nuovo genere con un fine anche pedagogico. Tra gli autori scelti per queste rivisitazioni non può mancare Alessandro Manzoni con i suoi Promessi sposi.[40] Mondadori presenta questa novità editoriale con grande entusiasmo senza rinunciare però a un tono provocatorio nei confronti di un lettore scettico e sfavorevole al fotoromanzo e alla sua ormai raggiunta maturità:

Per quelli che non considerano ancora il fotoromanzo come una forma d’arte o per lo meno come un moderno linguaggio «volgare» nel senso classico e nobile della parola; per quelli insomma che ancora dubitano che questo nostro tempo dinamico e atomico sia all’affannosa ricerca di un nuovo mezzo d’espressione adeguato al secolo della rapidità e della televisione, una riduzione a fotoromanzo dei Promessi sposi potrebbe apparire in qualche modo come una fatica per lo meno arrischiata, se non vana. Proprio a coloro che si mostrano dubbiosi, siamo lieti di offrire questo Albo-Bolero che racchiude, in immagini fotografiche, l’immortale capolavoro. […] In questa riduzione, personaggi ambienti, costumi, paesaggi, sono rigorosamente aderenti al testo manzoniano, e soprattutto il dialogo del grande scrittore milanese è stato, perfino nelle virgole, scrupolosamente rispettato. Tutte le figure del libro, da Lucia a Renzo, da don Abbondio a padre Cristoforo e don Rodrigo, appaiono vive così come il lettore del romanzo le vede balzare da quelle mirabili pagine. È dunque con giustificato orgoglio che offriamo ai nostri lettori questo nuovo Albo-Bolero che può essere definito il gioiello della Collana Capolavori.[41]

Un caso editoriale dunque, questo, particolare rispetto agli altri: un tentativo di avvicinamento dell’opera manzoniana a un pubblico più vasto, femminile e popolare che altrimenti, con molta probabilità, non si sarebbe mai avventurato nella lettura di un romanzo di una portata tale. Una sorta di sfida, intrapresa da Mondadori che per l’ennesima volta ha raggiunto un grande successo seguendo tre aspetti fondamentali: «primo aver creato nuovi canali di vendita – secondo offerta di opere di alto valore letterario – aver fede costanza e coraggio nelle imprese nelle quali si crede».[42]

Copertina dell’opera. I Promessi sposi. Grande fotoromanzo del capolavoro di Alessandro Manzoni, Mondadori, Milano 1953.

Inizio del fotoromanzo. I Promessi sposi. Grande fotoromanzo del capolavoro di Alessandro Manzoni, Mondadori, Milano 1953.

 

Casi di edizioni saggistiche

Moltissime sono le opere dedicate all’analisi di caratteristiche e aspetti particolari del romanzo e delle loro trasformazioni nelle diverse edizioni.[43] Molte forniscono delle chiavi di lettura per affrontare l’opera[44] offrendo una preparazione di fondo sui temi toccati da Manzoni: ad esempio le condizioni storiche dell’epoca in cui è ambientato il romanzo e quelle contemporanee all’autore o l’epidemia di peste e tutto ciò che ne consegue; riguardo a quest’ultima è un esempio significativo il saggio di Antonio Guadagnoli presente nell’anonimo volume Storia della famosa peste di Milano, edito da Pagnoni, intitolato Elegia episodio estratto dalla descrizione della peste di Milano inserita nel romanzo “I promessi sposi” di A. Manzoni.[45] Sono frequenti anche saggi critici sulla lingua del Romanzo che contengono porzioni di testo interessanti proprio da questo punto di vista oltre alle guide di lettura sulla poetica dell’autore o sul suo rapporto con il vero e con i modelli.

I Promessi sposi è un romanzo ambientato in luoghi precisi toccati da eventi storici di grande importanza come, ad esempio, l’epidemia di peste, i tumulti a Milano, le visite pastorali del cardinale o la sottomissione a potenze straniere, proprio per questo molti studiosi si sono soffermati sulle località che sono state teatro di queste vicende e di quelle vissute dai protagonisti del romanzo. Alcuni di essi si concentrano su singole città come Giuseppe Belotti nell’opera Bergamo nei promessi sposi[46] o Empio Malara che invece si sofferma sulla città di Milano nell’opera I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della grande Milano svelate da Alessandro Manzoni[47] nata in collaborazione con il Centro Nazionale di Studi manzoniani.

Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua

La casa editrice Rechiedei nel 1874 pubblica un breve libro[48] di Luigi Morandi: Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua.[49] L’obiettivo dell’autore è espresso nell’avvertenza: «offrire al pubblico la storia e insieme un saggio delle correzioni nelle quali abbiamo la miglior prova della bontà della dottrina manzoniana sulla lingua giacchè ce la troviamo attuata pienamente e con ottimi effetti».[50]

L’opera contiene una lettera inedita di Alessandro Manzoni ad Alfonso della Valle di Casanova datata 30 marzo 1871 il cui permesso di pubblicazione è stato ricevuto dalla casa editrice da parte dell’autore stesso. In questa lettera Manzoni parla delle correzioni, soprattutto linguistiche, che ha inserito nell’ultima edizione del suo capolavoro, correzioni di cui, esibendo la sua consueta modestia dice «Ma ahimè! Anche di queste non posso farmi bello, perché non vengono a me; vanno a un tutt’altro e ben altro autore, voglio dire a un popolo, cioè a uno di quegli enti composti e multiformi, ognuno de’ quali, però, nelle cose in cui è uniforme, costituisce una grande e distinta unità».[51] Dopo la lettera inizia la sezione del libro dedicata al discorso di Luigi Morandi riguardo ai pregiudizi letterari sorti intorno al romanzo dopo la pubblicazione dell’edizione riveduta dei Promessi Sposi nel 1942. Le modifiche che l’autore milanese inserisce in questa edizione definitiva, «a detta d’alcuni,» producono un caso «in tutto simile a quello della Gerusalemme liberata».[52] Morandi riporta esempi di termini presenti nella prima edizione e le relative correzioni in quella successiva, ma anche esempi di cambiamenti sintattici e semantici, anche se rari soprattutto nei primi capitoli. Le correzioni sintattiche «mirano tutte a togliere al libro quanto c’era d’artifizioso e di contorto, e a conformarlo all’andatura piana e disinvolta dell’Uso».[53]

L’ultima sezione è riservata a un saggio comparativo della prima edizione dei Promessi Sposi con la seconda in cui il testo dell’una e dell’altra edizione sono posti su due colonne distinte: il lettore può, in questo modo, prendere atto subito delle differenze tra le due stesure avendole entrambe sott’occhio nella stessa pagina

La topografia del romanzo I promessi sposi

Nel 1895 Giuseppe Bindoni pubblica presso l’editore Enrico Rechiedei di Milano un’opera intitolata La topografia del romanzo I promessi sposi,[54] corredata da carte topografiche, tipi e vedute.[55]

L’autore ripercorre i luoghi del romanzo inserendo molte citazioni e riferimenti tratti dal testo di Manzoni che descrivono precisamente gli ambienti per cercare di trovarne un riscontro nella realtà. In alcuni casi Bindoni si concentra sulle abitazioni dove si svolgono le vicende come accade nelle sezioni riservate alla casa di don Abbondio[56] e a quella di Lucia:[57] riporta degli estratti di testo per cercare di capire dove sono collocate le case e come sono strutturate al loro interno. Nella sua indagine topografica Bindoni inserisce anche delle piantine di città o paesi oltre che a illustrazioni di Francesco Gonin che riproducono quei luoghi secondo le volontà di Manzoni: un esempio emblematico è offerto dal paesino di Olate, quello dei due protagonisti.[58] In quest’ultimo caso, ad esempio, Bindoni passa in rassegna diversi paesini nei dintorni di Lecco, da Rancio a Castello, da Germanedo a San Giovanni alla castagna, da Olate ad Acquate, cercando di rintracciare nel testo del romanzo informazioni che gli facciano capire quale di questi sia il paese scelto da Manzoni per essere il luogo teatro delle vicende dei due promessi; li esclude uno ad uno per varie motivazioni come il numero delle campane della chiesa per citarne uno, per arrivare ad affermare che il paese di Renzo e Lucia è Olate.

Alla fine dell’opera una sezione è dedicata ad uno dei luoghi dove visse Manzoni per un certo periodo, il palazzo al Caleotto, in cui ha iniziato a progettare il suo romanzo.[59]

Il testo sopra riportato è tratto dalla tesi di laurea di Simona Bressan, intitolata I volti di un classico: itinerario tra casi editoriali dei Promessi sposi, discussa il 14 dicembre 2016 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, avente come relatore il Professor Roberto Cicala.

 

[1] Geno Pampaloni, Sergio Pautasso, Edoardo Villa et al., Letture Manzoniane ʼ87, Centro Nazionale di studi Manzoniani, Milano 1988.

[2] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta, Beretta per Lecco, Lecco 2000.

[3] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Vincenzo Jacomuzzi, Attilio Dughera, Petrini, Torino 2011.

[4] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Gilda Sbrilli, Loescher, Torino 2011.

[5] Ibi, quarta di copertina.

[6] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Enrico Ghidetti, Bulgarini, Firenze 2010.

[7] Sulla quarta di copertina si legge: «Non un ennesimo libro, quindi, sostanzialmente finalizzato a far svolgere esercizi standardizzati e ripetitivi. Al contrario, una proposta di lettura la cui valenza didattica si esprime nel far cogliere al lettore, in modo non meccanico, ma consapevole, gli aspetti narrativi dell’opera, i temi sempre attuali affrontati dall’Autore, la qualità letteraria di un testo che può essere colta solo se la lettura riesce ad essere altamente motivante»: ibidem.

[8] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Marco Romanelli, Giuseppe Battaglia, Edisco, Torino 2008.

[9] Sulla quarta copertina del volume, oltre alle informazioni sugli strumenti didattici dell’edizione e sulla Guida per l’insegnante che la accompagna, si legge: «Le motivazioni che hanno spinto a offrire una scelta antologica dei Promessi sposi nascono dalla pratica scolastica che spesso deve fare i conti con i tempi e la programmazione che obbligano a tagli e raccordi difficili da proporre»: ibidem.

[10] Angelo Restelli, Leggendo i Promessi sposi: il Sarto, Scuola tipografica Istituto san Vincenzo, Milano 1927.

[11] Ibi, p. 3.

[12] Il numero di capitolo è in numero romano seguito dal numero della riga in cifre arabe.

[13] Mario Mazzucchelli, Manzoni e la monaca di Monza, Cino del Duca. Le edizioni mondiali S.p.A., Milano 1964.

[14] La copertina, in brossura, riporta l’immagine della monaca di Monza realizzata dal pittore Renato Vernizzi. Il blocco libro è costituito da fascicoli in carta uso mano avorio. Sono presenti anche dieci illustrazioni su carta patinata. Il titolo dell’opera è riportato anche sul dorso della copertina.

[15] Già nel titolo del capitolo l’autore sottolinea una delle diversità che si possono riscontrare tra il Fermo e Lucia e I promessi sposi evidenziando il cambiamento linguistico nel nome della monaca.

[16] Ibi, p. 50.

[17] Ibi, p. 10.

[18] Ferdinando Villani, Lucia Mondella ovvero I promessi sposi. Dramma per Ferdinando Villani di Foggia, Masciangelo, Lanciano 1869.

[19] Ibi, pp. 3-12.

[20] Antonino Catulli, I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti, Artigianelli, Roma 1900.

[21] Anne-Christine Faitrop Porta, I promessi sposi. Riduzioni teatrali, Olschki, Firenze 2001.

[22] Vittorio Martinelli, Matilde Tortora, I promessi sposi nel cinema, La mongolfiera, Cosenza 2004.

[23] Salvatore Silvano Nigro, Silvia Moretti, Promessi sposi d’autore: un cantiere letterario per Luchino Visconti, Sellerio, Palermo 2015.

[24] Giovanni Debettin, Nuizes, libera traduzione e interpretazione de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni in vernacolo ladino, Tetragono, Milano 1983.

[25] Duilio Farneti, “Ste spusalizi un’s’à da fè!” I promessi sposi in dialetto romagnolo, Stilgraf, Cesena 1986.

[26] Raffaele Pisani, I Promessi sposi in poesia napoletana, Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di Magistero, Catania 2013.

[27] Guido da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice, Milano 1998.

[28] Bruno Sarda, I Promessi topi, The Walt Disney Company, in “Topolino”, XXX (1989), 1769-1771.

[29] Edoardo Segantini, I Promessi paperi, The Walt Disney Company, in “Topolino” XXVII (1976), 1086-1087.

[30] Antonino Catulli, I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti, Artigianelli, Roma 1900.

[31] È un’edizione in brossura, con il blocco libro cucito e formato da fascicoli in ottavo, con carta uso mano avorio. La copertina riporta tutte le informazioni presenti nel frontespizio incorniciate da motivi geometrici e floreali. Il titolo e il luogo di pubblicazioni sono stampati in rosso.

[32] Ibi, p. 3.

[33] Guido da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice, Milano 1998.

[34] È un’edizione in brossura, con il blocco libro, in carta uso mano avorio, cucito e costituito da fascicoli in sedicesimo. Sulla copertina sono riportati il titolo, il sottotitolo, il genere dell’opera e, sopra all’indicazione della casa editrice, i ritratti dei due autori inseriti in due ovali; il tutto è incorniciato da un motivo geometrico a forma rettangolare in arancione. Sul dorso sono indicati il titolo in arancione e i due autori con il genere del romanzo in nero, mentre sulla quarta di copertina il simbolo della casa editrice.

[35] «A pochi giorni dall’uscita, l’opera venne ritirata dal commercio perché presentava sulla copertina e sulla prima pagina intera il nome e l’effige di don Alessandro accanto a quello di un da Verona beffardamente ritratto insieme a uno dei suoi cani; apportate le necessarie mende, fu bloccata […] questa volta con l’accusa di vilipendio alla religione, alla morale e all’ideologia fascista»: Giuseppe Sergio, “I Promessi Sposi” di Guido da Verona: appunti sulla lingua e sullo stile, in “ItalianoLinguaDue”, II (2010), 1, p. 221.

[36] Guido da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice, Milano 1998, seconda di copertina.

[37] In particolare nel Mio discorso all’Accademia degli Immortali.

[38] «Una filiazione del fumetto, rivelata dalla ormai mitica testata delle edizioni Del Duca, ma intitolata con preciso riferimento ad una forte sedimentazione e concentrazione dell’universo multiplo e scorrevole hollywoodiano, “Grand Hotel”, che uscì nel 1946 con storie sceneggiate e disegnate da Walter Molino e da Giulio Bertoletti, per poi trasformare le “figure” da disegno a fotografia. Una filiazione risolutamente cinematografica con “Bolero film”, nata nel 1947 come ramificazione popolare del grande apparato mondadoriano, diretta da Luciano Pedrocchi»: Alberto Abruzzese, Fotoromanzo, in Alberto Asor Rosa, Letteratura italiana. Storia e geografia, Giulio Einaudi editore, Torino 1989, vol. 3: L’età contemporanea, p. 1269.

[39] Anna Bravo, Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003, p. 8.

[40] I Promessi sposi. Grande fotoromanzo del capolavoro di Alessandro Manzoni, “Albi Bolero Film”, Mondadori, Milano 1953, (“Grandi firme”).

[41] Ibi, frontespizio interno.

[42] Elena Brancati, Beatrice Porchera, La promozione degli “Oscar”: «aver fede costanza coraggio nelle imprese nelle quali si crede», in Libri e scrittori da collezione. Casi editoriali in un secolo di Mondadori, a cura di Roberto Cicala, Maria Villano, Gian Carlo Ferretti, EDUCatt Università Cattolica, Milano 2007, (“Quaderni del laboratorio di editoria”), p. 165.

[43] Alcuni esempi significativi sono:

Luigi Morandi, Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua, Fratelli Rechiedei Editori, Milano 1874; Natale Busetto, La genesi e la formazione dei Promessi sposi, Zanichelli, Bologna 1921; Grazia Raffa, Lingua e stile nei “promessi Sposi”, S.E.I., Roma 1935; Enzo Girardi, Struttura e Personaggi dei Promessi sposi, Jaca Book, Milano 1994; Jones Verina, Le dark ladies manzoniane e altri saggi sui «Promessi sposi», Salerno, Roma 1998; Luigi Russo, Personaggi dei Promessi sposi, Laterza, Bari 2002; Carlo Annoni, Eraldo Bellini, Luca Badini Confalonieri et al., Questo matrimonio non s’ha da fare: lettura de I promessi sposi, Vita e Pensiero, Milano 2005; Giovanni Acerboni, Manzoni e il vero falsificato. Saggio sui Promessi sposi e sulla poetica manzoniana, Aracne, Roma 2012; Giovanni Fighera, Il matrimonio di Renzo e Lucia. Invito alla lettura de «I Promessi sposi», Itaca, Castel Bolognese 2015.

[44] Gino Tellini riguardo ai Promessi sposi parla di «bifrontismo di un’opera insieme facile e difficile, dolce e amara, affabile e severa, limpida e complicata, scritta dall’“infinita potenza di una mano che non pare aver nervi”. I Promessi sposi sono in apparenza una bella favola a lieto fine e di fatto una contro favola piena di veleni»: Gino Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, p. 47.

[45] Antonio Guadagnoli, Elegia episodio estratto dalla descrizione della peste di Milano inserita nel romanzo “I promessi sposi” di A. Manzoni, in Storia della famosa peste di Milano, Pagnoni, Milano s. d..

[46] Giuseppe Belotti, Bergamo nei promessi Sposi, Grafica e Arte, Bergamo 1984.

[47] Empio Malara, I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della grande Milano svelate da Alessandro Manzoni, Chimera, Milano 2014.

[48] Luigi Morandi, Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua, Fratelli Rechiedei Editori, Milano 1874.

[49] Il libro presenta una copertina cartonata blu, senza scritte. Il titolo sintetizzato è riportato sul dorso. Il blocco libro, cucito, è costituito da fascicoli di formato diverso tra loro.

[50] Ibi, p. 6.

[51] Ibi, pp. 10-11.

[52] Ibi, p. 25.

[53] Ibi, p. 54.

[54] Giuseppe Bindoni, La topografia del romanzo I promessi sposi, Enrico Rechiedei, Milano 1895.

[55] Questa informazione è riportata sul frontespizio dell’opera.

[56] Ibi, pp. 42-43.

[57] Ibi, pp. 64, 65 e 69.

[58] Ibi, p. 47.

[59] Ibi, pp. 234-235.

 

 

 


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Le traduzioni della “Torta in cielo” di Gianni Rodari https://editoria.letteratura.it/le-traduzioni-della-torta-in-cielo-di-gianni-rodari/ https://editoria.letteratura.it/le-traduzioni-della-torta-in-cielo-di-gianni-rodari/#respond Mon, 19 Sep 2022 11:52:28 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8721 Attraverso il confronto dei paratesti delle edizioni tradotte della Torta in cielo, si ripercorre la fortuna editoriale che ha avuto all’estero il libro scritto da Gianni Rodari per i giovani lettori. Fino a più di una ventina d’anni fa, parecchie opere di Rodari non erano più in commercio. Dopo la sua morte, era di circa […]

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Attraverso il confronto dei paratesti delle edizioni tradotte della Torta in cielo, si ripercorre la fortuna editoriale che ha avuto all’estero il libro scritto da Gianni Rodari per i giovani lettori.

Fino a più di una ventina d’anni fa, parecchie opere di Rodari non erano più in commercio. Dopo la sua morte, era di circa sessanta opere la produzione reperibile, sebbene fosse sparsa tra i vari editori rodariani e difficile da raccogliere per una visione più integrale e meno frammentaria dell’autore.
L’opera rodariana forse più conosciuta, che ha avuto maggiori edizioni critiche, recensioni, commenti è senz’altro la Grammatica della fantasia. Considerando il numero di approcci con cui si può consultare questo libro, non è strano che sia stato analizzato e apprezzato da studiosi degli ambiti più svariati, in quanto tocchi il tema pedagogico, psicologico e sociale, ma anche aspetti scientifici, con meccanismi pur sempre letterari. Ma dal punto di vista editoriale, per quanto abbia funzionato l’opera, soprattutto grazie ai contenuti e al messaggio, ci sono edizioni di altri racconti o filastrocche che hanno avuto sicuramente un impatto molto più intrigante a prima vista, in particolare per quello che potrebbe essere il primo destinatario dell’opera, ovvero il bambino. Mentre la Grammatica è di carattere diverso rispetto alla maggior parte della produzione rodariana, è molto più utile considerare una tra le storie più amate del nostro autore e andare oltre il puro racconto, per capire a tutto tondo i vari motivi per cui un’opera ha funzionato e ha avuto impatto oltre i confini italiani. Per questo si è scelto il caso della Torta in cielo.

Il corriere dei piccoli

La torta in cielo uscita a puntate su “Il Corriere dei Piccoli”, tratta dal numero 16 del 19 aprile 1964 al numero 25 del 21 giugno dello stesso anno.

La storia della Torta in cielo è intessuta di citazioni e riferimenti facilmente riconoscibili dai bambini. Il nome del pilota ad esempio, “Dedalo”, è lo stesso dell’architetto geniale che nella mitologia greca progettò e costruì il Labirinto di Creta. La stessa mitologia che avvolge nomi altisonanti, lascia però trasparire un’organizzazione casalinga, popolata in realtà di marescialli e appuntati. Il sistema è inefficiente e inaffidabile, insufficiente per confrontarsi con una realtà ossessionata dal concetto di supremazia, economica, scientifica, militare, dove l’unica speranza è nel futuro.[1] Tutti i piccoli rimandi alla grande letteratura, sono parte di una storia che in realtà è una metafora, una di quelle che Rodari era solito trasmettere, attraverso racconti a primo impatto infantili. Un progetto così ambizioso non poteva che richiedere l’intervento di un personale altrettanto ambizioso per renderne possibile la realizzazione. Prima Munari,[2] in seguito Altan,[3] ne saranno sicuramente all’altezza dal punto di vista dell’impostazione grafica. Munari adotta certamente un’impronta più semplificata, ma non per questo banalizzata. Il suo stile è dotato di grande ironia, resa possibile grazie alla sua creatività ed esperienza in merito alla fantasia, caratteristica fondamentale dell’approccio che si deve adottare di fronte ai suoi disegni. Altan ha invece un tocco più simile a quello a cui siamo abituati noi oggi quando abbiamo a che fare con libri per bambini: colori vivaci, personaggi più simili ai fumetti o ai cartoni animati.

La torta in cielo

Gianni Rodari, La torta in cielo, disegni di Bruno Munari, Giulio Einaudi Editore, Torino 1966 (Sesta edizione).

Tra i numerosi nomi di illustratori che sono stati evidenziati nella storia delle edizioni italiane ma anche estere di Rodari, ce ne sono alcuni che brillano di una luce particolare. E sono proprio coloro che hanno collaborato alla realizzazione del caso preso in esame, che hanno svolto un compito fondamentale, in rapporto di non solo lavoro ma anche amicizia con l’autore, interpretando quella che è una favola moderna, una storia per ragazzi intessuta di argomenti che stimolano i genitori ad affrontare con i figli argomenti di attualità, impegnativi ma reali.

Tra le carte d’archivio della mostra “Rodari nel mondo”, che è stata allestita nel 2020 dal Centro Studi Gianni Rodari di Orvieto[4] in occasione del centenario dalla nascita dell’autore, è interessante il confronto a partire dalle copertine delle edizioni di filastrocche, poesie, favole, per capire come sono state interpretate nei vari Paesi, anche al di fuori dell’Europa. Ognuno di essi ha adattato in qualche modo i personaggi, i titoli, così che potessero avere maggior successo secondo il gusto nazionale, stampando tanti Rodari, uniti dallo stesso successo nel mondo dei bambini così come in quello degli adulti. A partire quindi dalle coloratissime copertine, ricche di personaggi fluttuanti e titoli fantasiosi, l’obiettivo era cercare di incuriosire il lettore bambino fin dal primo impatto.

La torta in cielo è stata costruita negli anni sessanta come la Grammatica della fantasia, ovvero con la tecnica del binomio fantastico, prendendo due parole a caso e accostandole con una preposizione o una congiunzione e formando una frase. E lo si nota già a partire dal titolo. È necessario che le due parole siano di campi semantici lontani, così da avere l’effetto di straniamento, e stimolare lo spunto per dare origine a tante storie diverse. Uno dei temi che stava molto a cuore a Rodari, oltre all’educazione e la libertà, era senz’altro la pace, proprio perché egli aveva vissuto e sapeva bene cosa fosse la guerra. E i bambini erano secondo lui l’esempio di come si possa vivere senza essere in guerra. La torta in cielo è un’opera pacifista per eccellenza: «le torte al posto delle bombe».[5] La torta del racconto è in realtà l’esperimento fallito di uno scienziato per produrre un’arma. Sono i bambini i protagonisti che scoprono la storia di quell’oggetto e come veri protagonisti non perdono mai la speranza di trovare una soluzione, che sarà mangiarla fino a farla sparire. Il loro atteggiamento è quello che si deve avere per un futuro di libertà, da cui deriva che loro stessi sono il futuro.

La torta in cielo è stata tradotta a pochi anni dalla sua prima edizione anche all’estero. In Francia ha preso il nome di La tarte volante, A pie in the sky in inglese, la tedesca Das fliegende riesending, mentre in territorio iberico è diventata La tarta voladora in spagnolo, El pastis caigut del ciel in catalano.

Nel 1976, dieci anni dopo l’uscita della prima edizione italiana, compare quella francese progettata dalla casa editrice parigina Hachette, all’interno della collana “Bibliothèque Rose”, cartonata e illustrata da Anny-Claude Martin.[6] Il titolo rispetta la volontà dell’autore, tradotto quasi letteralmente: una torta volante, che fluttua in cielo modo indefinito sulla copertina dietro ai protagonisti dell’opera, i cui neri profili non sono riempiti in modo uniforme, ma una sorta di macchia gialla e rossa, colori caldi contrapposti all’azzurro del titolo, fa da sfondo al disegno della scena centrale del racconto. Diversa e forse più moderna è l’interpretazione di Béatrice Veillon,[7] artefice della grafica delle edizioni successive per la stessa casa editrice. In copertina si ritrova uno solo dei protagonisti, intuitivamente Paolo, che si affaccia stupefatto al suo davanzale, dopo aver osservato con il binocolo che tiene tra le mani un ufo un po’ diverso da quelli che si trovano nei film di fantascienza: una gigantesca torta di frutta che vola sugli edifici della città. L’illustrazione assomiglia molto a un cartone animato.

A Pie in the Sky

A Pie in the Sky trad. inglese La torta in cielo di Patrick Creagh, ill. di A.R. Whitear, J.M. Dent & Sons LTD, Londra 1971.

Ci spostiamo in Inghilterra, dove l’unica edizione della Torta in cielo risale al 1971.[8] Patrick Creagh, diversamente da altre edizioni di opere rodariane in inglese che cambiano completamente veste a partire dal nome dell’opera, mantiene la traduzione letterale del titolo: A pie in the sky. La copertina rigida è ideata da Whitear, il quale utilizza sfumature quasi concentriche a circondare la vera protagonista della fiaba. Si ritrovano la città, con strade, case, prati e infine i due ragazzini affacciati da un edificio, molto piccoli e lontani dall’apparizione in cielo.
È a Stoccarda nel 1968 che viene stampata la prima edizione tedesca della Torta in cielo.[9] L’illustratore Ruth Wright rende la copertina coloratissima, la cui torta è il cielo stesso, formata da tanti strati uno diverso dall’altro e qualche bambino qua e là, intento ad assaggiarla, o meglio a divorarla. Un’interpretazione molto diversa rispetto a quelle di altri Paesi, che però a primo impatto funziona, lasciando impresse allegria e voglia di capire il motivo di un dolce così grosso piombato sull’intera copertina flessibile del libro. Mentre è la casa editrice Thienemann a lanciare questa prima edizione, sarà la Kinderbuchverlag, specializzata in letteratura per ragazzi, a curarne le due edizioni successive,[10] e infine, nel 1980 la Obelisk-Verlag a darne un’ultima proposta.[11] Con una visione stilisticamente opposta, la copertina di questa versione più recente mette i due bambini protagonisti in primo piano, mentre lo strano oggetto volante è solo un’ombra immersa nel blu. L’immagine sembra una sorta di adesivo, incollato su uno sfondo giallo, quasi a ricordare la prima edizione italiana, che verrà descritta più avanti.

La torta in cielo presa in esame in territorio iberico è un caso editoriale più variegato, perché oltre ad avere differenti edizioni, va incontro a due differenti traduzioni. In gallego la bibliografia rodariana è più limitata poiché questa lingua ha minore diffusione, pur essendo ufficiale, rispetto a spagnolo e catalano, motivo per cui il caso editoriale trattato non rientra nell’elenco bibliografico delle opere tradotte in questo dialetto. Nelle altre due lingue invece, si trovano riscontri positivi fin dal 1982. Il titolo La tarta voladora, edito dapprima dalla casa editrice Bruguera,[12] spicca sulla copertina in brossura dove l’illustratrice Petra Steinmeyer decide, a differenza dei casi visti finora, di escludere i due protagonisti e sostituirli con un uomo che dà ordine di puntare armi che sembrano cannoni contro la torta nemica. Quando è la Galera Editorial a prendere in mano tale libro, per le illustrazioni interviene Bruno Munari in persona con la sua impronta di designer, subito riconoscibile dal disegno astratto e minimale che pare quasi inciso sulla copertina delle edizioni più recenti.[13] La traduzione spagnola del titolo ha una costruzione sintattica somigliante a quella francese, mentre a sottolineare la provenienza dell’oggetto misterioso dal cielo è quella in catalano: El pastis caigut del ciel.[14] È di nuovo la Galera a curarne le stampe dal 1986 ed è proprio in queste traduzioni dove maggiore è il legame con le edizioni italiane, perché si ritrova l’illustratore Bruno Munari e con lui molti motivi, se non interi corpi e dettagli, ripresi sia dalle copertine già tradotte in spagnolo, sia da quelle in lingua originale. Immediatamente riconoscibile è il viso del pilota, solamente abbozzato, i cui tratti vengono riproposti nelle copertine delle traduzioni, rafforzando il legame con le opere originarie che forse più rispettavano la volontà dell’autore, avendo collaborato per molti anni con l’illustratore stesso.

Come ultimo caso, per capire le evoluzioni più o meno originali e creative che hanno avuto i titoli e le copertine della famosa opera La torta in cielo, verrà trattato quello in lingua italiana, ovvero il caso da cui tutto è cominciato e da cui sono stati presi gli stimoli per edizioni e soprattutto traduzioni nei Paesi esteri selezionati.

La prima edizione pubblicata da Einaudi nel 1966 è in assoluto quella più interessante, a partire dal modo in cui si presenta.[15] La versione originale ha infatti una copertina cartonata, molto semplice, di un giallo canarino sgargiante. Non è dunque il colore a richiamare il cielo, ma lo è sicuramente lo sfondo privo di limiti spaziali. Nella prima di copertina, oltre al titolo in alto a destra, preceduto dal nome dell’autore, è indicato in seguito, in modo altrettanto chiaro, il nome dell’illustratore, ovvero il famoso Bruno Munari. È proprio lui l’autore del grande viso di un pilota in primissimo piano, ripreso come si è detto per le opere tradotte, un probabile personaggio del racconto, disegnato con pochi tratti con i quali l’illustratore ottiene un risultato semplice, ma simpatico. Nessuna torta sulla copertina di questa prima edizione, ma è proprio questo che richiama la curiosità di aprire il libro e cercare un dolce tra gli altri disegni, oltre che tra le parole della storia.

Successivamente è l’Einaudi Ragazzi negli anni seguenti a cambiare lo sfondo, rendendolo più realistico. …qui Dedalo chiama Diomede, passo… è il sottotitolo che in questa nuova edizione è immerso in un blu profondo, sempre sconfinato, ma ancora nessuna traccia del misterioso oggetto circolare. Questa versione sarà ristampata con alcune pause per molti anni fino al 2018 (anche se per il centenario dalla nascita di Rodari è probabile che ci saranno altre ristampe), a testimoniare ancora una volta il successo e la contemporaneità dell’autore così come dell’illustratore.

Sono le versioni più recenti dell’Einaudi Ragazzi, sempre cartonate ma molto più sottili, in cui abbiamo un rovesciamento della concezione della semplicità che si ha a primo impatto, indefinita, che incuriosisce, passando invece a un’esplosione di colore. Per “La collana dei piccoli” infatti, le illustrazioni di Francesco Altan mostrano fin dalla copertina, quali saranno i protagonisti della storia, Paolo e Rita, i due bambini che hanno il coraggio di avvicinarsi all’oggetto sconosciuto. Compare infatti anche la torta sgargiante, che fluttua tra gli areoplanini. Queste edizioni escono per la prima volta nel 1993,[16] ma avranno numerose ristampe fino al 1997. Dopo una breve pausa, torneranno nel secolo successivo, in particolare nel 2007 e nel 2009, pubblicate a San Dorligo Della Valle, sempre dalla Einaudi Ragazzi.

Di concezione simile è l’edizione pubblicata ancora una volta dalla stessa casa editrice, dove a occuparsi delle illustrazioni è Pia Valentinis.[17] Lo stile è decisamente diverso, ma sempre molto allegro e colorato, con la torta che sbuca sullo sfondo delle case della città e il titolo che sembra essere parte del paesaggio.

Nel 2003, la casa editrice Edizioni San Paolo, ne pubblica una versione per la collana “I favolosi”, illustrata da Paola Formica.[18] La copertina si presenta con una massa di bambini che guardano in cielo, alcuni sorpresi, altri eccitati, la maggior parte spaventati dalla grosso dolce di cioccolato che vola sopra le loro teste. Questa edizione compare appunto nella collana sopracitata come supplemento della rivista “Il Giornalino. Il Grande Giornale dei Ragazzi”.

In occasione del centenario dalla nascita di Rodari, nel catalogo EL, c’è un’altra versione del 2019, illustrata da Chiara Baglioni per la collana “La biblioteca di Gianni Rodari”.[19] Due bambine con lo sguardo furbo che sembra fingano non stia succedendo nulla, si stanno portando via una fetta di torta molto più grossa di loro due messe insieme. Numerosi sono anche gli audiolibri creati per questo racconto, da cui è addirittura stato tratto l’omonimo film nel 1972-1973 con Paolo Villaggio, diretto da Lino Del Fra, per la casa di produzione Istituto Luce.[20]

È questo uno dei racconti lunghi o romanzi brevi di Rodari, perennemente attualizzato, che nutre grande fiducia nei giovani e compie una sorta di critica verso il mondo degli adulti e tra le righe anche alla politica.

Il testo vero e proprio della Torta in cielo, facendo riferimento alla prima edizione, è stampato su carta spessa, quasi cartone, uso mano. La giustezza del testo lascia ampi margini ai lati, in alto e in basso, quasi a dare continuazione all’effetto che trasmette già la copertina, quello di essere immersi in un universo e fluttuare tra le parole e i disegni. Questi ultimi invece, non hanno margini. Realiazzati in bianco e nero, quasi fossero schizzi, continuano in più pagine, e sono interrotti da ampi spazi bianchi, mentre talvolta sono caratterizzati da poche linee o da insiemi di punti. È proprio questo stile minimale a stimolare la fantasia del lettore, che a partire dai pochi tratti disegnati, presenti davanti ai suoi occhi, con l’ausilio del testo apre un mondo di colori nella sua mente e grazie alla sua fantasia. Proprio come voleva Rodari.

Allegra Loro

[1] La torta in cielo (1966), a cura di Redazione Virtuale, 15 dicembre 2001, in italialibri.net: <http://www.italialibri.net/opere/tortaincielo.html> (ultima consultazione: 7 giugno 2020).

[2] Bruno Munari nato e morto a Milano (1907-1998) fu un artista, designer e scrittore italiano. Insieme a Rodari è detto “maestro di fantasia”, poiché furono capaci entrambi di mischiare parole e immagini per aumentare la sensibilità dei ragazzi con finalità educative: l’accostamento di parole o forme in modo del tutto casuale e in forma di gioco, svolge un ruolo determinante nello sviluppo autonomo del pensiero (Antonello Tolve, Fantasia al potere, Tra Munari e Rodari, in “Artribune. Dal 2011 arte eccetera eccetera”, Roma 24 aprile 2017).

[3] Francesco Tullio Altan è nato a Treviso nel 1942 e ha studiato Architettura a Venezia. Ha cominciato a scrivere piccole storie per la sua bimba di tre anni, Kikka, e da lì non ha più smesso. Vive e lavora ad Aquileia, è un fumettista, disegnatore, sceneggiatore e autore satirico, famoso sia per la sua penna velenosa che contemporaneamente per la tenerezza dei suoi personaggi. Ha vissuto per cinque anni a Rio de Janeiro e tornato a Milano ha realizzato i bellissimi disegni per “Il Corriere dei Piccoli”, ideando un cagnolino a pois che conoscono tutti i bambini italiani: la “Pimpa”. Ha creato personaggi indimenticabili come Kamillo Kromo, la serie “Il primo libro di Kika”, e disegnato per le opere di Roberto Piumini. Per Gianni Rodari ha illustrato tutta la serie di libri pubblicati da Einaudi Ragazzi. Nel suo catalogo di illustratore all’interno della casa editrice, troviamo infatti titoli come: La gondola fantasma, Le favolette di Alice, Le storie di Marco e Mirko, Zoo di storie e versi, Prime fiabe e filastrocche, Fiabe e fantafiabe [Francesco Tullio Altan, Roberto Moisio, Altan (autobiografia non autorizzata), prefazione di Michele Serra, Skira, Milano 2019].

[4] Il Centro Studi Gianni Rodari di Orvieto nasce nel 1987, grazie ai soci fondatori tra cui il Comune di Orvieto in collaborazione con Maria Teresa Ferretti, la vedova Rodari, e la figlia Paola, in seguito alla prima edizione del “Premio alla fantasia Gianni Rodari – Città di Orvieto”, tenutosi nel 1984. Se ne fecero autentici promotori e paladini Enzo Nunzi, ideatore del Premio Fantasia e l’allora sindaco di Orvieto Adriano Casasole. Il Centro si occupa della diffusione del pensiero di Rodari, della tutela della sua immagine e della raccolta di tutte le opere critiche e letterarie, di tutti i suoi scritti giornalistici, numeri di riviste storiche come “Noi Donne” e “Il Pioniere” e articoli scritti sui quotidiani, ma anche le opere teatrali degli anni cinquanta. A gestire il Centro sono Lucia Vergaglia e Adelaide Ranchino, le quali spiegano che le copie sono tutte in originale e che sia possibile consultarle. Si trovano traduzioni in cinquanta lingue, tra cui anche giapponese e coreano. Favole al telefono e il Pianeta degli alberi di Natale sono tra le più tradotte (Il Discobolo, Edizione Nazionale nel mensile dell’Uisp, XL , N. 2, Roma luglio-dicembre 2019, p. 4).

 

[5] Ida Accorsi, Rodari e La torta in cielo: un messaggio di pace, in “Per la lunga vita”, 22 marzo 2019 <https://www.perlungavita.it/voci-dalla-rete/nonne-favole-e-bambini-di-ida-accorsi/1315-rodari-e-la-torta-in-cielo-un-messaggio-di-pace> (ultima consultazione: 18 maggio 2020).

[6] Gianni Rodari, La tarte volante, trad. di Thierry Séchan, ill. di Anny-Claude Martin, Hachette, Parigi 1976.

[7] Id., La tarte volante, trad. di Thierry Séchan, ill. di Béatrice Veillon, Hachette, Parigi 1982.

[8] Id., A pie in the sky, trad. di Patrick Creagh, ill. di A.R. Whitear, J.M. Dent & Sons, Londra 1971.

[9] Id., Das fliegende riesending, trad. di Ruth Wright, ill. di Winnie Gebhardt-Gayler, Thienemann, Stoccarda 1968.

[10] Id., Das fliegende riesending, trad. di Ruth Wright, ill. di E. Gürtzig, Der Kinderbuchverlag, Berlino 1970.

[11] Id., Das fliegende riesending, trad. di Ruth Wright, Obelisk-Verlag, Modling: Verlag St Gabriel 1980.

[12] Id., La tarta voladora, trad. di Francesc Miravitlles, ill. di Petra Steinmeyer, Bruguera Editorial, Barcellona 1982.

[13] Id., La tarta voladora, trad. di Angelina Gatell, ill. di Bruno Munari, La Galera Editorial, Barcellona 1987.

[14] Id., El pastis caigut del ciel, trad. di Àlvar Valls, ill. di Bruno Munari, La Galera Editorial, Barcellona 1986.

[15] Id., La torta in cielo, ill. di Bruno Munari, Einaudi, Torino 1966.

[16] Id., La torta in cielo, ill. di Francesco Tullio Altan, Einaudi Ragazzi, San Dorligo della Valle 1993.

[17] Id., La torta in cielo, ill. di Pia Valentinis, Einaudi Ragazzi, San Dorligo della Valle 2013.

[18] Id., La torta in cielo, ill. di Paola Formica, San Paolo, Alba 2003.

[19] Id., La torta in cielo, ill. di Chiara Baglioni, Einaudi Ragazzi, San Dorligo della Valle 2019.

[20] Roger Salomon, La fantasia di Rodari passa le Alpi, p. 38.


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Un libro di riferimento sui meccanismi dell’editoria https://editoria.letteratura.it/meccanismi-editoria/ https://editoria.letteratura.it/meccanismi-editoria/#respond Sat, 20 Feb 2021 15:47:43 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8475 Un viaggio nella produzione editoriale per interpretare i cambiamenti della società attuale: casi attuali e una prospettiva sulle nuove frontiere dopo il Covid-19 in "I meccanismi dell’editoria" di Roberto Cicala edito dal Mulino.

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Un viaggio nella f
iliera editoriale per interpretare i cambiamenti della società attuale: un volume di aggiornamento per chi vuole entrare nel mondo dei libri e per gli addetti ai lavori, con casi attuali e una prospettiva sulle nuove frontiere tecnologiche e organizzative dopo il Covid-19 e grazie all’intelligenza artificiale. Tutto questo in I meccanismi dell’editoria di Roberto Cicala edito dal Mulino.

«L’editoria sta cambiando ma è difficile capire quale sarà la dimensione nuova e soprattutto quella futura. Tutti pensiamo di conoscere questo oggetto, apparentemente semplice nel suo manifestarsi, in un parallelepipedo di carta e inchiostro più o meno tascabile oppure in uno schermo più o meno portatile; tuttavia questo prodotto culturale, vecchio di oltre cinque secoli e sempre nuovo anche nelle sue forme digitali, ha una complessità insita nei meccanismi della sua filiera, dall’autore al lettore». Le quasi 400 pagine del volume di Roberto Cicala sono il punto di partenza per un viaggio dietro le quinte di un best seller, di un’edizione di studio, di un testo scolastico o di un e-book o ancora un audiolibro, alla scoperta di professioni, processi, tecnologie, azioni comunicative e tipologie di ricezione che stanno attraversando trasformazioni, ma che possono essere conosciute, interpretate e vissute al meglio soltanto a patto di non disattendere l’esperienza maturata fin qui, soprattutto nel Novecento.

DENTRO IL LIBRO

Il libro edito dal Mulino nella collana “Itinerari” intende offrire un’introduzione aggiornata all’universo librario attuale, ai mestieri culturali dentro e fuori le case editrici, fino alle più diverse consuetudini di lettura, collocandosi all’interno della vasta bibliografia di settore, tra le indagini più storiografiche e gli strumenti più tecnici. Il metodo privilegia l’esperienza e l’esemplificazione, fondendo la teoria di un manuale sui meccanismi della filiera con la pratica di oltre sessanta case study legati alla contemporaneità dell’editoria italiana, con una profondità storica che va dai primi «Gialli» Mondadori a Harry Potter, da Calvino a Eco, dal self publishing alle piattaforme social di crowdfunding.

LA VOCE DEI PROTAGONISTI

Il taglio saggistico, con molte citazioni che fanno ascoltare la voce degli addetti ai lavori, lascia il posto nella parte centrale ad approfondimenti più formativi, anche sulla terminologia di settore, con un glossario italiano e inglese di riepilogo e con contenuti extra nello spazio web Pandoracampus, dove sono presenti indici di ricerca aggiuntivi (di case editrici, collane, periodici, opere letterarie citate), aggiornamenti e materiali ulteriori, anche multimediali e video.

Come scrive l’autore, docente universitario ed editore di riferimento nel campo della poesia e della saggistica letteraria, «è un diario di viaggio esteriore e interiore, materiale e mentale, che ricostruisce e ricompone il complesso delle parti che costituiscono la macchina editoriale e che sono tra loro collegate in modo da ottenere gli effetti sperati: lo stupore di una storia che commuove in un romanzo, l’emozione di un pensiero suscitato in un saggio, l’entusiasmo di poter conoscere un mondo inesplorato in un manuale, le parole che non si trovavano rivelatesi d’un tratto in una poesia, i fenomeni emergenti che traghettano le nostre narrazioni in un mondo liquido e interattivo».

UNA PROSPETTIVA ATTUALE E FUTURA

Alla base sta una grande fiducia nelle parole perché, afferma ancora Cicala, «esiste un ruolo partecipato e responsabile di gestire ogni testo, non soltanto da parte di chi lavora direttamente all’allestimento di un libro, alla cui pratica queste pagine sono un approccio, ma anche da parte di chi desidera informarsi e aggiornarsi per vivere più pienamente l’uso delle parole nella propria funzione professionale e nel ruolo comune di lettori: insegnanti e formatori, operatori della comunicazione, addetti alle relazioni pubbliche in diversi contesti, anche in ambiti scientifici e tecnici. E non va dimenticata una lezione fondamentale dell’editoria utile per tutti: l’importanza di saper valutare l’apporto delle diverse competenze in un’ottica di équipe. Un libro è sempre un’opera collettiva e la conoscenza della filiera giova a una lettura più consapevole».

Significativa è poi la dedica del volume: «ai giovani che da vent’anni accompagno in questo viaggio di conoscenza dentro i meccanismi del mondo dell’editoria e che continuano ad accompagnarmi in una consapevolezza sempre nuova sul futuro dei libri nelle loro mani».

Alcuni dei casi editoriali trattati nel volume

L’officina delle streghe, dal Nome della rosa alla Chimera; Gli incipit di Pavese (e i finali di un romanzo); Le tre teste di Erich Linder; Il caso Harry Potter e il nome di Albus Silente; Il Signore degli Anelli: traduzioni con polemiche e denunce; I giudizi di Bobi Bazlen , suggeritore da Montale ad Adelphi; Sciascia ispiratore di Sellerio; Contini curatore filologo dello Struzzo; Le storie delle bambine ribelli progettate tra social e crowdfunding; La solitudine dei numeri primi: un successo di squadra; L’«editore protagonista» e altri tipi secondo Bompiani; L’«editore ideale» di Piero Gobetti; Il decalogo di Arnoldo Mondadori; Esempio di un contratto di edizione; Il caso Dottor Živago con diritti su scala mondiale; Categorie di lettori di… copertine; «Gialli» Mondadori: la collana che dà il nome a un genere; Ungaretti diventa un classico inaugurando «I Meridiani»; Emme di Rosellina Archinto: come svecchiare i libri per l’infanzia; Il nuovo tascabile italiano: 1/«Bur; Il nuovo tascabile italiano: 2/«Gli Oscar»; I risvolti critici dei «Gettoni» e lo strappo di Fenoglio; Le «riunioni del mercoledì» dell’Einaudi; Il gattopardo postumo, rifiutato ma non del tutto; Le scritture «servili» di Calvino per «i libri degli altri»; Sereni, il direttore editoriale con la passione per la poesia; Quando cambia lo statuto del testo: l’editing pesante di Vittorini; La donna che corregge gli scrittori da casa: Grazia Cherchi; Uniformare: esemplificazione di norme redazionali; I «castelli di carte» di Zanichelli: un lavoro collettivo da 150 anni; Il balletto dei titoli: tra Elsa Morante e Mario Rigoni Stern; L’importanza delle illustrazioni nella storia di Salani; La grafica Penguin dell’italiano Facetti; I simboli Uni di correzione; I formati di stampa e il caso Iperborea; L’ecologia al quadrato della carta con le alghe della laguna di Venezia; Il mito del Garamond dal Rinascimento a Steve Jobs; Stampare a caratteri mobili oggi: Tallone, Casiraghy e gli altri; Come leggere le cifre dell’Isbn; Ipertesto, bit e compressione: le basi dell’editoria multimediale; Dalla pietra alla rete: l’internazionalizzazione digitale di De Agostini; Soldati e Mondadori, il grande anticipo e la coda di paglia; La logistica di Messaggerie: un gigante editoriale; L’amica geniale tra ufficio stampa e passaparola; 1974: grande pubblicità e piccolo prezzo per La storia di Elsa Morante; 1975: l’attesa e il lancio internazionale di Horcynus Orca; Il valore delle code in fiera per avere una dedica di Zerocalcare; Quali premi contano di più? Lo Strega e gli altri; Una storia estera: le edizioni Gallimard; Camilleri nel mondo e fuori dal libro; Il Mulino: da amici lettori a editori; I diritti dei lettori di Rodari e Pennac; La fatwa ai versetti di Salman Rushdie; Per una lettura accessibile ai disabili: il progetto Lia; Il primo archivio letterario italiano: Il Fondo Manoscritti di Maria Corti; Cataloghi storici: il caso della prima university press, Vita e Pensiero; Gomorra di Saviano: un made in Italy transmediale; Audible e la voce delle parole: una tendenza; e altri casi nel testo.

La scheda del volume:
Roberto Cicala, I meccanismi dell’editoria. Il mondo dei libri dall’autore al lettore. IL MULINO, collana “Itinerari, pp. 272, euro 24, ISBN 978-88-15-29220-9



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Webinar di presentazione dei contenuti del libro e della piattaforma Pandoracampus: clicca qui.

I capitoli. Premessa. – INTRODUZIONE. UN LIBRO OGGI. – I. Quale prodotto culturale?. – II. Quale paradigma?. – LA STO­RIA DI UN LIBRO: DALL’AUTORE AL LETTORE. – I. Alle origini dei testi: la scrittura. – II. Fuori dalla casa editrice: consulenze e collaborazioni. – III. Dentro la casa editrice: organizzazione, editori, contratti. – IV. Collane tra generi e paratesto. – V. I testi in redazione: tra editing e grafica. – VI. La produzione del supporto: carta e caratteri in tipografia, legatoria e digitale. – VII. La promozione: il lancio del libro. – VIII. La lettura: spazi, rice­zione e nuove forme. – CONCLUSIONE. I LIBRI DOMANI? – I. Aria di pessimismo sulla situazione attuale. – II. Perché essere ottimisti sul futuro. – Libri sui libri. Bibliografia essenziale ragionata. – Indici dei nomi e dei termini editoriali italiani e inglesi.

L’autore. Roberto Cicala (1963) insegna presso l’Università Cattolica a Milano, dove dirige il Laboratorio di editoria, e l’Università di Pavia, è editore di Interlinea e scrive su “la Repubblica” e “Avvenire“. Ha pubblicato, tra l’altro: I libri di Carlo Dionisotti (All’insegna del Pesce d’Oro, 1998) e Bibliografia reboriana (Olschki, 2002) con Valerio Rossi; Inchiostri indelebili (Educatt, 2012). Ha curato antologie di poesia, opere di Clemente Rebora e Improvvisi di Sebastiano Vassalli (Fondazione Corriere della Sera, 2016). Vive tra Novara e Milano.

Selezione della rassegna stampa

-Gian Carlo Ferretti, Un vecchio malato sempre arzillo, in “L’Indice dei libri del mese”, 4 (2021), aprile, p. 2
-Andrea Kerbaker, I cento mestieri messi in campo dall’editore, in “Domenica”-“Sole 24 Ore”, 4 aprile 2021.
-Alessandro Zaccuri, Dentro l’editoria, una fabbrica di soli prototipi, in “Avvenire“, 7 marzo 2021.
-Luigi Mascheroni, Ma pubblicarli paga ancora, in “Il giornale”, 9 marzo 2021.
-Mario Baudino, Così Albus Silente non diventò un calabrone, in “La Stampa”-“TopNews”, 16 marzo 2021.
-Giuliano Vigini, Una storia ancora da scrivere, in “La Lettura”-“Corriere della Sera”, 16 maggio 2021.
-Alberto Riva, Digitale, carte e delivery. L’editoria volta pagina, in “Venerdì”-“la Repubblica”, 7 maggio 2021, pp. 56-57.
-Gian Luca Favetto, Cicala “Il libro soffre ma vivrà benissimo cambiando aspetto”, in “la Repubblica”, Torino, 12 marzo 2021.
–Oliviero Ponte di Pino, Come funziona l’editoria, in “Doppiozero”, 2 aprile 2021
–Giuseppe Marcenaro, Cicala e Piazzoni, storie e prospettive del fare libri al tempo della bulimia, in “Alias”-“Il manifesto”, 20 giugno 2021

–Dario Campione, La mutazione antropologica che cambia il futuro del libro, in “Corriere del Ticino”, 12 marzo 2021.
L’editoria che smaterializza i libri, in “Leggere Tutti”, marzo 2021, p. 56
-Paolo Di Stefano, E dopo il design il Museo dle Libro?, in “Corriere della Sera”, 16 giugno 2021
-Valentina Giusti, Come cambiano i meccanismi dell’editoria, in “Cattolica Library”, 3 marzo 2021.

-Marcello Giordani, Ogni libro è un’opera collettiva che oggi pensa anche in digitale, in “La Stampa”, Novara, 25 febbraio 2021.
-Eleonora Groppetti, Il mosaico della macchina editoriale, in “Corriere di Novara”, 18 marzo 2021.
Roberto Cicala: in un libro i meccanismi dell’editoria stravolti dal Coronavirus, “in “L’Azione”, 26 maro 2021.
Altri:
Dentro i meccanismi dell’editoria in evoluzione: una guida, in “Il Libraio”, 14 marzo 2021.
I meccanismi dell’editoria che smaterializza i libri. Tre casi, in “Nuova informazione bibliografica”, 1 (2021), gennaio-febbraio, pp. 157-160.
-Martina Marzi, I meccanismi dell’editoria, Il mondo dei libri dall’autore al lettore di Roberto Cicala, in “Professione editoria”, Università Cattolica.
Walter Fochesato, Tutto sui libri, in “Andersen”, ottobre 2021.
Barbara Sghiavetta, recensione a I meccanismi dell’editoria, in “Teca”, XII (2021), 4, pp. 173-176.
“I meccanismi dell’editoria. Il mondo dei libri dall’autore al lettore” di Roberto Cicala, in “Letture.org”, dicembre 2021.
Francesco Montonati, recensione a I meccanismi dell’editoria, in “FMontanati.com”, 19 aprile 2021.
Come cambiano i “meccanismi dell’editoria”: le nuove frontiere in un volume fra attualità e innovazione, “PremiocittadiComo.it”, novembre 2021.
Intervento su I meccanismi dell’editoria a “Fahrenheit”-Rai Radio3, 16 febbraio 2021.

Intervento su I meccanismi dell’editoria a “Fahrenheit”-Rai Radio3, 16 febbraio 2021


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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La nascita dei “Meridiani” con Vittorio Sereni https://editoria.letteratura.it/la-nascita-dei-meridiani-con-vittorio-sereni/ https://editoria.letteratura.it/la-nascita-dei-meridiani-con-vittorio-sereni/#respond Fri, 19 Feb 2021 11:39:18 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8490 La collana dei "Meridiani", fondata da Vittorio Sereni nel 1969, costituisce una biblioteca ideale di classici in edizioni prestigiose che ancora oggi illumina l'immagine della Mondadori.

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Vittorio Sereni, intellettuale editore, seppe donare enormi contributi al mondo dell’editoria italiana, che a suo modo rivoluzionò, lavorando come direttore letterario presso la casa editrice Mondadori dal 1958 al 1975.

La sua carriera si inserì nel solco di un’editoria irripetibile, quella degli editori protagonisti, che si sviluppò durante il Novecento grazie a personalità come Arnoldo Mondadori, Valentino Bompiani e Giangiacomo Feltrinelli. Questa visse un apice negli anni sessanta, mentre verso la fine degli anni settanta iniziò a volgersi verso la forma di apparato industriale; tale cambiamento repentino e irreversibile fu percepito da Vittorio Sereni, che si ritirò al ruolo di consulente esterno per la Mondadori nel 1975.

L’«apprendistato involontario»

Vittorio Sereni ai Navigli di Milano, 1975.

Prima di intraprendere l’importante impiego presso la Mondadori, Vittorio Sereni lavorò come traduttore e consulente editoriale, tracciando un «apprendistato involontario»,[1] che sarà fondamentale per il suo futuro lavoro nella grande casa mondadoriana. Le esperienze precedenti al 1958 furono di cruciale importanza per delineare i leitmotiv che saranno poi presenti nella sua carriera editoriale: la cautela, l’antiideologismo di fondo, la prudenza, il tatto nella mediazione con gli autori e il costante sforzo di comprendere il proprio tempo. Il suo apprendistato editoriale gli permise di inserirsi in una fitta rete culturale e al suo ingresso nella casa editrice Vittorio Sereni venne immediatamente caricato di enormi responsabilità. Il ruolo di direttore editoriale lo pose a capo di vaste aree della sezione libraria della casa: fin da subito Sereni dimostrò una forte tensione al cambiamento, che lo spinse a intervenire su molte collane preesistenti e a progettarne di nuove che, come si vedrà, diventeranno marchi mondadoriani unici e longevi.

L’arrivo in Mondadori: le innovazioni

All’arrivo nella casa, fondamentale fu ad esempio la rivoluzione attuata da Sereni nell’ambito della collana dello “Specchio”, collezione di poesia precedentemente diretta da Giuseppe Ravegnani, che necessitava secondo il nuovo direttore di un rinnovamento radicale, una «nuova vita».[2] Vittorio Sereni volle inserire nello “Specchio” giovani poeti, come Giovanni Raboni e Giovanni Giudici, movimentando la collana che stava vivendo, a causa di una miopia editorial-culturale nei confronti della poesia, un periodo di forte stasi.[3] Questo periodo di crisi terminò grazie all’intervento sereniano che rese possibile il superamento della tradizione in gran parte italianistica della collana: basti pensare che dal 1960 al 1972 vennero pubblicati poeti come Pound, Kavafis, Seferis, Robinson, Hikmet, Celaya, Levertov, Huchel, Tate, Ponge, Olson, Creeley, Auden, Bobrowski, Plath, Char e Celan.[4] Questi autori erano in gran parte nuovi per il panorama culturale italiano e tutti erano caratterizzati da una forte partecipazione a eventi focali novecenteschi come la Resistenza, la guerra civile spagnola e l’esperienza del genocidio.[5]

Altra fondamentale iniziativa sereniana fu la creazione, nel 1965, degliOscar” mondadoriani, «grande operazione»[6] volta allo svecchiamento e al ricambio delle pubblicazioni della casa editrice, che iscrivendosi nella prudente strategia arnoldiana contribuì ad avviare il cosiddetto boom del romanzo degli anni sessanta e sessanta. Gli “Oscar”, collana economica di romanzi in formato tascabile, si rivolgevano al pubblico più vasto, grazie alla loro colorata veste editoriale e al canale di vendita delle edicole, ponendosi come «i libri-transistor che fanno biblioteca, presentano settimanalmente i capolavori della letteratura e le storie più avvincenti in edizione integrale supereconomica per il tempo libero».[7] La nuova collana mondadoriana dunque dichiarava sin da subito, specialmente grazie allo scritto sereniano in presentazione alla collezione, la propria volontà ludica: una perfetta soluzione per il dinamico uomo moderno. Torna quindi anche in questo importante progetto l’avversione di Vittorio Sereni per ogni tipo di elitarismo intellettuale e la volontà di assecondare invece la vasta circolazione delle opere, in vista dell’acquisizione di un ampio pubblico interessato. Gli “Oscar” presentano la compresenza di autori italiani e stranieri, classici e contemporanei, noti e istituzionali, insieme ad autori emergenti o meno celebri. L’eterogeneità delle pubblicazioni sarà ben presente anche nel progetto dei “Meridiani”, collana mondadoriana nata nell’autunno del 1969 per volontà di Vittorio Sereni, la cui vitalità perdura ancora oggi.

Il modello dei “Meridiani”

La collana dei “Meridiani” nacque sul modello della “Bibliothèque de la Pléiade” edita da Gallimard. L’idea di una nuova collana mondadoriana scaturì dal progetto di sostituire gradualmente le storiche collane dei “Classici Contemporanei Italiani” e stranieri, ampliandone e rilevandone il ruolo e introducendo nella Mondadori «una collana universale di classici in versione lusso, che mancava alla casa dai tempi della “Biblioteca Romantica”».[8]

Un volume della “Bibliothèque de la Pléiade” di Gallimard.

Vittorio Sereni aveva sin dall’inizio individuato la collana gallimardiana come modello, infatti già nel gennaio del 1969, quando il progetto dei “Meridiani” non aveva ancora una denominazione propria, Sereni descriveva i “Meridiani” come «una futura collana del tipo “Pléiade” (manca tuttora la denominazione), che allargherà la sua sfera anche ad autori del passato, superando il criterio della contemporaneità».[9] La “Bibliothèque de la Pléiade” fu fondata a Parigi nel 1923 da Jacques Schiffrin, un intellettuale esule da Baku a causa della Rivoluzione Russa. La collana di Schiffrin si proponeva come «strumento di conoscenza delle Pleiadi, le “stelle” della letteratura universale – con una naturale predilezione per quelle russe e francesi».[10] La “Bibliothèque de la Pléiade” si contraddistingueva per una grande attenzione alla elegantissima veste editoriale: i volumi erano infatti rilegati in pelle, stampati su carta bibbia, con un piccolo formato tascabile.[11] Gaston Gallimard rilevò nel 1933 la piccola azienda, mantenendo Schiffrin nella direzione e pubblicando volumi di qualità contenenti l’opera omnia di grandi autori, considerati classici, contribuendo quindi al «meccanismo sociale di monumentalizzazione» degli stessi scrittori.[12] La collana gallimardiana si proponeva quindi come una biblioteca ideale, garante di una sorta di Weltliteratur, con «diversi approcci tematici, fondati su alcuni periodi storici -l’età classica, l’illuminismo, l’età moderna- o generi o tematiche come la poesia e la traduzione».[13]

La varietà degli approcci tematici e dei generi pubblicati venne mantenuta nel progetto dei “Meridiani”, fortemente voluti da Vittorio Sereni anche per la stringente necessità di una collezione innovativa per la Mondadori, che riuscisse a mantenere un ritmo di pubblicazione più elevato rispetto a quello offerto dalla collana dei “Classici italiani”, diretti da Dante Isella.

La collana dei “Classici italiani” si proponeva di pubblicare le opere complete di moltissimi autori classici, con una laboriosa curatela filologica, che spesso era causa di ritardi o peggio di rinunce a molte pubblicazioni. Tanti furono gli scontri tra Vittorio Sereni e Dante Isella, che criticò aspramente sin da subito il nuovo progetto dei “Meridiani”, a suo parere sede inadatta alla pubblicazione dei grandi classici italiani. Dante Isella individuava grandi problemi strutturali nel nuovo progetto, che si ispirava alla “Pléiade” gallimardiana nella veste editoriale, ma che non poteva fare altrettanto per quanto riguardava la formula. Isella affermava infatti che essa non era adottabile «senza sostanziali mutamenti, imposti dal diverso carattere della letteratura francese rispetto alla italiana».[14] Secondo Isella infatti, se la tradizione letteraria francese era costituita da opere «scritte nella lingua di tutta una nazione»[15] e quella italiana non lo era, poco senso aveva ispirarsi a un modello così tanto inconciliabile per i “Meridiani” mondadoriani. Nonostante gli aspri scontri, Vittorio Sereni continuava a vedere nella nuova collezione dei “Meridiani” una grande occasione, poiché essendo una collana miscellanea avrebbe raggiunto un pubblico ampio e appassionato; inoltre, contenendo curatele di qualità, ma senza uno spiccato interesse di studio filologico, l’officina dei “Meridiani” sarebbe stata più agile. Questa fu un’importante intuizione da parte di Vittorio Sereni che aveva già iniziato a intravedere il repentino mutamento del panorama editoriale a cavallo tra gli anni sessanta e sessanta, che necessitava di iniziative editoriali tanto di qualità quanto di agile pubblicazione.

I “Meridiani” dalla prima pubblicazione al ritiro di Sereni

Particolare di uno scaffale con i “Meridiani” dello studio di Vittorio Sereni in via Paravia 37, Milano. Dal sito dell’Archivio Vittorio Sereni, Luino.

Il progetto dei “Meridiani” si concretizzò e inaugurò nel 1969 con Vita d’un uomo. Tutte le poesie di Giuseppe Ungaretti e i Romanzi di Franz Kafka, curati rispettivamente da Leone Piccioni ed Ervinio Pocar. Sin da subito emerge un tratto innovativo dei “Meridiani”, cioè quello di proporre dei «particolari connubi»,[16] sia tra autori i cui volumi escono quasi in contemporanea, ma soprattutto tra autore e curatore. Il primo Meridiano, dedicato a Ungaretti, fu allestito con la stretta collaborazione del poeta stesso, che si rivelò estremamente attento e partecipativo. Ungaretti, infatti, propose a Sereni di inserire le note in fondo al suo volume, «come fa Gallimard per i suoi della Pléiade»[17] e nell’estate del medesimo anno Sereni presentò finalmente il piano per l’allestimento del Meridiano ungarettiano, che avrebbe contenuto:

L’allegria, Sentimento del tempo, Il dolore, La terra promessa, Un grido e paesaggi, Taccuino del vecchio, Apocalissi (con l’aggiunga dell’inedito Proverbio), Dialogo, Derniers jours, Poesie disperse. In seguito, come appendice: note e apparato delle varianti. Il volume ha una prefazione di Leone Piccioni e una seconda prefazione d’autore dal titolo Riflessioni suggerite all’autore dalla sua poesia.[18]

La cura verso l’allestimento del volume inaugurale della collana provocò dei ritardi, di cui Sereni si scusò con Ungaretti nel gennaio del 1969, affermando che la novità assoluta della collezione richiedeva una particolare attenzione tecnica, poiché era fondamentale evitare qualunque tipo di errore, «sia dal punto di vista grafico sia dal punto di vista editoriale in genere»,[19] che sarebbe andato a scapito del volume ungarettiano, così come quello dedicato ai romanzi di Kafka. Con l’uscita di questi due primi volumi si definisce il programma della collezione, che aveva l’intento di essere una biblioteca ideale, che potesse fornire:

un panorama di “classici sempre contemporanei” in varie linee di sviluppo nella storia letteraria, che corrisponda poi, col tempo, a una viva immagine di ciò che i “Meridiani” rappresentano nell’ordinamento geografico del nostro pianeta. Una “biblioteca ideale” dunque, aperta alle più varie espressioni della letteratura di livello mondiale, che per certi aspetti potrebbe richiamare la “Bibliothèque de la Pléiade” e che si rivolge tanto allo studioso quanto al più vasto pubblico di chi ama le grandi letture. [20]

Nell’officina dei “Meridiani” il ruolo di Vittorio Sereni fu fondamentale poiché, benché non fosse il direttore della collana, seguiva passo per passo l’allestimento di molti volumi. Sin dal 1968 Sereni aveva ben chiaro quali autori meritassero di essere editi dalla casa editrice Mondadori, tra cui Bacchelli, Arpino, Banti, Bassani, Buzzati, De Céspedes, Del Buono, Palazzeschi, Piovene, Vittorini e Silone. Molti dei nomi che compaiono nella lista stilata da Sereni verranno pubblicati nei “Meridiani” e questo è sintomatico di quanto il direttore editoriale fosse lungimirante e di come molte delle scelte da lui prese negli ultimi anni della sua direzione avrebbero influenzato a lungo la collana.[21] Fondamentale fu la sua capacità mediatica, atta a conciliare gli autori e i curatori, ma anche il direttore di collana Ferrata e i vertici della casa: Sergio Polillo, Arnoldo e Giorgio Mondadori.[22] Grande merito sereniano inoltre fu quello di aver rinunciato all’omogeneità della collana, permettendo ai “Meridiani” di aprirsi a pubblicazioni di opere non solo contemporanee, ma anche classiche antiche. I “Meridiani” non rinunciano a incursioni nei più disparati generi, operando «immissioni anche rischiose» e assecondando il «criterio dell’apertura senza la quale non si riuscirebbe a tenere il passo con nuovi orientamenti e nuovi modi espressivi».[23]

Riproduzione fotografica della custodia dei “Meridiani“.

Per quanto riguarda la veste editoriale i “Meridiani” si presentano con un formato tascabile, cm. 10,2 x 16,9,[24] ispirato ai volumi della “Pléiade” di Gallimard; la copertina dei “Meridiani” è cartonata, con un rivestimento in similpelle blu notte e impressioni color oro sul dorso. La sovraccoperta è composta da una semplice pellicola trasparente, mentre la custodia dei volumi in cartone leggero, stampato soltanto in nero, riproduce di solito un’immagine fotografica dell’autore a cui è dedicato il “Meridiano”. I volumi della collana presentano un dorso tondo e una carta bibbia, sottile con una bassa grammatura, ricca di cellulosa e quindi non trasparente, stampata con l’elegante carattere Garamond Simoncini.[25] I capitelli dei “Meridiani” sono in tela e il taglio superiore delle pagine è colorato, aspetto grafico tradizionale per l’editoria di inizio Novecento, volto a evitare che la polvere potesse danneggiare le pagine dei più preziosi volumi. I risguardi sono stampati in una carta marcata di colore verde con il simbolo della collana di colore marrone. I volumi sono privi di apparati iconografici, a differenza dei “Millenni” Einaudi, che contengono invece illustrazioni di valore e grande qualità artistica, avvicinandoli al libro strenna. Il progetto grafico dei “Meridiani” fu ideato nel 1969 da Daniele Baroni, con una supervisione di Mario Spagnol, ispirandosi alla “Pléiade”, come era avvenuto già nelle precedenti serie dei classici mondadoriani.[26]

I “Meridiani” si propongono quindi come un oggetto di lettura lussuoso, che ha una vita editoriale a sé. Essi accolgono «edizioni complessive»[27] o dell’intera opera o di un’accurata scelta di scritti rappresentativi dei grandi autori a livello mondiale. L’officina dei “Meridiani” lavora quindi su testi già largamente maneggiati dal punto di vista editoriale, conferendogli però una sede editoriale «cucita su misura»,[28] che varia da volume a volume, poiché si plasma sulle fattezze dell’autore a cui si riferisce. Il curatore di ciascun Meridiano affronta una sorta di «lavoro pionieristico»,[29] durante il quale vi è la scelta dell’opera da pubblicare, dell’ordine dei testi, dell’edizione da dare a testo. Altro importante passaggio è la redazione degli apparati, per i quali è necessaria una grande competenza critica e filologica.[30] Non vi è quindi un protocollo di edizione, definito e tracciato in modo stabile poiché le varie edizioni si plasmano sì alle caratteristiche dell’autore, ma anche al lavoro del curatore. Ecco quindi, che come si è già notato, i “Meridiani” non rinunciano all’omogeneità del proprio programma solo dal punto di vista della scelta dei titoli e dei generi pubblicabili, ma anche dal punto di vista dell’approccio con cui si struttura la curatela e l’apparato di commento.

Ulteriore specificità dei “Meridiani” è che essi sono affiancati da un pilastro fondamentale, sempre ideato da Sereni: gli “Oscar”. Questi si rivelano sede ottimale per la riedizione di classici in edizione economica, qualora si volesse riproporre un testo edito nei “Meridiani”. Con gli anni e le diverse direzioni il rapporto tra le due collane è diventato sempre più vitale e sintomatico di questo avvicinamento è il fatto che i “Meridiani” e gli “Oscar” dipendono oggi dalla medesima Direzione editoriale: l’Editoria di catalogo. Lo sforzo critico delle edizioni dei “Meridiani” confluisce in parte nelle edizioni economiche, permettendo a porzioni ancora più ampie di lettori di usufruire di un eccellente strumento culturale e letterario.[31]

I passaggi di testimone

Dal 1970 Vittorio Sereni, pur rimanendo presente e partecipe nell’allestimento dei volumi, affidò la direzione dei “Meridiani” a Giansiro Ferrata. Durante la direzione di Ferrata vennero pubblicati importantissimi “Meridiani”, come i Racconti di Kafka, le Opere scelte di Pound – ancora vivente – e il Faust di Goethe, prima incursione nella collana di un autore classico in senso lato. Molta attenzione durante la direzione di Ferrata venne dedicata alle traduzioni, inaugurando il metodo della traduzione con il testo a fronte, che caratterizzerà tutti i futuri “Meridiani” di poesia straniera. La direzione di Ferrata terminò nel 1986, con il subentrare al suo posto di Luciano De Maria, a cui si deve l’importante iniziativa della Recherche proustiana, con la traduzione di Giovanni Raboni. La più grande peculiarità dei “Meridiani” è però l’offerta di diversi percorsi di lettura, che spaziano tra generi distantissimi tra loro, trattati con la medesima attenzione e cura, ricollegandosi quindi al proposito sereniano di ottenere con il tempo un «uditorio omogeneo, non di casta»[32] e di conferire pari dignità ai diversi generi letterari, tutti fondamentali a costruire una solida e completa formazione dell’uomo moderno. La rinuncia all’omogeneità della collana per operare «immissioni anche rischiose»[33] fu auspicata da Vittorio Sereni nella relazione programmatica del 1969, al momento inaugurale della collana, e questa rimane una costante in tutta la storia dei “Meridiani”.

Renata Colorni con Andrea Camilleri.

Nel 1995 la direzione dei “Meridiani” passò a Renata Colorni, che apportò alla collana enormi contributi, accelerandone le pubblicazioni e arricchendo il suo catalogo. Attorniata da un’equipe coesa, lavorò per mantenere le qualità e le specificità della collana, molte risalenti all’avvio sereniano, come l’ibridismo del catalogo, tanto caro a Sereni. La vistosa accelerazione di pubblicazioni ebbe un apice nel 1999, anno in cui si pubblicarono sedici volumi nell’arco di un solo anno.[34] La direzione di Renata Colorni non solo quindi aumentò le pubblicazioni e l’ampiezza dei volumi, che arrivano oggi anche a duemila pagine, ma diramò ancora di più i percorsi delle pubblicazioni. I “Meridiani” a oggi, con più di quattrocento volumi editi, contano circa «diciannove percorsi»:[35] classici latini e greci, la letteratura italiana dal Duecento al Settecento, poi gli scrittori italiani dell’Ottocento, del Novecento, i Classici della letteratura europea, gli scrittori europei dei Novecento e quelli americani dell’Otto e Novecento; vi è anche un percorso dedicato a racconti, novelle e fiabe. Per quanto riguarda la poesia i “Meridiani” accolgono poeti italiani del Novecento, accanto a quelli dialettali e alla grande poesia straniera moderna. Vi è poi una sezione dedicata all’Oriente, e ancora al teatro, alla filosofia, alle lettere, alla letteratura di viaggio, al genere mistico e religioso e, infine, molte sono le antologie pubblicate dai “Meridiani”.[36]

Percorsi fondamentali dei “Meridiani”

Senza la pretesa di esaminarli tutti, si procede con un’analisi di alcuni percorsi fondamentali per la collana. Per quanto riguarda la pubblicazione di classici antichi e moderni, il lavoro sui testi antichi comporta un enorme sforzo di ricerca e curatela e ciò che si rivela determinante, essendo testi già rimaneggiati, è la qualità dell’edizione, che necessita «curatele di eccezionale originalità e valore».[37] Interessante nei “Meridiani” è il percorso dedicato ai classici latini e greci, che si apre nel 1977 con l’antologia dei Tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide a cura di Raffaele Cantarella, che procede con l’Antologia della poesia latina, a cura di Luca Canali, la quale accoglie gli autori più canonici affiancandoli ai poeti arcaici.[38] Importante serie di classici italiani è quella dedicata a Dante Alighieri, inaugurata nel 2011 con il primo volume comprendente Rime, Vita Nova e De Vulgari Eloquentia, frutto della curatela di Claudio Giunta, Guglielmo Gorni, Mirko Tavoni e Santagata. Il secondo “Meridiano” dantesco esce nel 2014 e comprende Convivio, Monarchia, Epistole ed Egloghe, a cura di Gianfranco Fioravanti, Claudio Giunta, Diego Quaglioni, Claudia Villa e Gabriella Albanese. L’intera impresa dei “Meridiani” danteschi dimostra ancora una volta come l’allestimento di una simile iniziativa si dimostri una vera e propria impresa editoriale per la quale è necessaria un’équipe ad hoc.

Altro percorso della collana è quello dedicato al genere epistolare; i “Meridiani” dedicano ampi spazi alle lettere degli autori, pubblicando le Lettere leopardiane ma anche quelle di Shelley, Pirandello, Proust, Mann, Kafka, Calvino e Don Lorenzo Milani. Alle Lettere di Thomas Mann è dedicato un intero volume, edito nel 1986 a cura di Italo Alighiero Chiusano, il quale ha operato sia la scelta delle lettere che uno studio sulla traduzione e la presentazione di esse. Ancora vi è il Meridiano contenente le epistole di Italo Calvino, Lettere (1940-1985), che conclude la titanica impresa dei “Meridiani” dedicati all’autore. Grande spazio nella collezione è dedicato agli autori novecenteschi, di poesia e prosa, italiani e stranieri. La serie dedicata a Calvino vede come secondo volume Fiabe Italiane. Raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dei vari dialetti da Italo Calvino, edito nel 1993 a cura di Mario Lavagetto, di grande importanza perché introduce nei “Meridiani” il genere favolistico popolare. L’impresa dei “Meridiani” dedicati a Italo Calvino è estremamente rilevante, poiché è completa e conforme alla natura variegata della collana; dell’autore si riesce infatti a tracciare un ritratto obliquo, che tocca diversi generi letterari in maniera trasversale.

Di Calvino sono pubblicati anche i Saggi, a cura di Mario Barenghi, editi nel 1995, contenenti testi «spesso mai raccolti in volume».[39] Questa scelta si collega a un altro interessante percorso della collana: quello della saggistica. Nel 1973 si collocano due importanti iniziative: i volumi dedicati a Roberto Longhi e a Luigi Einaudi. Queste due opere aprono la strada nei “Meridiani” al genere saggistico, nel primo caso d’arte e nel secondo di storia ed economia. I volumi dedicati a Einaudi e Longhi rimangono gli unici ad essere dedicati per intero al genere saggistico, motivo per cui costituiscono due casi di grande interesse. Molti autori novecenteschi editi nei “Meridiani” non sono autori storicamente mondadoriani, come Pasolini, Carver, Singer, Saramago o Terzani,[40] e la loro pubblicazione è legata alla legge dell’opera in raccolta, la quale fa sì che possano essere editi autori le cui opere singole appartengono ad altre case editrici, con la clausola che se ne pubblichi o l’opera omnia o una significativa selezione.[41] Ciò che i “Meridiani” fanno con scritti di autori già editi altrove è apportare loro il valore aggiunto: l’eccezionale lavoro di curatela che li contraddistingue.

Per quanto riguarda la poesia italiana del Novecento è indispensabile citare l’immensa impresa del Meridiano di Eugenio Montale, che vede come prima uscita Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, contenente la riproduzione anastatica delle prime edizioni di La casa dei doganieri, Finisterre, Satura e Xenia. Il volume, edito nel 1984, è seguito da Prose e racconti a cura di Marco Forti, con note ai testi e varianti di Luisa Privitera. Per i “Meridiani” esce poi nel 1996 Il secondo mestiere, costituito da quattro volumi di prose critiche sulla letteratura, l’arte, la musica e la società, curati da Giorgio Zampa.[42]

A conferire ulteriore prestigio alla collana dei “Meridiani” è l’impegno nel lavoro di traduzione, che come afferma Renata Colorni è da considerarsi «un lavoro letterario a pieno titolo», poiché «una buona traduzione può essere decisiva per il successo editoriale di un libro».[43] Nella collana sin da subito confluiscono grandi autori stranieri come Hardy, di cui uscì nei “Meridiani” un unico volume dedicato ai suoi Romanzi, a cura di Carlo Cassola. Questo, edito nel 1973 e contenente Il ritorno del nativo e Tess dei d’Urberville, comprenderà anche la sezione intitolata Dalle “Poesie” di Hardy, con componimenti attentamente selezionati e tradotti da Cassola, Bertolucci e Montale.[44] La traduzione da parte di grandi nomi della letteratura italiana è sintomatica dell’altissima attenzione rivolta alle traduzioni da parte dell’officina dei “Meridiani”.

Il prestigio in casa Mondadori continua

Lettera di Sereni a De Maria sulla poetessa Sylvia Plath, 4 febbraio 1976, in ArchAmeDlSereni, f. Plath. Da Se fossi editore, a cura di E. Esposito.

Ecco quindi che i “Meridiani” offrono al lettore numerosi percorsi possibili e di conseguenza molteplici modalità d’approccio ai testi, varie e interessanti, poiché essi permettono di approfondire non solo diversi generi letterari, ma anche diversi momenti storici o fenomeni sociali e letterari.[45] Per questo motivo, come afferma Patrizia Landi, la collana dei “Meridiani” non è paragonabile ad altre collane di classici e non la vuole essere stricto sensu.[46] Essa manca infatti di moltissime opere fondamentali per una collana di classici in senso lato, specie nell’ambito della letteratura antica e del panorama ispanofono, ma anche riguardo alla letteratura russa e inglese; quest’ultima, ad esempio, è rappresentata nei “Meridiani” soltanto da Emily Dickinson e Sylvia Plath, molto amata da Sereni. Dunque, i “Meridiani” si muovono all’insegna dell’eterogeneità delle pubblicazioni, contengono delle scelte e, snaturando in parte il proposito iniziale sereniano, prediligono la contemporaneità, ricavandosi un significativo e fedele pubblico di lettori. È chiaro quindi quanto grande sia l’eredità sereniana lasciata nel mondo editoriale italiano, ma ancora di più nel progetto e nell’immagine grafica che hanno reso i “Meridiani” un vero e proprio marchio mondadoriano.

L’impronta di Vittorio Sereni è ben visibile sin dalle prime pubblicazioni della collana, ma la serietà e l’eclettismo culturale da lui impostati si protraggono fino ad oggi, rendendo i “Meridiani” una collezione di enorme prestigio, che migliora di giorno in giorno l’immagine della casa editrice Mondadori. Come afferma Patrizia Landi nel suo saggio Come una Pléiade. Appunti per una storia dei “Meridiani”, «è proprio in questo senso che i “Meridiani” si qualificano come la maggiore collezione di classici moderni, che per il momento non trova ancora equivalenti in altre iniziative editoriali ispirate ad analoghe ambizioni culturali e commerciali».[47]

Greta Giorgia Palmazio

Estratto da: Greta Giorgia Palmazio, tesi di laurea, Università di Pavia, Pavia 2019-2020, relatore Chiar.mo prof. Roberto Cicala.

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I molti volti di un’opera: il caso dei «Promessi Sposi» https://editoria.letteratura.it/i-molti-volti-di-unopera-il-caso-dei-promessi-sposi/ https://editoria.letteratura.it/i-molti-volti-di-unopera-il-caso-dei-promessi-sposi/#respond Tue, 05 Jan 2021 17:55:58 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8403 La maggior parte delle persone conosce i «Promessi sposi» dalle antologie scolastiche, altre si sono avventurate tra le pagine dello stesso Manzoni. Poche ne conoscono i numerosi rifacimenti, adattamenti e satire cui, nel corso del tempo, il romanzo è stato sottoposto. Ne proponiamo una rapida carrellata.

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Il successo dei Promessi sposi è stato tale da incentivare numerose opere che ruotano intorno al capolavoro manzoniano e ne prendono in considerazione una serie di aspetti peculiari, li riadattano per una diversa finalità (didattica, parodica ecc.) o un differente mezzo, quale cinema e teatro.

Nel mondo delle antologie

Molte sono le edizioni antologiche dedicate a personaggi emblematici del romanzo. I casi più affrontati sono quelli della monaca di Monza e dell’Innominato, ma non mancano monografie dedicate alla figura del Sarto, a don Ferrante, all’avvocato Azzecca-Garbugli o agli altri personaggi religiosi. Letture Manzoniane ’87[1] è una raccolta edita dal Centro Nazionale di studi Manzoniani di Milano nel 1988 i cui saggi hanno per oggetto alcuni personaggi dei Promessi sposi.

Non mancano poi editori che pubblicano opere nelle quali sono contenuti solo alcuni capitoli del romanzo, oppure ripercorrono le vicende del capolavoro offrendo al lettore il «sugo di tutta storia». Nel 2000 ad esempio, viene ultimata la stampa, presso la casa editrice Beretta per Lecco, a cura di Riello SpA, di un volume[2] intitolato I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta contenente i capitoli dal XXII al XXV, il cui testo è preceduto da un saggio di Danilo Zardin, Federico Borromeo: “Chi era costui?”, tradotto anche in inglese e seguito dai riassunti dei capitoli presenti nell’edizione. Si tratta di un’opera con la copertina cartonata, rivestita di tessuto blu. All’interno delle pagine sono presenti ampi spazi bianchi attorno al testo dei capitoli e sono inserite alcune pagine in carta patinata a colori che riproducono frasi tratte dai capitoli o immagini del cardinale di proprietà della Biblioteca Ambrosiana.

Copertina dell’antologia dei Promessi sposi, edisco, Torino 2008.

Sono poi molto frequenti le edizioni antologiche scolastiche che offrono agli studenti degli assaggi del romanzo. Le più recenti sono spesso accompagnate da supporti digitali come I promessi sposi. Antologia,[3] editi nel 2011 da Petrini, o l’omonimo volume[4] pubblicato nello stesso anno dalla Loescher e curato da Gilda Sbrilli che cerca di catturare l’interesse del lettore inserendo sulla quarta di copertina la celeberrima frase tratta dall’introduzione del romanzo «nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanere tuttavia sconosciuta; perché…a me era parsa bella, come dico, molto bella».[5] Altri esempi sono I Promessi Sposi[6] del 2010 della casa editrice Bulgarini, un’edizione antologica con guida alla lettura[7] e commento a cura di Enrico Ghidetti, nata dalla collaborazione con il Centro Nazionale di Studi Manzoniani e l’edizione[8] di edisco del 2008 a cura di Marco Romanelli e Giuseppe Battaglia nata proprio per rispondere alle esigenze[9] imposte dai tempi scolastici.

Riadattamenti, satire, parodie e reinterpretazioni

Come molti altri capolavori, anche l’opera di Manzoni non è stata relegata al solo piano letterario, ma ha varcato anche le soglie della drammaturgia e del cinema. Ne sono alcuni esempi Lucia Mondella ovvero I promessi sposi. Dramma per Ferdinando Villani[10] edito a Lanciano presso Masciangelo nel 1869 nella cui prefazione[11] l’autore sottolinea il suo impegno a rispettare il più possibile le intenzioni messe a punto da Manzoni.

Prima pagina dei Promessi Topi pubblicati da Walt Disney su “Topolino” nel 1989.

Altri esempi sono I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti[12] di Antonino Catulli, I promessi sposi. Riduzioni teatrali[13] di Anne-Christine Faitrop Porta, I promessi sposi nel cinema[14] di Vittorio Martinelli e Matilde Tortora e Promessi sposi d’autore: un cantiere letterario per Luchino Visconti[15] in cui i due curatori, Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti, ricostruiscono la storia del cantiere di scrittura cinematografica dei Promessi sposi raccogliendo e ordinando i progetti di scrittori e intellettuali come, ad esempio, Alberto Moravia, Emilio Cecchi, Giorgio Bassani. Tra i vari riadattamenti che sono stati fatti del capolavoro di Manzoni spiccano quelli linguistici, eccone alcuni esempi: Nuizes, libera traduzione e interpretazione de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni in vernacolo ladino[16] di Debettin Giovanni, edito a Milano da Tetragono nel 1983; “Ste spusalizi un’ s’à da fè!” I promessi sposi in dialetto romagnolo[17] di Farneti Duilio, edito da Stilgraf a Cesena nel 1986; I Promessi sposi in poesia napoletana[18] di Raffaele Pisani, edito a Catania nel 2013 presso la Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di Magistero. Non mancano poi le edizioni satiriche come i celebri Promessi sposi[19] di Guido da Verona o I Promessi topi[20] o I Promessi paperi[21] editi dalla Walt Disney rispettivamente nel 1989 e 1976 su “Topolino”.

Guido da Verona, I Promessi sposi, Società Editrice Unitas, Milano 1930.

Una delle edizioni satiriche più famose dei Promessi sposi è quella realizzata da Guido da Verona nel 1930.[22] L’opera, pubblicata dalla Società Editrice Unitas di Milano, mantiene il titolo dell’originale manzoniano I Promessi Sposi,[23] ma con annesso il sottotitolo di Alessandro Manzoni e Guido da Verona. Di quest’opera sono stati impressi anche cento esemplari numerati. A causa delle sue caratteristiche l’opera viene messa al bando[24] nel 1929 sia da parte dell’autorità religiosa, sia da parte del regime fascista: infatti l’autore decide di riprendere la vicenda di Renzo e Lucia trasportandola negli anni venti e con l’inserimento di aspetti poco conformi alla morale e al clima del regime, come evidenziato dalla seconda di copertina dell’edizione del 1998:

Lucia è una bellezza provinciale che parla francese e che, per farsi strada a ogni costo, non si rifiuta a nessuno, tranne che a Renzo. Quest’ultimo viaggia in Fiat 525, mentre Don Rodrigo, più comodamente, in Chrysler. L’astuto Don Abbondio invece, va a letto con la perpetua e converte i vecchi Buoni del Tesoro in Prestito del Littorio. Per non parlare della Monaca di Monza, lascivissima e con spiccate tendenze lesbiche. Il rifacimento del capolavoro manzoniano risulta divertente quanto intelligente.[25]

Quest’opera segna una sorta di svolta nel rapporto tra Guido Da Verona e Alessandro Manzoni: più volte Guido da Verona manifesta il suo disappunto nei confronti dell’autore milanese, sia per le sue opere in versi, sia per quelle in prosa[26] ma leggendo la sua Introduzione ai Promessi sposi i toni nei confronti di Alessandro Manzoni sono molto più pacati e positivi.

Apertura al fotoromanzo

Inizio dell’opera I Promessi sposi. Grande fotoromanzo del capolavoro di Alessandro Manzoni, Mondadori, Milano 1953.

Il fotoromanzo è un genere di letteratura popolare nato in Italia nel 1946[27] e poi diffusosi in tutto il mondo, destinato principalmente a un pubblico femminile. Si tratta di una sorta di racconto in sequenze, accompagnato da disegni, fotografie, dialoghi e didascalie. La cosa che più incuriosisce di questo fenomeno editoriale è la sua popolarità.

I principali protagonisti di questo fenomeno sono “Grand Hotel” della casa editrice Universo, “Bolero film” di Mondadori e “Sogno” di Rizzoli. Negli anni cinquanta è proprio “Bolero Film” che dà alla luce “Le Grandi Firme”, una serie pensata per riadattare il testo di romanzi classici secondo le caratteristiche del nuovo genere. Tra gli autori scelti per queste rivisitazioni non può mancare Alessandro Manzoni con i suoi Promessi sposi.[28] Mondadori presenta questa novità editoriale con grande entusiasmo senza rinunciare però a un tono provocatorio nei confronti di un lettore scettico e sfavorevole al fotoromanzo e alla sua ormai raggiunta maturità:

Per quelli che non considerano ancora il fotoromanzo come una forma d’arte o per lo meno come un moderno linguaggio «volgare» nel senso classico e nobile della parola; per quelli insomma che ancora dubitano che questo nostro tempo dinamico e atomico sia all’affannosa ricerca di un nuovo mezzo d’espressione adeguato al secolo della rapidità e della televisione, una riduzione a fotoromanzo dei Promessi sposi potrebbe apparire in qualche modo come una fatica per lo meno arrischiata, se non vana. Proprio a coloro che si mostrano dubbiosi, siamo lieti di offrire questo Albo-Bolero che racchiude, in immagini fotografiche, l’immortale capolavoro. […] In questa riduzione, personaggi ambienti, costumi, paesaggi, sono rigorosamente aderenti al testo manzoniano, e soprattutto il dialogo del grande scrittore milanese è stato, perfino nelle virgole, scrupolosamente rispettato. Tutte le figure del libro, da Lucia a Renzo, da don Abbondio a padre Cristoforo e don Rodrigo, appaiono vive così come il lettore del romanzo le vede balzare da quelle mirabili pagine. È dunque con giustificato orgoglio che offriamo ai nostri lettori questo nuovo Albo-Bolero che può essere definito il gioiello della Collana Capolavori.[29]

Un caso editoriale dunque, questo, particolare rispetto agli altri: un tentativo di avvicinamento dell’opera manzoniana a un pubblico più vasto, femminile e popolare che altrimenti, con molta probabilità, non si sarebbe mai avventurato nella lettura di un romanzo di una portata tale. Una sorta di sfida, intrapresa da Mondadori che per l’ennesima volta ha raggiunto un grande successo seguendo tre aspetti fondamentali: «primo aver creato nuovi canali di vendita – secondo offerta di opere di alto valore letterario – aver fede costanza e coraggio nelle imprese nelle quali si crede».[30]

Saggistica

Moltissime sono le opere dedicate all’analisi di caratteristiche e aspetti particolari del romanzo e delle loro trasformazioni nelle diverse edizioni.[31]  Tante forniscono delle chiavi di lettura per affrontare l’opera[32] offrendo una preparazione di fondo sui temi toccati da Manzoni: ad esempio le condizioni storiche dell’epoca in cui è ambientato il romanzo e quelle contemporanee all’autore o l’epidemia di peste e tutto ciò che ne consegue; riguardo a quest’ultima è un esempio significativo il saggio di Antonio Guadagnoli presente nell’anonimo volume Storia della famosa peste di Milano, edito da Pagnoni, intitolato Elegia episodio estratto dalla descrizione della peste di Milano inserita nel romanzo “I promessi sposi” di A. Manzoni.[33]

Illustrazione della casa di Lucia in Giuseppe Bindoni, La topografia del romanzo I promessi sposi, Enrico Rechiedei, Milano 1895.

Alcuni saggi si concentrano su alcune città citate nel romanzo, come Giuseppe Belotti nell’opera Bergamo nei promessi sposi[34] o Empio Malara che invece si sofferma sulla città di Milano nell’opera, nata in collaborazione con il Centro Nazionale di Studi manzoniani, I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della grande Milano svelate da Alessandro Manzoni[35]. Nel 1895 Giuseppe Bindoni pubblica presso l’editore Enrico Rechiedei di Milano un’opera intitolata La topografia del romanzo I promessi sposi,[36] corredata da carte topografiche, tipi e vedute.[37] L’autore ripercorre i luoghi del romanzo attraverso citazioni e riferimenti tratti dal testo di Manzoni. Alla fine dell’opera una sezione è dedicata a uno dei luoghi dove visse Manzoni per un certo periodo, il palazzo al Caleotto, in cui ha iniziato a progettare il suo romanzo.[38]

Estratto da: Simona Bressan, I volti di un classico: itinerario tra casi editoriali dei Promessi sposi, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2015-2016, relatore Chiar.mo prof. Roberto Cicala.

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Quando si giudica un libro dalla copertina. Il caso “Medusa” https://editoria.letteratura.it/quando-si-giudica-un-libro-dalla-copertina-il-caso-medusa/ https://editoria.letteratura.it/quando-si-giudica-un-libro-dalla-copertina-il-caso-medusa/#respond Mon, 04 Jan 2021 11:28:09 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8385 Un omaggio alla veste grafica della "Medusa", la collana di Arnoldo Mondadori Editore che ha fatto la storia dell'editoria e del design.

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«Mai giudicare un libro dalla copertina»: un’espressione del linguaggio comune che invita a considerare l’aspetto esteriore delle persone come poco o per nulla rappresentativo delle stesse. Nel campo dell’editoria, tuttavia, la copertina fa parte di quegli elementi (quali titolo, autore, formato, collana ecc.) che risultano «una componente essenziale delle “sorti” del testo».

Uno straordinario caso in cui l’aspetto — il cosiddetto «paratesto» — ha avuto un ruolo fondamentale nel favorire le vendite e il successo delle pubblicazioni riguarda la collana “Medusa” della Mondadori.

Copertina del primo volume della collana “Medusa”, Alain-Fournier, Il grande amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1933.

La “Medusa“, nata nel marzo del 1933 con un titolo di Alain-Fournier, Il grande amico, è la prima collana di narratori stranieri contemporanei della Mondadori.

Si tratta di una brossura in formato 14×22 cm la cui veste grafica ha fatto la storia dell’editoria e del design: fondo bianco con cornice verde bordata di nero; al centro un rettangolo in cui, sotto autore e titolo, troviamo il logo della collana — una stilizzazione delicata della gorgone Medusa su progetto grafico di Bruno Angoletta —; in alto, sempre inserita in un rettangolo, la scritta «I grandi narratori d’ogni paese» e, in basso, il nome della casa editrice.

Il «verdemedusa», così Dino Buzzati intitola un articolo dedicato alla collana, rappresenta dunque un’innovazione grafica al cui interno gli autori pubblicati non sono di minor importanza: da Hemingway a Joyce, da Mann a Hesse. A testimonianza di quanto sia importante il connubio contenuto-estetica, quasi che il successo del primo non possa essere disgiunto dalla seconda.

Tra i meriti della collana ricordiamo la sprovincializzazione dell’Italia attraverso l’apertura alle letterature mondiali e la nascita di uno dei laboratori culturali italiani più vivaci all’epoca, tanto che Mario Soldati, in merito alla censura cui molte pubblicazioni andarono incontro sotto il regima fascista, scrisse:

A questo  mondo, il grande problema che si chiama vita è affrontato e risolto soprattutto dalla difficile arte della letteratura; […] il grado in cui si eccelle in quest’arte sarà, sempre, il miglior indice della libertà morale di una società o di una nazione. […] Non si spiegherebbe altrimenti il veto che colpì la pubblicazione della “Medusa” nel periodo più crudo e trionfante del nazifascismo. Una storia ben raccontata è sempre, anche quando meno lo si direbbe, un brandello di realtà viva e cosciente: un guizzo di luce in più, un passo avanti.

Per saperne di più: Stefano Salis, Incantati da verde Medusa, in “Il Sole 24 Ore”, 3 ottobre 2010, p. 34 e Velania La Mendola, Per una storia della “Medusa”: contrabbando, consacrazione e declino in Libri e scrittori da collezione, a cura di Roberto Cicala, Maria Villano, EDUCatt, Milano 2007.


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Pinocchio illustrato https://editoria.letteratura.it/pinocchioillustrato/ https://editoria.letteratura.it/pinocchioillustrato/#respond Sun, 03 Jan 2021 15:56:38 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8356 Quali sono le immagini che hanno reso Pinocchio il burattino più conosciuto e amato al mondo? Un viaggio che dai bozzetti, attraverso gli illustratori più noti, ci condurrà fino alla controversa versione disneyana e alla contemporaneità.

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Quali sono le immagini che hanno reso Pinocchio il burattino più conosciuto e amato al mondo? Un viaggio che dai bozzetti, attraverso gli illustratori più noti, ci condurrà fino alla controversa versione disneyana e alla contemporaneità.

A fine Ottocento si va delineando e formando una nuova letteratura, quella per l’infanzia, che vede in Pinocchio il primo grande esempio e punto di riferimento. Secondo Emilio Garroni in Pinocchio si verifica una mistificazione che avviene nel momento in cui Collodi stesso mette in discussione il proprio ruolo di autore, lasciando trasparire un «Collodi adulto», un «Collodi bambino» e insieme essere un «Collodi adulto che scrive per bambini».[1] La letteratura per l’infanzia, quando non è come quella di Pinocchio, destina il bambino ad essere eternamente tale perché tende a nascondergli, mistificandolo, «il rapporto oscuro e negativo con il mondo degli adulti, con la vita, cioè con l’ambivalenza in cui gli adulti si realizzano bilanciando realtà e irrealtà».[2]

Pinocchio diventa immagine: dai bozzetti ai primi grandi figurinai

Un contributo rilevante al successo di Pinocchio lo si deve agli illustratori, che prima di prendere matita e colori in mano, sono stati a loro volta lettori delle Avventure.

Pinocchio è appunto un mito, proprio perché è sempre facilmente identificabile da coloro ai quali è – forse – autenticamente diretto, cioè dai bambini che non sanno leggere, ma che possono tuttavia anche guadagnarsi una personale, irripetibile conoscenza delle Avventure, proprio guardando le figure e seguendo l’itinerario grafico percorso dall’inconfondibile protagonista.[3]

Occorre precisare che alla prima comparsa del racconto a puntate su “Il Giornale per bambini” le Avventure non sono corredate da alcuna rappresentazione grafica. Una vera e propria anomalia per un giornale dedicato ai piccoli lettori. La ragione è da ricondursi al carattere intermittente della stesura dei capitoli da parte dell’autore che scoraggia l’editore dall’affidare a qualche disegnatore professionale il compito di illustrare la storia di Pinocchio. Infatti Guido Biagi comunica a Collodi:

Non ti posso nemmeno far fare le vignette – aveva scritto – non avendo nulla in mano. Se tu me ne mandassi 46 capitoli cercherei di Ximenes o di altri che tu potresti indicarmi.[4]

Pinocchio viene raffigurato per la prima volta da Ugo Fleres (in “Giornale per i bambini”, 16 febbraio 1882).

Solo dopo l’interruzione più prolungata, viene inserita una vignetta: Pinocchio è raffigurato impiccato ad una bilancia; il suo corpo è dalla parte di chi guarda e l’altro braccio della bilancia pende verso un cerchio, ed un ago nero, che punta verso il basso. Questa piccola immagine è realizzata da Ugo Fleres (Messina 1857-Roma 1939), che ha «avuto l’onore di avere inaugurato l’immaginazione grafica a proposito del burattino.[5] Egli viene incaricato da Guido Biagi di tradurre in immagine il trade union tra la prima serie di capitoli ed i successivi. Ed in effetti l’ago della bilancia costituisce il punto di divisione tra presente e futuro della storia, come demarcazione del prima e del dopo l’interruzione della pubblicazione. Questa figura ha la funzione di spiegare dunque le intenzioni dell’autore piuttosto che illustrare le vicende della storia.[6]

La storia di Pinocchio, al momento del suo esordio come libro, incontra il suo primo corpo illustrativo grazie al lavoro dei cosiddetti “figurinai”. Con questo termine ci si riferisce a quei venditori ambulanti che commerciavano, nelle città e nelle campagne, statuine di marmo o gesso dette appunto figurine, oppure figurine e libretti a stampa come le immagini da appendere alle pareti, quali lunari o effigie dei santi.

Nell’Ottocento in Italia sono molti gli editori, tra cui Salani e Sonzogno, Barbèra e Bemporad, Paggi e Le Monnier, che commerciano i lunari e altri tipi di fogli volanti e prodotti simili al feuilleton francese.[7] Non è un caso che sia proprio Firenze il luogo prediletto ove fiorisce la professione del figurinaio, e cioè il luogo in cui vissero ed operarono tutti i più antichi fra i disegnatori italiani per l’infanzia, che hanno costituito un bacino di professionalità cui la fiorente editoria della città ha attinto per implementare l’ambito di quel genere letterario.[8]

Ed è in questo contesto che si collocano i primi illustratori delle storie di Pinocchio. Le Avventure di Pinocchio vengono per la prima volta rappresentate da Mazzanti e Chiostri, figurinai che lavorano entro un ambito editoriale avviato ma complesso.

Mazzanti nasce a Firenze nel 1852 ed è legato a Collodi da una vera amicizia anche, forse, dovuta al fatto che vi sono affinità biografiche tra i due, come per esempio la frequenza alla Scuola degli Scolopi, e spesso accompagna il Lorenzini nelle sue passeggiate notturne.[9] Già abile illustratore, s’incontra con Collodi quando gli viene dato il compito di illustrare due sue opere: la traduzione dal francese de I racconti delle Fate di Perrault e Storie Allegre.

Mazzanti, diversamente dal Lorenzini che giunse per gradi al Pinocchio, liberando via via solo una parte della sua fantasia e delle sue capacità di attingere al mondo degli archetipi e dei miti, diede già con le illustrazioni per le Storie Allegre di Collodi, una prova estremamente riuscita di quelle che furono sempre le sue migliori possibilità.[10]

Le modalità espressive con cui Mazzanti affronta Pinocchio risentono del viaggio recente e significativo tra le pagine francesi di Perrault. Ed inevitabile è che si confronti con le immagini di Gustave Doré, che ha illustrato la sopracitata storia prima di lui, e da cui fa derivare qualche linea gotica. Basti pensare quanto il famoso Barbablù di Dorè assomigli al nostro Mangiafoco. Nonostante le somiglianze molti sono gli elementi che però distanziano i due illustratori, a partire dalle conoscenze tecniche di ciascuno. Infatti mentre:

Dietro l’infinita, monocorde e laboriosa pazienza che riempie di segni, sfuma con grigi resi da fittissime campiture, attenua con miriadi di tratti la robusta chiarezza dell’impostazione data da Doré alle sue tavole, si indovina la organizzata e industre schiera degli anonimi incisori che operano negli atelier […].[11]

di contro il segno a stampa di Mazzanti è legato a quello iniziale della matita:

E si muove, libero e vagamente primitivo, secondo intemperanti e brevi bizzarrie, sogghignanti svolazzi e frenesie a malapena trattenute, nello spazio assolutamente esiguo delle piccolissime vignette, ma con la sicurezza di chi ha convintamente e creativamente negato il limite della pochezza spaziale e da ciò ricava veri tesori e riferimenti specifici.[12]

Mazzanti illustra Pinocchio per la prima stampa in volume (Felice Paggi Libraio-Editore, Firenze 1883).

Mazzanti disegna in totale 62 tavole, alcune delle quali assomigliano più a schizzi privi della dimensione favolistica, altre invece sembrano da lui favolisticamente più partecipate. Oltre a Doré si rinviene come altro modello di riferimento anche quello francese dei disegni di Grandville e al suo mondo di animali parlanti. Mentre valorizza i personaggi, dà scarso rilievo all’ambiente e al paesaggio. Trascura l’ambiente collodiano per focalizzarsi sul carattere, identificando le situazioni con il personaggio: per fare un solo esempio, la casa della Fata si riduce alla figura e immagine della Fata stessa, rappresentata come eterna bambina e primavera. Quanto a Pinocchio, ne trasmette la personalità irriverente e sfrontata nel frontespizio del libro: vediamo un Pinocchio che guarda dritto verso l’orizzonte, con le mani sui fianchi, circondato dagli animali e dalla Fata, ma da nessun altro personaggio umano.

Mazzanti in molte tavole ricorre all’uso di silhouette nera per un motivo funzionale alla descrizione psicologica del personaggio, quella della corsa compulsiva che, come si è detto sopra, Collodi descrive con l’uso di sinonimi e di similitudini (correre come un levriero o come una lepre). Questa corsa è interpretata da Mazzanti come fuga verso la vita ma anche come fuga dalla paura.[13]

Anche se l’immagine di Pinocchio che scaturisce dalla matita di Mazzanti è piuttosto gotica e grottesca, ciò non gli impedirà di essere stato l’unico figurinaio ad aver illustrato l’opera collodiana vivente l’autore e di sfondare le porte del successo nel mondo ancora oggi.

L’immagine del burattino con la casacca da clown bianca diventa subito paradigmatica.[14]

Altro figurinaio di Pinocchio è Carlo Chiostri che viene considerato:

Il secondo e più interessante inventore di Pinocchio. Fascino del tempo passato a parte, le sue rappresentazioni grafiche, eleganti, secche, limpide nel segno, risultano ancora penetranti e suggestive.[15]

Nasce a Firenze nel 1863 e perso «fra i suoi pennini e minuscoli modelli» diventa uno dei maggiori figurinai di fine Ottocento e inizio Novecento perché «povero» ma «laboriosissimo»:

Gli capitò lo straordinario dono di illustrare i due unici capolavori dell’Ottocento italiano: I promessi sposi e Pinocchio.[16]

Inizia a lavorare, come Mazzanti, per Bemporad e Salani. Già illustratore per l’infanzia, diventa famoso anche per i disegni compiuti per il Ciondolino di Vamba. Il suo stile è definito e ciò che lo caratterizza sono i tre elementi di cui si compone:

Il grigio che elaborò e esaltò in tutti i possibili toni; l’acquerello con le sue visionarie pastosità; lo sfumato che rese più vaghi e straniti i suoi improbabili ma esatti personaggi.[17]

Quando gli viene dato l’incarico di illustrare Pinocchio, come prima cosa riprende le figure di Mazzanti, apportandovi variazioni di poco conto. Già dalla copertina sembra riprendere l’immagine di Pinocchio di Mazzanti, ma allo stesso tempo se ne discosta:

Pinocchio è ancora in primo piano, ma insieme al gatto e alla volpe, posti in alto, in contrapposizione al grillo parlante, posto in basso, anch’esso in primo piano. Il personaggio perde così la sua posizione centrale e diviene uno dei personaggi in scena, non l’unico. […] All’interno del volume vi è una sostanziale libertà rispetto all’impianto precedente, le figure divengono più aggressive per via di una forte identificazione delle situazioni ambientali in cui si muove il burattino […]. Quello che nel Mazzanti è indefinito, qui trova forte definizione.[18]

Chiostri, inoltre, contribuisce a universalizzare Pinocchio proprio perché lo restituisce ad un contesto in cui il personaggio è immerso:

Chiostri cerca di introdurre il fantastico all’interno della realtà quotidiana, Mazzanti si era mosso in direzione opposta infantasticando il reale.[19]

Chiostri mette insieme per la prima volta il reale e il fantastico (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze 1901).

Ed infatti nell’edizione del 1901 per Bemporad, che cerca in un qualche modo di riscrivere le stesse tavole del suo predecessore per i primi due capitoli, già al terzo se ne discosta, dando respiro al suo stile. Il disegno del capitolo III diventa così emblema e simbolo dell’illustrazione chiostresca: il Carabiniere che prende per il naso Pinocchio. Qui si vede come Chiostri vede il mondo, caratterizzato dalla compresenza di reale e surreale. E come nella fiaba, così accade nelle tavole: inserisce sì un elemento straniante nel disegno, ma questo non è destabilizzante, anzi, sembra quasi che faccia parte naturalmente della realtà.

Chiostri disegna in copertina un Pinocchio rassomigliante a quello di Mazzanti (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze 1901).

Elemento straniante è lo stesso Pinocchio: per la prima volta lo vediamo di fronte, con una propria espressività a seconda di quello che gli succede. E inoltre, sul frontespizio, Chiostri riprende sì la stessa immagine di Mazzanti – con Pinocchio con le mani sui fianchi –, ma il personaggio non guarda più verso l’orizzonte ma sembra avere un’espressione allucinata e attonita che lo caratterizza poi per tutta la storia.

A differenza di Mazzanti, Chiostri ci fa rivivere gli ambienti della Toscana rurale e cittadina, come l’esterno del Gran Teatro dei Burattini con il pubblico abbigliato secondo la moda del tempo, gli uomini col cappotto e cilindro e le donne con il fazzoletto in testa e la scuola rurale.

Chiostri lavora per una vita:

Sopra gli uffici dell’Editore Le Monnier, prigioniero d’un tavolino del Seicento bolognese posto sotto la finestra, sul quale lavorerà ininterrottamente, curvo e magro, con la coppola in testa e la giacchetta in alpaca, fino alla morte, avvenuta a Firenze il 7 settembre 1939, a 76 anni d’età.[20]

Le illustrazioni di Chiostri vengono poi incise anche su legno da Adolfo Bongini, a scapito però delle sfumature del disegno.[21] Tuttavia la casa editrice Bemporad, dato il grande successo ottenuto, arriva alla tiratura di 350 000 copie.[22] Si potrebbe dire che dopo Mazzanti e Chiostri «agli altri non è rimasto che inventare».[23]

Pinocchio a colori

L’edizione illustrata da Mussino non solo è la prima a colori, ma è anche l’editio princeps e la prima di lusso (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze 1911).

L’inizio di una nuova era nell’illustrazione di Pinocchio lo si deve ad Attilio Mussino, il quale nasce nel 1878 a Torino. Nelle sue rappresentazioni si legge il segno di un nuovo contesto storico, quello giolittiano, economicamente e culturalmente più stimolante del periodo austero in cui operarono Mazzanti e Chiostri. Per la casa editrice Bemporad Mussino produce centinaia di tavole rimanendo a contatto con Pinocchio e gli altri personaggi per almeno 35 anni. Ogni qualvolta Bemporad ripropone la favola di Pinocchio in una diversa forma editoriale, commissiona a Mussino nuove e diverse tavole che a loro volta risultano di diversa qualità e riuscita. Ma l’edizione fondamentale da ricordare è quella del 1911: si tratta dell’edizione princeps, la prima a colori ed è la prima edizione di lusso venduta al prezzo di 12,50 lire rispetto alle 2,50 lire delle precedenti edizioni.[24] Mussino fa una riscrittura del Pinocchio chiostresco, presentando così il protagonista:

Pinocchio non ha più il cappello a cono ma una sorta di calottina, non porta più la gorgiera ma un collettone floscio e anche il vestito a fiori di carta manca dei consueti, evidenti, riferimenti al mondo del circo.[25]

I contorni e i contrasti sono netti e precisi, ma il colore è il vero filo conduttore del racconto: attraverso le diverse tonalità (cupe, chiare, neri e blu, verdi accesi) l’illustratore esprime via via il senso e l’atmosfera del racconto e le caratteristiche dei personaggi, cosicché testo e disegno diventano complementari. Mussino con:

Estrema precisione di un segno a macchia, scultoreo e nitido incontra spesso un’enfasi raffinata […].[26]

e riesce:

A concentrare, nel suo inconfondibile segno nero – robustamente aggressivo, quasi scanzonatamente plebeo, ma insieme maneggevole e imprevedibile, ricco sempre di una incontrollabile fantasia – echi provenienti da territori diversi e fra loro lontani ma sempre riconoscibili.[27]

Egli è stato in grado di rinnovare «l’iconografia pinocchiesca», ci dice il critico Bargellini, in quanto la narrazione è disegnata passo passo, anche attraverso l’uso delle sequenze.

Mussino infatti utilizza figurine scontornate che rimandano l’una all’altra, come tanti fotogrammi in successione, precorrendo la tecnica del cartone animato.

Diverso è l’ambiente disegnato perché diverso è l’ambiente in cui vive il disegnatore: se Mazzanti e Chiostri vivono nell’età umbertina, Mussino è dell’età giolittiana e così nelle tavole non c’è più la Toscana, ma Torino.[28] Il popolo viene rappresentato secondo l’abbigliamento tipico della borghesia piemontese. Ed è così che se Chiostri utilizza un minuzioso realismo, Mussino invece presenta la realtà e i personaggi come una galleria di caricature. Lo stesso Pinocchio:

È lontano dal possedere la fissità drammatica e allucinata del Pinocchio di Chiostri, e che rivela clamorosamente, spalancando o chiudendo a ogni momento la bocca, ogni più passeggero stato d’animo.[29]

Tra le tavole più famose vi è quella dell’arresto di Pinocchio da parte dei Carabinieri, il Gatto e la Volpe rappresentati con accentuato antropomorfismo – anche Mussino riprende la lezione di Grandville – e il bel ritratto della Fata, che sembra la Bella Addormentata.[30] I personaggi sono o divengono essi stessi burattini attraverso una forte connotazione caricaturale.

Sergio Tofano esalta i movimenti flessuosi e teatrali del protagonista (Edizione Libreria Italiana, Milano 1921).

Quando Sergio Tofano (Roma, 1886-1973), in arte Sto, disegna per la prima volta Pinocchio è nel 1921, a quattro anni di distanza dalla prima apparizione nel “Corriere dei piccoli” del personaggio strampalato da lui inventato di nome Bonaventura. Pinocchio e Bonaventura vanno a braccetto nei suoi disegni, uno rimanda continuamente all’altro per l’indiscutibile somiglianza. Nascono velocemente 23 illustrazioni, raccolte in un volumetto, che non ha avuto tuttavia un gran successo probabilmente a causa della copertina disegnata da Mussino e quindi per il contrasto e differenze tra i due disegnatori. Lo scarso successo di questa iniziativa è testimoniato dal fatto che non ne verrà fatta una seconda edizione.

Diversamente dagli altri illustratori, Sto non teme la figura di Pinocchio che è presente in ogni tavola, non manca mai né come spettatore né come protagonista, né si limita a rappresentarlo, come invece altri illustratori, di spalle o di profilo o accennando solo alla sua presenza tramite silhouette. Pinocchio è personaggio centrale, mentre l’ambiente circostante perde completamente d’importanza. Di Pinocchio esalta i movimenti flessuosi e teatrali riconquistando così il suo essere davvero marionetta, leggera e flessibile, nonché le espressioni spesso esasperate di stupore e di gioia. Per Sto l’unico protagonista è Pinocchio e trascura altri personaggi chiave del racconto. Addirittura la Fata o il Gatto e la Volpe non compaiono mai nelle sue tavole.[31]

Lo stile liberty nelle illustrazioni dei fratelli Cavalieri (Salani Editore, Milano 1924).

Nel 1924 esce per i tipi di Salani l’edizione, in piccolo formato, con le illustrazioni dei fratelli Luigi e Maria Cavalieri. Le loro tavole, in totale otto, divengono subito famose e apprezzate per il loro gusto liberty. I personaggi, non molto spontanei nei loro gesti amplificati e teatrali, risultano tuttavia dolci e piacevoli. Pinocchio riconquista il suo cappello ed abito da clown di mazzantiana memoria ma è molto dolce e accattivante con le labbra ed i pomelli rossi ed il sorriso quasi femmineo.[32] Questi due disegnatori hanno insieme rivisto Pinocchio con lo sguardo tipico dell’Art Nouveau, attraverso delicate linee espressive. Ma vi è pure chi vi ha visto una certa deformazione dei personaggi anche con una lieve derisione come per esempio:

Il pescatore verde, pieno di riccioli, di volute, cosparso di conchiglie, è di per sé un personaggio liberty e così la chiocciola, lo strano serpente, per non dire della fatina. Pinocchio poi, vibra tutto tra le pieghe di un floreale vestitino, mentre il gatto e la volpe sembrano tratti da un fregio di Beardsley.[33]

Le prime illustrazioni pensate per gli adulti

Alcune edizioni possono essere considerate per adulti piuttosto che per ragazzi, data la presenza, a volte invadente, dell’interesse volto più ai valori formali o simbolici del testo. Tra i disegnatori di questo tipo di edizioni vi è Leonardo Mattioli (1928-1999) che illustra per Vallecchi nel 1955 una nuova edizione delle Avventure, con l’introduzione di Luigi Volpicelli. I lavori per questa edizione lo impegnano per circa un anno poiché cerca di esprimere al meglio le suggestioni del testo. Pinocchio è semplice silhouette che si muove nello spazio, non si vede il suo volto né i colori dei suoi vestiti. I colori sono nell’ambiente e il tutto si dipinge di azzurro carta da zucchero e arancio, beige e marrone, rosso spento e blu notte. La frantumazione delle figure, nonché la consuetudine a firmare ogni tavola con la propria iniziale fanno pensare a una certa influenza del cubismo e di Picasso.[34]

Il mondo ridondante e goliardico di Jacovitti (Edizioni AVE, Roma 1964).

Benito Jacovitti (Termoli 1923-1997) si avvicina a Pinocchio la prima volta nel 1943 per la casa editrice La Scuola di Brescia. Compie i disegni in bianco e nero, colorati poi da Aristide Longato. Disegna Pinocchio una seconda volta nel 1946 per i tipi Fratelli Spada e questa volta si tratta di una riduzione con immagini e testo a fianco. Ma già il suo stile è ben definito: il suo mondo è ridondante e goliardico, ricco di significati nascosti: basta aguzzare la vista un attimo per vedere, nel marasma di colori e figure, allegorie alla quotidianità o elementi del tutto estranei al racconto. Nel 1964 per le edizioni AVE, Jacovitti affronta di nuovo Pinocchio. L’immagine sembra parlare e raccontare di più rispetto al testo. Immancabili sono le tavole di derivazione fumettistica come quella della colazione con la pera di Geppetto e Pinocchio e quella del Gran Teatro dei burattini, tavola quest’ultima divenuta simbolo del suo stile affannoso ed affollato.[35] Si tratta di una «gragnuola di bum-bum, drig, puffette, bang e gulp».[36]

All’edizione del 1964 e allo stile «stracarico e ridondante» di Jacovitti, si affianca nello stesso periodo un’altra edizione: quella illustrata da Alberto Longoni per Vallardi nel 1963, caratterizzata da «un calligrafismo formale di grande poeticità».[37] In origine l’edizione è stata curata dalla casa farmaceutica Midi come strenna per i clienti ed è di formato gigantesco (35x50cm). Quello di Longoni è uno stile ben preciso e delineato che si discosta completamente dalla schiera di illustratori del tempo. Anche Pinocchio è particolare: di lui si nota ogni singola nervatura di cui è composto il suo legno ed è immerso:

In un paesaggio ingombro di colpi di penna, fittissimo di trame tratteggiate, nuota in un mare dove l’intrigo dei segni è volto a creare arabescati fantastici e improbabili, sale su carrozze che, pur tirate da centinaia di ciuchini, appaiono quasi avviluppate da ragnatele. […] personaggio principale è qui l’illustratore.[38]

Il Pinocchio onirico di Topor (Olivetti, Milano 1972).

Roland Topor, artista francese di origine polacca (Parigi 1938-1997), oltre ad essere un grande illustratore, è anche uno scrittore di romanzi per l’infanzia, un cineasta e animatore. Il suo carattere tenebroso è riflesso e nelle sue storie e nei suoi disegni, divenendo così in toto un illustratore «onirico».[39] È Giorgio Soavi che gli commissiona la strenna Olivetti per il 1972 ed è così che Topor accetta di incontrare Pinocchio. È il primo illustratore che riesce a trasporre in disegno l’inquietudine del personaggio: nasce un Pinocchio carico di significati e simboli: le paure ancestrali (il serpente), i complessi edipici (la fatina ormai donna/madre/amante), il Pesce-Cane-Grembo che inghiotte e poi restituisce un Pinocchio nuovo, simboli fallici (il naso di Pinocchio).[40] Sono le stesse parole di Topor a spiegarci il perché di questa sua visione:

Io l’adoro questo burattino. È l’unico personaggio letterario moderno, attuale, vero, con le sue curiosità, le sue viltà. E poi quel naso non le sembra un pene, il simbolo della crisi del maschio? Lo guardi quel Pinocchio con quell’aria dimessa e arresa e quel gran naso floscio, in ammirazione della Fatina.[41]

Pinocchio torna in Toscana con le illustrazioni di Roberto Innocenti che nasce nei pressi di Firenze a Bagno a Ripoli nel 1940. Diversamente da Chiostri, che nonostante le origini toscane esclude l’ambiente evocato da Collodi dalle sue raffigurazioni, i disegni di Innocenti per Pinocchio sono invece una catalogazione del paese e degli ambienti tipici di quella regione:

Le illustrazioni di Innocenti sono un grande affresco della Toscana contadina e paesana, dei suoi modi di vita, quotidiani e straordinari.[42]

Le sue tavole, che illustrano l’edizione Creative Education del 1989, riprendono in modo minuzioso ogni aspetto della vita quotidiana. I suoi sono affreschi in cui i personaggi del racconto collodiano sembrano perdersi. Innocenti ci dice che, per avvicinarsi alla storia ha dovuto ripercorrere i luoghi della sua infanzia e così, mettendosi in contatto con i propri ricordi, ha potuto incontrare anche Pinocchio:

Ho girato mezza Toscana, per fotografare pezzi di muratura, viottole senza meta, muretti che non servono a nulla, case abbandonate. Ma è servito soprattutto a rinfrescare la memoria di un ragazzino che suo zio portava a caccia. […] Tutto intorno c’erano quei muri, quella gente che andava a mezz’ora di carro per prendere l’acqua, una vitaccia, una Toscana di zolle secche, mezzadri, fattori, carrettieri […]. Dopo tutto fu allora che lessi Pinocchio, e quello era il paesaggio fantastico che io avevo intorno, cominciava a mezz’ora di tram da casa mia. [43]

I pastelli a cera di Mattotti rendono i personaggi così vivi che sembrano uscire dalla pagina (Albin Michel Jeunesse, 1990).

Lorenzo Mattotti (nato a Brescia nel 1954) disegna per la prima volta l’opera collodiana per Albin Michel Jeunesse nel 1990, edizione pubblicata un anno dopo in italiano da Rizzoli e nel 2001 da Fabbri Editori. Viene considerata dalla critica la più bella edizione mai fatta per la spettacolarità delle immagini, che prendono volume acquisendo peso e sostanza. La tecnica utilizzata da Mattotti, che lo rende famoso in tutto il mondo, è quella dei pastelli a cera «grumosi, chiaroscuri sapienti e fascinosi».[44] Nell’immagine prevale l’elemento gotico:

Mattotti plasma le sue figure con dei colori che sembrano usciti dalla tavolozza dell’inconscio, i toni sono prevalentemente cupi e si armonizzano perfettamente con i colori chiari costantemente illuminati da una luce lunare.[45]

I personaggi sono così veri e di carne ed ossa che sembrano uscire dalla pagina e danno allo stesso tempo un senso di inquietudine:

La pioggia, il freddo, la fame, il fango, tutto ci racconta di una difficoltà di vivere faticosa ed estrema. Pinocchio corre, scappa, come nella copertina, e sopra di lui qualcosa incombe sempre minaccioso, siano i due carabinieri, totem ieratici, sia il terribile Mangiafoco, che emerge dalla gran barba nera […].[46]

La tavola più bella e incredibile è quella che raffigura Pinocchio impiccato alla Grande Quercia, di notte, al buio in balia del vento:

Una tavola tutta risolta a colpi di pittura, veloce, instabile, piegata verso il buio sotto un vento, violento e “strapazzone”. […] Pinocchio è uno sconfitto, perderà le monete d’oro e sta perdendo la vita: rimane lì, come una povera cosa squassata dal vento.[47]

È significativo notare che nella versione italiana non vi è nemmeno una riga d’introduzione o di commento, e questo forse è dovuto all’importanza data alle immagini. Ma nella versione francese c’è una frase di Mattotti stesso che, forse, valeva la pena riprodurre:

Pinocchio racconta la solitudine di una marionetta, i suoi sogni, i suoi incubi, la sua incapacità di comprendere la realtà. In fondo siamo tutti delle marionette.[48]

 Pinocchio esce dal libro

Il noto Pinocchio prodotto dalla Walt Disney Productions (1940).

Non si può non fare un accenno alla immagine di pinocchio che scaturisce da altri strumenti comunicativi come il cinema e il teatro, a loro volta sedotti dall’intramontabile burattino. Le avventure di Pinocchio approdano al cinema con Comencini (1972) e poi Benigni (2002). Ma è negli anni ‘40 che avviene la vera rivoluzione: Pinocchio approda in America con il cartone animato di Walt Disney. Molte sono state le critiche mosse a questa interpretazione d’oltreoceano tra cui quella di aver raccontato un’altra storia, diversa da quella di Collodi. Ed in effetti Disney amplifica, come con il grillo parlante, o sminuisce il ruolo di alcune figure ed imprime alla storia la sua personale scelta di eliminare il male, il diverso, il cattivo dalla realtà, scelta:

Tesa a spegnere nell’infanzia, ogni sospetto ancora residuo intorno all’esistenza del male.[49]

Secondo alcuni però questa critica tranciante non tiene in considerazione alcuni aspetti positivi del lavoro di Disney poiché egli:

Ha permesso al burattino di superare agevolmente la cittadinanza italiana per farsi cittadino del mondo. Questo cosmopolitismo nella forma in cui si è imposto lo porta però inevitabilmente all’appiattimento della sua identità, che coincide con la perdita della paternità.[50]

Dice Franco Cavallone:

Non c’è dubbio che Disney abbia compiuto sul classico testo di Collodi un tradimento. Eppure il suo adattamento è, più di altri commenti e riscritture, un principio di operazione critica sul testo di Collodi, un tentativo a suo modo rigoroso di ribaltare le premesse.[51]

Non è d’accordo la Marcheschi che invece sostiene che:

L’effetto del film a cartoni animati di Walt Disney (1940) si era fatto sentire, eccome! Piombato in Europa e altrove con la forza dirompente dell’economia statunitense, quel Pinocchio era appena riconoscibile: naso ridotto, abiti tirolesi, ambientazione per cliché pittoreschi, confusione dell’intreccio, tradimento dell’onomastica collodiana e degli echi satirici.[52]

Secondo Antonio Faeti:

Non si trattava di un Pinocchio tradito, ma di un Pinocchio giustamente riletto e opportunamente riambientato entro una soluzione fruitiva che doveva assicurarne il godimento anche a quanti, privi di qualunque informazione o di qualunque dato, immaginato o osservato, sulla Toscanina granducale, intendevano accogliere il mito del burattino errante secondo le cadenze di uno spazio antropologico-culturale che poteva ben confrontarsi con quello da cui, riconoscibilmente, il burattino proviene.[53]

Insomma il merito di Disney è stato quello di aver colto l’universalità di Pinocchio.[54]

È nel 1981 in occasione del centenario della nascita del burattino collodiano che Emanuele Luzzati (1921-2007), grande scenografo per il teatro e inimitabile illustratore, progetta uno spettacolo dal titolo Pinocchio bazar in cielo e terra, con la propria compagnia genovese il “Teatro della Tosse”. Ricevuti premi e complimenti per il grande successo ottenuto, il suo rapporto con Pinocchio continua fino ad arrivare al 1996, quando illustra le Avventure per le Edizioni Nuages. Ferruccio Giromini, illustratore, fotografo, sceneggiatore ci dice riguardo a questa edizione:

Quello di Luzzati è un Pinoccchio che profuma del legno dei palcoscenici teatrali, da cui quell’esperienza arriva e dalla quale non intende allontanarsi. (…) Legno eri e legno ritornerai!… Uno dei caratteri distintivi di questa rilettura luzzatiana, tra paratie inchiodate, botole incernierate, assi piallate, segature ammonticchiate, decorazioni e terror di tarli; la sensazione del legno onnipresente come dolciastra ossessione del passato, tra rimpianto e melanconia ripulsa.[55]

Alcuni degli illustratori moderni e contemporanei

La grandezza di Sigfrido Bartolini sta non solo nell’aver illustrato la fiaba di Collodi, ma di aver costruito attraverso il suo lavoro durato dodici anni – che lo ha portato a compiere 309 xilografie – un grande affresco della Toscana. Il compito gli è stato commissionato dalla Fondazione Collodi nel 1983 in occasione del centenario della nascita di Pinocchio e sembra:

Quasi un pretesto per raccontare la storia visiva, umorale e partecipata, di un territorio e di un modo di vivere che non esiste più.[56]

Ha trasposto su legno il bagaglio di memorie personali e collettive, che vengono raccolte in un monumentale lavoro. Bartolini è riuscito a dare anche una propria interpretazione di Pinocchio, riconsegnandolo alla sua genesi: lo rappresenta in posizione fetale in un piccolo pinolo, insieme evocazione della sua vera natura lignea e rimando all’etimologia latina del nome del personaggio (Pinocchio da pinoculus). Dato il successo riscosso tra il pubblico, ne viene fatta una seconda edizione nel 1996 e una terza nel 2007, in occasione della sua scomparsa.

Delicatezza e inquietudine nelle illustrazioni della Ceccoli (Mondadori, Milano 2001, “Classici Illustrati”).

Un insieme più rasserenante per i colori tenui e delicati è quello che Nicoletta Ceccoli, nata a San Marino nel 1973, disegna nel 2001 per Mondadori nei “Classici Illustrati”. Questa delicatezza non esclude tuttavia l’inquietudine della fiaba che viene espressa in modo del tutto singolare. L’ansia e l’inquietudine traspaiano ad esempio nell’abbraccio tra Geppetto e Pinocchio prima che il burattino vada a scuola: è l’abbraccio tipico di chi non torna. Così come amorevole e dolce è il gesto della fatina che si china sul letto di Pinocchio ammalato ma inquietante è la sfilata in primo piano dei conigli portatori della bara. Un chiaro-scuro emozionale che scava nelle ansie e paure infantili mai superate del lettore.[57]

Emanuela Santini

Emanuela Santini nasce a Jesi nel 1975 e, dopo la maturità artistica, si trasferisce a Bologna dove nel 2000 si diploma in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti, con una tesi sull’illustrazione per l’infanzia.

Con Pinocchio la Santini si cimenta nel 2009, allorché è incaricata dalla Mondadori di corredare l’edizione del racconto. Una volta accettato l’incarico, la casa editrice le invia la cartella con il racconto e le comunica a quale indicazioni deve attenersi:

Dovevo fare due illustrazioni per capitolo: una piccola a inizio capitolo e una grande all’interno del capitolo.[58]

E per fare ciò:

Ho riletto la storia e per ogni capitolo ho sottolineato le parti più importanti e decisive della vicenda. Poi ho focalizzato solo queste parti e per illustrarle sono spesso scesa ad un compromesso tra quelle più importanti e decisive per lo svolgimento della storia e quelle che mi piacevano di più. Fortunatamente il più delle volte le due cose coincidevano.[59]

Una volta decisi i passaggi, Manuela Santini, per trarre maggiore ispirazione, riguarda la riproduzione cinematografica delle Avventure di Comencini, che le ha fatto compagnia durante l’infanzia, ed inoltre consulta nuovamente le immagini dei primi figurinai – Mazzanti e Chiostri –, quelle di Mattotti e quelle di Nicoletta Ceccoli che, prima di lei ha illustrato Pinocchio sempre per Mondadori. Ripreso contatto emotivo con la storia e i personaggi l’illustratrice deve scendere ad un nuovo compromesso, tra il suo stile e quello della casa editrice «classico ma non troppo». Il formato del libro è di 21×29, e la Santini deve stare all’interno di quei margini segnalati come spazi dedicati ai disegni.

Compiuti i primi disegni a matita, li invia alla casa editrice e:

Mi è stata segnalata qualche criticità poiché il disegno di Pinocchio impiccato era troppo forte, e la figura del giudice era troppo cattiva. Ma una volta trovata la quadra, ho dato il via ai pastelli colorati e all’olio su carta. Poi ho dovuto scansionare e scontornare i disegni, lavoro che un tempo faceva il grafico, ma che oggi tutti gli illustratori sono chiamati a saper fare.[60]

In alcuni punti, oltre alla tecnica ad olio e pastelli su carta, utilizza anche la tecnica del collage: in alcune rappresentazioni dei vestiti dei personaggi infatti, tra la stoffa, si possono intravedere trame di quadri di Bosch. Con il suo lavoro la Santini cerca di:

Sottolineare il carattere iniziatico della storia, attraverso la simbologia e gli archetipi: la Fata-Madre, il Grillo-Coscienza e il Gatto e la Volpe come ingannatori. E questo perché l’artista è come un canale e io come tale, mi sono posta questo obbiettivo. Ci sono voluti due mesi di lavoro intenso, ma la fatica è stata ripagata con la soddisfazione finale.[61]

La copertina disegnata da Emanuela Santini (Mondadori, Milano 2008, “Mondadori Ragazzi”).

Nella copertina Pinocchio sembra un tutt’uno con l’albero (il naso sembra un ramo e le gambe sembrano germogli). In effetti l’albero segna il percorso narrativo del burattino che nasce dal legno dell’albero e sull’albero vive il momento più critico della sua storia: esso è insieme l’albero della vita e la Grande Quercia. Sui rami, come frutto del “peccato”, si snodano alcuni personaggi e oggetti simbolici del racconto: la Fata Turchina assume le sembianze di una farfalla che solletica il naso di Pinocchio, i frutti dell’albero sono i denari che penzolano e luccicano, l’abbecedario in bilico su un ramo. Infine il Gatto e la Volpe che, con un’inversione di ruolo, figurano come marionette anziché come “burattinai” del protagonista.

Dai disegni della Santini scaturisce un insieme leggiadro e soave. Anche le scene più drammatiche del racconto risultano rassicuranti, incapaci di suscitare ansie o evocare paure ancestrali. Quello della Santini è un Pinocchio morbido, che affronta le sue avventure con la dolcezza del sorriso e la testarda fiducia dei bambini.

Per concludere

Condivido l’opinione di coloro che ritengono che leggere oggi Pinocchio non sia più come farlo per la prima volta. Quella di Pinocchio è una storia che abbiamo ascoltato con la voce di qualcun altro, letto in silenzio, che è stata consigliata o imposta. E neppure chi non l’avesse mai letta non è scampato dal sentirsi dire almeno una volta «non dire bugie perché altrimenti ti diventa il naso lungo!». Che Pinocchio sia un pensiero o un ricordo, positivo o negativo, tutti almeno una volta abbiamo avuto a che fare con lui.

Sono stati gli illustratori, specialmente i primi, a dare un’immagine di riferimento del burattino costituita da tutti quei connotati che lo rendono universalmente conosciuto e riconoscibile. Temo che una rilettura “neutra” senza che si formino nella mente del lettore le immagini già note sia quasi impossibile. Il bello è proprio questo: ognuno ha la propria sfera e bagaglio d’immagini, corrispondenti alle illustrazioni che ha conosciuto a seconda dell’epoca in cui è vissuto.

Ed è grazie ai disegni che il libro si anima.

Pinocchio è un «libro umano», per dirla con le parole di Croce, sintesi di tutti i sentimenti umani positivi e negativi di bontà e gratitudine, debolezza, fragilità, paura, autonomia, libertà, furberia e ingenuità. Sentimenti che restano vivi e che verranno declinati nelle rappresentazioni future per modalità e intensità secondo la sensibilità del tempo.

Sarei curiosa di conoscere in quali avventure Pinocchio si è cimentato dopo i famosi tre puntini. Pinocchio sta forse aspettando qualcuno che le scriva (per lui), ma questa è un’altra storia, poiché come dice Rodari «anche a fiaba finita, c’è sempre la possibilità di un dopo».

Estratto da: Caterina Ceriani, Pinocchio illustrato: casi di paratesto del capolavoro collodiano, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2016-2017, relatore Chiar.mo prof. Roberto Cicala.

Per consultare la bibliografia clicca qui: bibliografia.

 


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Le carte preparatorie di «Amore lontano» di Sebastiano Vassalli https://editoria.letteratura.it/lecartepreparatoriediamorelontanodisebastianovassalli/ https://editoria.letteratura.it/lecartepreparatoriediamorelontanodisebastianovassalli/#respond Fri, 01 Jan 2021 18:40:30 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8305 «Le nostre storie si muovono come fiocchi di neve, senza un significato apparente e senza una direzione. Così, anche, è dei nostri nomi e delle nostre storie; o per meglio dire, così sarebbe irreparabilmente, se ogni tanto, nel mondo, non nascesse un poeta»: Sebastiano Vassalli in «Amore lontano», un omaggio alla poesia e ai grandi poeti, creatori di «vita che rimane impigliata in un trama di parole». Presentiamo qui i risultati di un'accurata ricerca d'archivio sulle carte preparatorie dell'opera.

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Uno studio attento, meticoloso, al limite del perfezionismo, quello che Sebastiano Vassalli (Genova 1941 – Casale Monferrato 2015) impiega per la stesura dei suoi libri. Amore lontano, una biografia dei poeti più importanti della storia (da Omero a Rimbaud, verrebbe da dire) edita dalla casa editrice Einaudi nel 2005, non fa certo eccezione. Una ricerca nell’archivio dell’autore[1] altrettanto accurata ci aiuta a comprendere il metodo di lavoro utilizzato da Vassalli per la scrittura di Amore lontano.

Lo scrittore inizia sempre studiando la biografia degli autori, in questo caso utilizzando fotocopie del Dizionario letterario Bompiani degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature,[2] soprattutto per dati oggettivi. Studia anche il periodo storico in cui hanno vissuto per contestualizzarli adeguatamente, studio che diventa più ampio e vasto se dei poeti trattati si hanno poche informazioni a livello biografico, come vedremo nel caso di Qohélet. In contemporanea compila dei riassunti in cui inserisce tutti gli avvenimenti più importanti della vita di un poeta e in cui rileva determinati aspetti che lo interessano, probabilmente per avere sempre sotto gli occhi le informazioni per evitare di commettere errori durante la fase di scrittura.

Dà di tutti i protagonisti del suo romanzo una descrizione fisica ricavata o da dipinti o da statue o citando direttamente la descrizione che altri avevano già fatto; cerca anche di ricostruire la psicologia dei poeti scelti leggendo e studiandone le opere o altri materiali inerenti, oppure lettere, se pervenute. Ciò gli serve anche per inserire all’interno del libro alcuni brani scelti, che, nei casi di lingue straniere, vengono tradotti direttamente da Vassalli stesso. Nel frattempo crea una sorta di bibliografia in cui inserisce le principali opere, utilizzando in questo caso il Dizionario letterario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature,[3] e antologie o addirittura manuali. Dopo questa fase di studio e preparazione, passa alla scrittura vera e propria delle sue storie romanzate.

Cerchiamo adesso cercare di comprendere i motivi che hanno portato alla scelta di questi sette poeti posti nel libro in ordine cronologico e di riassumerne le storie create da Vassalli: Omero, Qohélet, Publio Virgilio Marone, Jaufré Rudel, François Villon, Giacomo Leopardi e Arthur Rimbaud.

 

I poeti dell’antichità

La scelta di Omero sembra quasi ovvia, il «più antico poeta a cui diamo un nome, il leggendario Omero».[4] Tra i fogli relativi allo studio di Omero, comprendiamo di che tipo è stato il suo «sacrificio» alla poesia: «Omero è come il fringuello che veniva accecato per farlo cantare. Solo che lui era nato cieco».[5]

Questo capitolo è intitolato La notte e le storie, ed è quasi tutto centrato sul momento finale della vita di Omero, il quale viene descritto come un povero che ha viaggiato molto nella sua vita e che, essendo cieco, ha avuto bisogno per tutta la sua vita di un ragazzo che lo accompagnasse di corte in corte.[6] Ed è proprio a causa di uno di questi ragazzi che il poeta muore: Lica, l’ultimo dei suoi accompagnatori, decide di abbandonare l’aedo ormai vecchio in un bosco. Ma ecco che, quando sta per morire, «il buio dove è vissuto per la prima volta lascia filtrare una luce».[7] E in questa luce riconosce i suoi personaggi e il poeta Orfeo, il quale gli dice che «lui, Omero, continuerà a vivere anche dopo la morte, finché nel mondo ci saranno gli uomini».[8]

Qohélet, il cui significato in ebraico è «l’uomo che parla nelle assemblee»,[9] a differenza di Omero, non è stato compreso mentre era ancora in vita: «non nega l’esistenza di Dio, ma è un materialista convinto e un illuminista, in un mondo dove i lumi della ragione sono ancora molto deboli; questo, forse, è l’aspetto più straordinario della sua poesia, ciò che la fa esistere fuori dalla Bibbia e dal tempo».[10]

In più «conosce l’infelicità, e tutti gli affanni che ne derivano»[11] e si trova «come sospeso tra le due anime del suo popolo [ebraico], assolutamente estraneo ad una disputa che non gli interessa e che gli sembra insensata».[12]

L’epoca in cui vive Qohélet è un’epoca in cui tutto si muove e tutto si trasforma»[13]. Del Predicatore si sa poco e per questo Vassalli scrive:

Di Qohélet sappiamo pochissime cose: l’ho già detto. In pratica, non sappiamo nulla. […] Per immaginarci il Predicatore: la sua storia personale e i suoi pensieri, ma anche il suo aspetto fisico e il suo modo di rivolgersi agli uomini riuniti in assemblea nella parte interna del Tempio, noi oggi abbiamo a disposizione soltanto quelle Parole di Qohélet, figlio di Davide, re di Gerusalemme, che sono la sua unica opera nota e giunta fino ai nostri giorni.[14]

In realtà, come già anticipato, proprio per sopperire alla mancanza di informazioni sul poeta lo scrittore si informò molto sul periodo storico in questione – tra III e II secolo a.C. – e in particolare sulle due fazioni citate sopra, per le quali utilizzò soprattutto la Vita di Gesù Cristo di Giuseppe Ricciotti, di cui ci restano le fotocopie sottolineate in rosso nelle parti considerate più importanti da Vassalli.[15] Leggiamo, ancora una volta sottolineato in rosso dal nostro autore:

qual era la vera norma fondamentale del giudaismo? Quale il supremo e inappellabile statuto che doveva governare la nazione eletta?

A questa domanda i Sadducei rispondevano che era la Torah, cioè la «Legge» per eccellenza, la «Legge scritta» consegnata da Mosè alla nazione come statuto fondamentale e unico. I Farisei invece rispondevano che la Torah, la «Legge scritta», era soltanto una parte, e neppure la principale, dello statuto nazionale-religioso: insieme con essa, e più ampia di essa, esisteva la «Legge orale», costituita dagl’innumerevoli precetti della «tradizione».[16]

Risulta ora più semplice comprendere il motivo che ha portato l’autore di Un infinito numero a inserire il Predicatore tra i suoi poeti, perché:

Qohélet è come sospeso tra le due anime del suo popolo, assolutamente estraneo ad una disputa che non gli interessa e che gli sembra insensata: «Vanità delle vanità». Per nascita, per cultura, per vicende personali lui dovrebbe appartenere al partito dei sostenitori della Legge scritta, cioè, in definitiva dei modernisti.[17]

Ma, in realtà, non può appartenere veramente al suo tempo perché un vero poeta vive «al di fuori del tempo»:[18]

Qohélet non appartiene alla disputa tra gli antichi e i moderni che divide gli Ebrei del suo tempo; e, a ben vedere, non appartiene nemmeno al suo tempo. Osserva gli uomini da una grande distanza. Vede le loro vite che si uniscono e si dividono e si inseguono in un turbinio continuo e insensato.[19]

Questa distanza dalla sua gente gli deriva dall’esperienza pratica: «da giovane, ha cercato di opporsi al corso naturale delle vicende umane. È intervenuto per correggere ciò che, in quelle vicende, gli sembrava sbagliato»[20] e «si è sforzato di introdurre ciò che mancava, e di togliere ciò che non avrebbe dovuto esserci»[21], ma poi, purtroppo,

ha dovuto riconoscere che quell’impresa era insensata; e che, comunque, sarebbe stato impossibile. Le cose accadono perché Yhwh vuole che accadano. Gli uomini commettono sempre gli stessi errori, generazione dopo generazione, e niente mai potrà cambiare i loro comportamenti, nemmeno la saggezza e nemmeno la scienza.[22]

Nonostante faccia per il suo popolo tutto ciò che un uomo come lui possa fare, cioè donare la sua saggezza e i suoi consigli, che si potrebbero racchiudere nell’incoraggiamento a trarre il massimo dalla propria vita, il suo popolo non lo comprende e continua, imperterrito, a discutere solo di cose vane ed è per questo che soffre.

Il tentativo di cambiare il mondo tramite la poesia, e il fallimento conseguente, è centrale anche nel capitolo terzo, Lacrime delle cose e onnipotenza della Fama, dedicato a Virgilio. Tra le carte preparatorie c’è anche un foglio contenente i titoli dei capitoli di Amore lontano, pensati in origine da Vassalli: ci sono due gruppi di titolazioni, uno con i primi titoli che l’autore aveva inizialmente pensato, e uno con i titoli definitivi. Stranamente, però, nel primo gruppo è assente il titolo di questo capitolo; mentre nel secondo gruppo è presente, ma non così come noi lo conosciamo: il titolo originario sembra essere Lacrime delle cose e consolazione della gloria. Consolazione e gloria vengono poi cancellate a favore, rispettivamente, di immortalità e Fama: solo in un terzo e ultimo passaggio arriviamo al titolo definitivo.[23]

Come già detto, per lo studio di questo capitolo, lo scrittore novarese riutilizzò il materiale adoperato per Un infinito numero. In modo particolare il secondo libro di De vita Caesarum di Svetonio servì per raccogliere informazioni su Augusto.

Per quanto riguarda la vita di Virgilio, oltre al solito Dizionario degli autori Bombiani, attinge soprattutto al Manuale della letteratura latina, di Vitelli e Mazzoni,[24] di cui ci restano delle fotocopie sottolineate in rosso, come era solito fare l’autore, anche se in questo è presente l’idea, rifiutata nel racconto di Virgilio, che questi si fosse recato ad Atene per studiare i luoghi greci in cui passò Enea. Da questo, però, riprende l’idea della lettura fatta ad Augusto di alcuni libri dell’Eneide.[25]

L’autore novarese si concentra soprattutto sugli episodi della lettura pubblica delle Georgiche avvenuta ad Atella, e sugli ultimi giorni di vita del poeta latino, che era, nel periodo raccontato all’interno del libro, ormai diventato molto ricco e famoso,

ma né i soldi, né la celebrità hanno il potere di renderlo felice. Virgilio soffre di una malattia dello spirito di cui soffrono soltanto i grandi artisti, che gli fa riconoscere i suoi errori e addirittura glieli ingrandisce; e muore disperato, chiedendo agli amici di distruggere proprio quell’opera: l’Eneide, che secondo lui è la prova del suo fallimento di poeta e di uomo.[26]

Dalle carte preparatorie notiamo che l’autore di Un infinito numero aveva letto, per informarsi al meglio riguardo la lettura pubblica delle Georgiche ad Atella, Andes ed Atella insieme per Virgilio,[27] pubblicato dalla sezione intercomunale di Atella dell’Archeoclub d’Italia per testimoniare le manifestazioni celebrative svolte in occasione del bimillenario della morte del poeta. Da questa lettura l’autore novarese conosce edifici o reperti latini ancora esistenti e un ulteriore riassunto, tratto dalla Vita Vergilii del grammatico latino e commentatore dell’Eneide Donato delle motivazioni della lettura pubblica delle Georgiche. Ritornando alla storia di Virgilio, nonostante i soldi e la celebrità che il poeta aveva ottenuto da Augusto:

Virgilio scrive, cancella, torna a scrivere. Nonostante i suoi sforzi, però, Enea rimane un personaggio sbiadito: molto meno interessante, e meno vivo, dell’Achille di Omero. (Che di nuovo e di esemplare non ha proprio nulla. È arrogante, violento, in certi momenti addirittura odioso). L’epica, nell’Eneide, non si accende. Si accende, a tratti, la poesia: ma soltanto là dove la vicenda di Enea e il mito di Roma, lasciano spazio all’ispirazione più autentica del poeta. È la poesia degli affetti e dei sentimenti umani; del tempo «irreparabile» e dell’immortalità della Fama… È la poesia del male di vivere (delle «lacrimae rerum»).[28]

 

La svolta poetica del cavaliere

Dopo Virgilio, si passa al cavaliere e la contessa di Tripoli.[29] Nel foglietto in cui leggiamo le prove dei titoli, per questo capitolo troviamo la dicitura «Amore lontano», che passerà poi a denotare tutto il libro e successivamente «Il “povero cavaliere” e la contessa di Tripoli».[30] L’aggettivo «povero» è stato eliminato perché si riferisce a un gruppo di cavalieri che hanno combattuto solo nella prima crociata e non nella seconda:[31] un iniziale accostamento di Jaufré Rudel a questo gruppo viene eliminato da Vassalli, che, invece, sembra accarezzare l’ipotesi di inserirlo nel gruppo dei Templari, seppur con una certa cautela.

Jaufré Rudel è un cavaliere perché ha partecipato alla seconda crociata. Della vita di questo autore provenzale si sa ben poco, così Vassalli studiò il periodo storico e la crociata. Per le notizie letterarie e per i testi, sia in lingua originale che in traduzione – anche se Vassalli traduce da sé tutti i testi presenti in Amore lontano[32] fu usato il capitolo dedicato a Rudel, tratto da La poesia dell’antica provenza. Testi e storia dei trovatori,[33] in cui è presente anche la Vida che viene citata e tradotta dal nostro autore per intero in Amore lontano.[34] Per quanto riguarda, invece, il periodo storico l’uso del saggio di Franco Cardini, Il guerriero e il cavaliere, tratto da L’uomo medievale,[35] fu molto prolifico.

Il cavaliere è «l’inventore della poesia come distanza, come “amore lontano”; ed è anche l’iniziatore della poesia moderna».[36] L’immagine di un amore lontano era, però, già stata usata in precedenza da Vassalli nel suo più celebre libro, La chimera. Nella premessa, quando cita l’arrivo di Dino Campana a Novara scrive:

Campana era arrivato a Novara una sera di settembre, in treno, senza vedere niente perché fuori era già buio e la mattina del giorno successivo, attraverso le inferriate di un carcere, gli era apparso il Monte Rosa in un «cielo pieno di picchi / bianchi che corrono»: un’immagine inafferrabile e lontana come quell’amore che lui allora stava inseguendo e che non avrebbe mai raggiunto, perché non esisteva… Una chimera![37]

È interessante cogliere questo collegamento non solo tra i due romanzi ma anche con La notte della cometa, il cui protagonista è proprio il poeta di Marradi, Dino Campana. Un collegamento che potrebbe riassumere uno dei punti fondamentali di quasi tutti i romanzi scritti da Vassalli: l’inseguimento consapevole di amori lontani, di chimere passate e di illusioni per superare il nulla del presente.

Con Rudel «viene a compiersi qualcosa che durava da millenni, e che potremmo definire, con buona approssimazione, “il processo di allontanamento delle parole dalle cose”».[38] Così lo stesso autore spiega meglio questo punto:

all’origine del linguaggio, le parole sono l’equivalente delle cose; anzi, sono le cose […]. Soltanto in un tempo successivo la sfera delle cose e quella delle parole incominciano a non coincidere più tra di loro. Il linguaggio, lentissimamente, si allontana da una realtà, a cui pure resta legato da un rapporto magico, fatto di consonanze, di assonanze e di chissà che altro. È in questa fase che nasce la letteratura […]. Il rapporto degli antichi con le parole era diverso dal nostro, perché le parole che si usano oggi sono molto più diverse dal loro significato di quelle di un tempo. Ancora non se ne sono separate del tutto (quando lo saranno, il mondo sarà cambiato un’altra volta, e anche la letteratura sarà cambiata), ma ciò che ci restituiscono è un’immagine della realtà sempre più convenzionale e sempre più simbolica […]. La nostra letteratura è la realtà vista attraverso uno specchio, quello della lingua; e il suo primo personaggio è la donna senza nome cantata da Jaufré Rudel.[39]

Questo legame del linguaggio che si allontana dalla realtà, pur restando in parte ancorata ad essa, in realtà, non è pura invenzione di Vassalli. Ma è ripreso dal saggio di Cardini, da cui si evidenzia questo pezzo sottolineato nelle fotocopie:

Un sociologo della letteratura come Erich Köhler e uno storico come Georges Duby ci hanno insegnato a cogliere, al di là dei sogni e delle finzioni letterarie – sogni e finzioni, comunque, in costante rapporto con la realtà effettiva –, quelle che potremmo definire le forme concrete dell’avventura. […] Ma si tratta, più che di fantasie, di metafore. L’avventura si correva sul serio. […] Loro [degli iuvenes, cioè dei giovani della piccola aristocrazia europea] ottimale punto d’arrivo è un buon matrimonio, possibilmente con una dama di condizione più alta e di facoltà economiche più ampie delle loro: dietro lo schermo raffinato della Fin’Amor […] urge questa volontà di accasamento e di affermazione sociale.[40]

Lo scrittore nato a Genova, però, non segue la tradizione letteraria identificando l’amore lontano con Odierna, l’allora contessa di Tripoli, perché né lei né sua figlia Melisenda[41] si fecero monache; ma suppone sia stata Eleonora d’Aquitania, principessa e poi regina di Francia. Per l’autore della Chimera, in realtà la contessa di Tripoli è solo uno «schermo»,[42] un artificio per mascherare un amore impossibile da realizzare con la regina francese. Ma tra questa e il re Luigi VII non scorre buon sangue perché i due sono molto diversi sia a livello caratteriale che psicologico: «Quanto Luigi è goffo, sciocco, lento nei ragionamenti e indeciso a tutto, tanto Eleonora è vivace e piena di entusiasmi»;[43] in più lui è «un ignorante, che non conosce la lingua provenzale e non apprezza la poesia, la musica, le belle arti».[44]

Ma Eleonora è «abituata ad essere sempre al centro dell’attenzione e ad avere il sopravvento su quanti la circondano».[45] Non c’è niente di cui stupirsi, dunque, se

tutti i cavalieri provenzali che si sono messi in viaggio per andare a combattere contro gli infedeli, sono innamorati della «loro» regina Alienor [nome provenzale di Eleonora]: e il più innamorato di tutti è un trovatore, che nelle sue canzoni canta il tema dell’amore lontano. Ascoltando quelle canzoni si convince che dietro la finzione dell’amore di Jaufré per una donna mai vista (la contessa di Tripoli), ci sia un gioco sottile di allusioni, di accenni e di segnali che soltanto lei, tra tutte le persone presenti, può capire e apprezzare; e questo, oltre ad incuriosirla, lusinga la sua vanità. Di più: si convince che l’amore lontano di Jaufré, di cui lui parla in tutti i suoi componimenti, è un amore vicino e impossibile… per lei![46]

I due, però, una volta arrivati a Costantinopoli, sono costretti a separarsi. Il trovatore, viaggiando per mare verso Acri, si ammalerà. Arrivati al porto di Acri, gli altri crociati, suoi compagni di viaggio, cercano di dargli una fine degna di lui: travestono una prostituta da Eleonora e la conducono nel letto del moribondo Rudel che, cieco e sordo, non può realmente comprendere chi sia quella donna. Rudel cerca di alzarsi dal letto ma non riesce perché gli mancano le forze. La prostituta si commuove per l’amore di quest’uomo e lo abbraccia. «Il resto è scritto nella biografia provenzale: “In quel giorno essa si fece monaca per il dolore che ebbe della morte di lui”».[47]

 

I poeti «mal-viventi e mal-pensanti»: tra maudits e Leopardi

Risolto il mistero della biografia di Rudel, Vassalli narra la storia di François Villon, che all’inizio del racconto «cammina in una pianura piena di neve, curvo sotto il peso di un fagotto in cui è riuscito a far entrare tutto ciò che possiede: i suoi ricordi, i suoi desideri, i suoi affetti»;[48] ed è «un giovane di poco più di trent’anni, che si sta lasciando alle spalle una condanna a morte e che di fronte a sé ha un’altra condanna, a dieci anni di esilio…»[49]

Per quanto riguarda la biografia, probabilmente, Vassalli avrà attinto al solito Dizionario Bompiani degli autori, in quanto le notizie inserite nel libro, seppur ovviamente romanzate, non si discostano molto dal lemma dedicato al francese.[50] Tolto questo riferimento è davvero difficile riuscire a capire quale altro materiale abbia usato. Certa è la lettura del capitolo XIII e LXVII del IV libro del Gargantua e Pantagruele, perché Rabelais è citato nel capitolo e perché i due aneddoti raccontati dallo «scrittore e medico» sono ripresi.[51]

Villon sa di avere sprecato la sua vita e sa di essersi macchiato di colpe che «non possono più essere cancellate; i reati che ha commesso spinto dalla stupidità ma soprattutto dalla povertà, perché “La miseria fa commettere gli errori / E la fame fa uscire il lupo dal bosco”».[52]

Il titolo del capitolo Quando i lupi si saziavano di vento,[53] a quanto si comprende dalle carte preparatorie, sembra essere stato questo fin da subito: non vi sono correzioni di alcun tipo ed è già presente nel primo gruppo di titoli nella stessa veste in cui si presenta a noi oggi.[54] Titolo che Vassalli ricava dal verso 11 del Lascito di Villon, traducendolo e cambiando il verbo dal presente all’imperfetto: «Que les loups se vivent du vent».[55]

Per cui c’è un’identificazione tra i lupi solitari e Villon e potremmo dire anche con gli altri poeti inseriti in Amore lontano: sono tutti più o meno dei lupi solitari. È questa la differenza con gli altri poeti: a Villon non interessa essere ricordato come poeta, e forse non gli interessa nemmeno essere ricordato. Scrive solo per guadagnare qualcosa da mangiare e bere, e per compiacere il suo pubblico, mentre gli altri poeti scrivono per i posteri e per essere considerati poeti. Infatti:

Villon non pensa alla poesia, né alla sua né a quella degli altri: o, se ci pensa, è per metterla nel conto delle cose di cui non dovrà più occuparsi. Lui non crede di essere un poeta. I poeti, per ciò che se ne sa, sono gente pagata per celebrare chi gli dà da vivere e per fare propaganda di buoni sentimenti: non sono mica degli scampati alla forca come lui! […] François Villon ha scritto dei versi, ma per ridere; e quasi tutti i suoi componimenti sono stati legati alle vicende della sua vita scapestrata. Se dovesse dare una definizione di sé, lui forse direbbe di essere il contrario di un poeta: un anti-poeta, o qualcosa del genere…[56]

Il «bon follastre», dopo essere stato esiliato da Parigi, secondo Vassalli, «è diventato un uomo rispettabile, in un rispettabile villaggio della Francia orientale. Era questa, del resto, la svolta che lui pensava di dare alla sua esistenza, mentre arrancava nella neve e nel fango».[57] Questo nuovo modo di vivere sembra essere una novità assoluta di Vassalli: in nessun altro libro consultato si trova un epilogo del genere riguardo Villon.

Alla fine quello che è stato considerato il primo dei poètes maudits ha vissuto una vita che lui, per lungo tempo, aveva sbeffeggiato e deriso: «il silenzio che avvolge la vita di Villon dopo l’esilio si spiega col fatto che lui, ormai, è diventato un uomo normale. Non è più un poeta, non è più un delinquente, non è più niente».[58]

Dopo Villon, si passa a un poeta considerato altrettanto «mal-vivente e mal-pensante» dai suoi contemporanei, anche se per altre motivazioni: Giacomo Leopardi. All’inizio del racconto troviamo il poeta già a Napoli nel 1833, dopo aver tentato di vivere in diverse città italiane, tra cui Roma, Milano, Firenze, Bologna; è un uomo che è già stato rifiutato da Fanny Targioni Tozzetti,[59] e che si sente «un tronco che sente e pena»,[60] e che piuttosto di tornare al suo paese natale, Recanati, pensa al suicidio.[61]

Anche per questo motivo, quindi, sceglie di seguire Antonio Ranieri a Napoli. Quest’ultimo è stato ripetutamente accusato di aver sfruttato Leopardi per soldi o per vanità; ma Vassalli lo difende:

Ranieri è l’uomo che libera Leopardi da Recanati. Questo è un fatto assolutamente incontestabile: Giacomo Leopardi, da solo, non avrebbe potuto mantenersi in nessuna città italiana o straniera, e avrebbe dovuto soccombere al «soggiorno disumano» della casa paterna. Ha conosciuto Leopardi nel giugno del 1827; lo ha ritrovato a Firenze nel 1831, «malatissimo e inconsolabile», costretto a vivere in un piccolo appartamento di via del Fosso; e ha provato un moto d’affetto per quell’uomo, così grande nei suoi pensieri e nelle sue opere, e così disgraziato per le sue condizioni di vita. […] il suo contributo al mantenimento dell’amico, è comunque determinante per permettergli di vivere lontano da Recanati, e quindi, in pratica: di vivere. Ranieri regala a Leopardi qualche anno di vita, e regala a noi «Il tramonto della luna» e «La ginestra».[62]

Le prime impressioni del recanatese a Napoli non sono positive a causa del governo censorio, che proibiva la vendita di molti libri, e perché la città era piena di gente e disordinata; ma ciò che soprattutto irrita il poeta è lo scontro con il gruppo che si riunisce intorno alla rivista “Il Progresso”; ma Leopardi,

è appena il caso di ricordarlo, ha maturato attraverso le letture, le meditazioni e le esperienze di vita una sua personalissima visione del mondo, che è anche alla base della sua poesia. La vita, secondo quella visione del mondo, è una sorta di lavoro forzato: una “corvée”, che l’uomo compie per un’entità misteriosa, la Natura, e per i suoi imperscrutabili fini. Siccome il lavoro forzato non può essere desiderabile per se stesso, la Natura inganna gli uomini con piaceri fuggevoli e con incentivi di vario genere, facendogli credere che la felicità è alla loro portata; ma si tratta di un’illusione. La felicità, per gli uomini, è un’illusione; e chi, come il povero Giacomo, ha avuto dal destino una vita priva di piaceri, ne ha tratto almeno il vantaggio di poter vedere come stanno le cose, al di là dei trucchi della Natura.[63]

Poiché i progressisti, invece, credono in tutte le religioni e nella Storia, lo scontro con Leopardi sembra quasi scontato e questi «si scaglia contro di loro con un sarcasmo e un’aggressività che, fino a quel momento, nessuno ancora gli conosceva»,[64] dedicando loro un poemetto intitolato I nuovi credenti. I progressisti gli chiedono «come puoi sostenere che la vita non è desiderabile per se stessa, di fronte a un piatto di maccheroni appena cotti […]?»[65] L’ultima parte del titolo del capitolo L’infinito, la morte, i maccheroni deriva appunto da questa domanda. Sembra, invece, inutile soffermarsi sulla prima parte del titolo che deriva dalla più celebre poesia del poeta, L’infinito; la seconda deriva dalle sue riflessioni sulla morte. Questo è, tra i sei di cui possiamo avere notizia, il titolo che maggiormente è cambiato rispetto alle prime intenzioni dell’autore. Il titolo iniziale era, infatti, Il tacito infinito andar del tempo.[66] Probabilmente questo cambio deriva dal fatto che la vicenda è ambientata specialmente a Napoli, alle ragioni che hanno portato il poeta in quel luogo e al modo di vivere che il poeta di A Silvia conduceva nella città ai piedi del Vesuvio.

Nonostante questo scontro, però: «A Napoli, il poeta rinasce. Due cose lo fanno stare meglio: la certezza, ormai acquisita, che non tornerà a Recanati; e l’effetto vitalizzante di una città dove tutti fanno ciò che vogliono e dove anche lui, finalmente, può seguire le sue inclinazioni peggiori.»[67]

Purtroppo non è possibile comprendere quale sia stata l’edizione usata da Vassalli per le opere del recanatese, perché nelle carte preparatorie non si trova niente a riguardo, se non qualche citazione di brani dell’autore. Dalle carte preparatorie e dalla semplice lettura di questo capitolo si riesce, però, a comprendere che l’autore della Chimera studiò molto attentamente Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi di Antonio Ranieri, che troviamo fotocopiato per ben due volte. Qui riuscì a trovare dettagli che solo chi aveva vissuto per lungo tempo con il poeta poteva conoscere.

Dai Sette anni può recepire non solo informazioni di tipo medico, come in questo caso, ma anche le passioni, gli odi del poeta – come quello per Gino Capponi o per Nicolò Tommaseo – e i suoi vizi: «è un uomo capriccioso e… goloso»[68] di dolci di tutti i tipi. Ma può ricevere anche informazioni di tipo caratteriale e psicologico, come per esempio il fatto che «Leopardi non è attratto dai paesaggi, anche se alcune sue poesie potrebbero contraddire questa affermazione».[69] Infatti leggiamo da Ranieri: «Cosa tanto vera quanto incredibile a chi legge le poesie del Leopardi!… Nessun uomo al mondo ha tanto odiato la campagna quanto Leopardi la odiava, dopo averla tanto inimitabilmente cantata».[70]

L’ultimo dei sette poeti è Arthur Rimbaud, uno dei poètes maudits, di cui Villon è considerato il capostipite. Rimbaud è quel

divino monello che ha trasformato l’adolescenza in poesia, e ci ha dato di entrambe un’immagine terribile e superba, destinata a durare nel tempo quanto dureranno le nostre parole. (Poco o molto, chissà!) È il ragazzo che nel presente delle cose futili e degli avvenimenti che si rincorrono come nuvole sopra un orizzonte di vento, ha ritrovato il respiro delle cose eterne: «L’hanno ritrovata. / Cosa? – L’Eternità / È il riflusso del mare / Con il sole.»

Arthur Rimbaud è il divino adolescente che sa di essere poeta («… io mi sono riconosciuto poeta. Non è affatto colpa mia») e che però, quando la faccenda diventa troppo dolorosa, o troppo stupida, non vuol più esserlo.[71]

Nonostante Rimbaud sia uno dei poeti più importanti di tutto l’Ottocento, «la storia del divino monello è più semplice di quanto si creda. È anzitutto, e soprattutto, la storia di un’adolescenza difficile. Quante adolescenze ci sono state nel mondo, negli ultimi due o tremila anni?»[72] Tra l’altro dalla consultazione delle carte preparatorie, si evince un collegamento con Augusto, così leggiamo: «“Io è un altro”, chi non lo ha pensato, negli anni dell’adolescenza? E anche chi non ha pensato da ragazzo, che “la vita è la farsa che tutti devono interpretare?” v. Augusto».[73]

Anche in questo caso sfortunatamente, come per gli altri poeti ad eccezione di Rudel, non riusciamo a comprendere quale edizione sia stata usata per la lettura delle opere di Rimbaud.

«La stagione all’inferno [da qui e da Una Stagione all’Inferno, opera del poeta, deriva il titolo del capitolo] di Rimbaud è quella del suo sodalizio con Verlaine, e dura poco più di due anni».[74] Il titolo sembra essere questo sin dagli esordi, come dimostra il solito foglietto dei titoli, in cui nel primo gruppo è già presente Una stagione all’inferno.[75]

Verlaine, di cui Vassalli studiò anche la vita, tramite il solito Dizionario Bompiani degli autori,[76] che ha usato anche per Rimbaud, ovviamente, «è il compagno che il divino monello sta cercando, per vivere lo “sregolamento di tutti i sensi” dei suoi programmi di adolescente».[77]

Ma la loro storia di amicizia e di amore «prende subito una certa piega, incontrollabile e (forse) inevitabile. È una storia che si vorrebbe poter definire d’amore e che invece, con ogni probabilità, è soltanto una somma di egoismi e un percorso di distruzione reciproca».[78] «Gli amici litigano, si separano, si inseguono, litigano di nuovo. A Bruxelles, il 10 luglio 1873, Verlaine spara contro Rimbaud due colpi di pistola. È la fine del loro sodalizio».[79]

Stampato Una Stagione all’Inferno, il «divino monello», va a ritirarlo a Bruxelles, ma questo libro

avrebbe dovuto rappresentare il suo primo passo nella carriera di poeta e invece è la pietra tombale sulla sua poesia e sulla sua adolescenza […]. Ormai il Dio della parola ha smesso di dialogare con lui; o, se ancora gli parla, lo fa sempre più di rado e in modo sempre più confuso. La stagione della poesia è finita. L’adolescenza è finita. L’ex monello si vergogna di aver trascorso due anni all’inferno e progetta di andare a vivere lontano dalla Francia, in luoghi dove nessuno lo conosce e nessuno mai potrà avere notizie di lui.[80]

La stagione poetica di Rimbaud finisce così, e finisce perché

l’unico Dio di cui gli uomini possono avere certezza: il Dio della parola, di tanto in tanto si sceglie i suoi interlocutori; e quegli interlocutori sono i poeti. Con alcuni di loro il Dio stabilisce un rapporto che dura negli anni: un rapporto mai pacificato ma costante, che termina solo con la morte di uno dei due. (Cioè del poeta). Con altri il rapporto è più breve; e qualche volta, come nel caso del divino monello, può essere addirittura violento e traumatico. Rimbaud sa di essere poeta. […] Ciò che il divino monello non sa, […] è che la poesia gli verrà data come un lampo, come una «follia»; e che quella follia coinciderà con la più intensa e sanguinosa stagione della sua vita e di tutte le vite umane: l’adolescenza.[81]

Anche lui, dunque, come Villon, una volta maturato e cresciuto, rifiuterà e si vergognerà di tutta la poesia, non solo la sua. Avviene una trasformazione in lui: «Da Veggente a Ottuso».[82]

Eppure la sua fama cresce, anche per merito del suo vecchio amico Verlaine che lo include nella sua antologia Poeti maledetti. Ma Rimbaud, a causa del cancro, «Muore tra atroci sofferenze il giorno 10 novembre [del 1891]: in età di trentasette anni e, come dicono alcuni suoi biografi, “senza sapere di essere Rimbaud”».[83]

La storia umana di Rimbaud è, secondo Vassalli, la prova più evidente dell’esistenza di un «Dio della parola»: al Rimbaud adolescente è permesso di diventare poeta e Veggente solo da questo dio. La sua è, infatti, come sottolineato più volte, una vita quasi del tutto normale. Ma resta il fatto che, come leggiamo nelle carte preparatorie: «la poesia non dipende dal genio: può essere vero poeta anche un cretino. La poesia è qualcosa di divino».[84] E Rimbaud, infatti, smetterà di scrivere solo quando il dio non gli parlerà più e diventerà così un «Ottuso», una di quelle persone che per anni aveva odiato e insultato nei suoi versi. E la prova di ciò si trova oltre che nella vita successiva al periodo poetico, anche negli ultimi istanti di vita di colui che era stato il divino monello: prima di morire si converte:

Morendo, l’Ottuso diventa cattolico: o quanto meno, raccomanda la sua anima a quel Dio di Charleville contro cui aveva pronunciato tante bestemmie, ai tempi della stagione all’inferno e prima ancora. […] Dal Dio della parola alla parola “Dio”, l’avventura umana di Rimbaud termina così».[85]

L’ultimo capitolo del libro, Qualcosa di divino, svolge la funzione di conclusione. In questo capitolo viene esplicato maggiormente il nesso che, secondo l’autore, corre tra religione e poesia.

Nelle carte preparatorie, Vassalli scrive, forse più a se stesso che non in preparazione del libro: «perché dire, ipocritamente, “mi duole di non avere il dono della fede”? Io ce l’ho, la fede. La mia religione è la poesia».[86] In Amore lontano, invece, ha scritto che «la religione non è che una forma impura e tecnicizzata di poesia»[87] ma la vera poesia è

vita che rimane impigliata in una trama di parole.[88] […] La poesia è ciò che sopravvive, nel presente, della parola di cui parlano i testi antichi, che «viene prima di tutto e che dà vita a tutto». È l’unico miracolo possibile e reale, in un mondo dominato dal frastuono e dall’insensatezza. È la voce di Dio.[89]

Sembra quasi che l’autore, scrivendo questo libro, abbia trovato la sua fede in Dio, ma non in un Dio qualsiasi, bensì in quell’

unico Dio dimostrabile e reale, il Dio della parola, [che] ci rende partecipi della sua divinità senza invischiarsi nelle nostre faccende e senza diventare umano lui stesso. Non è un Dio fatto a nostra immagine e non lo sarà mai. Vive nella nostra capacità di intendere e in ogni nostro ragionamento, anche modesto; e ogni tanto ci manifesta la sua presenza per mezzo di uomini come Omero, o come Rimbaud[90]

Dalle carte preparatorie, troviamo anche un argomento che, però, non è stato poi esplicitato all’interno di Amore lontano, ma che è presente in sottofondo e meglio spiega la presenza dell’incipit evangelico del libro:

E la Parola diventò [prima l’autore aveva scritto “si fece”] carne, e fece parte del nostro mondo.

In principio era la Parola / e la Parola si fece carne / ed abitò tra di noi.

La Parola, nel mondo degli uomini, si è fatta carne. La Parola abita ancora tra di noi, ma si manifesta di rado ed è sempre più difficile ascoltarla.

La Parola è Dio (Dio è una parola). La Parola, nel mondo degli uomini, si è fatta carne e continua ad abitare tra di noi.[91]

Il libro si chiude con una sottolineatura sull’importanza dei nomi e delle storie. «Siamo personaggi di un poema indecifrabile e infinito. Personaggi inconsapevoli»,[92] ci dice Vassalli e continua «Ognuno di noi è al centro di una storia, e le nostre storie si intrecciano con altre infinite storie, come i fili di un disegno di cui non vedremo mai il disegno».[93] Ma

ogni vita incomincia con un nome. Noi diamo nomi alle cose e siamo portatori di nomi: questo ci fa esistere nel tempo. Le nostre storie si muovono come fiocchi di neve, o come grani di sabbia in mezzo ad altri grani di sabbia in una tempesta, senza un significato apparente e senza una direzione. Che significato può esserci in un fiocco di neve e nella sua traiettoria? Che significato può esserci in un grano di sabbia? Così, anche, è dei nostri nomi e delle nostre storie; o per meglio dire, così sarebbe irreparabilmente, se ogni tanto, nel mondo, non nascesse un poeta.

La poesia è ciò che mantiene nel tempo le nostre poche consapevolezze. È ciò che il Dio della parola ci rivela di sé, per frammenti e lampi di significato.[94]

E poi, conclude, dopo aver citato un brano di Lucrezio in cui si esplica la sua teoria atomistica, così:

Gli atomi di Lucrezio non sanno di essere terra e acqua e fuoco e «piante rigogliose»; e nemmeno noi sappiamo cosa siamo. Ma, a differenza delle cose inanimate, e anche degli animali che non conoscono i loro nomi, noi possiamo avere un’immagine di noi stessi e dell’insieme di cui facciamo parte, lontana e sfocata come l’«amore lontano» del poeta provenzale Jaufré Rudel. Quell’immagine era, è, e continuerà ad essere nel tempo finché esisteranno degli uomini, la poesia.[95]

Estratto da: Gabriele Russotto, Dietro la poesia di sette poeti. Le carte preparatorie di Amore lontano, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2017-2018, relatore Chiar.mo prof. Roberto Cicala.

Per consultare la bibliografia clicca qui: bibliografia.


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Un libro è il pensiero dell’autore che urge dentro di lui https://editoria.letteratura.it/libro-lasciami-libero/ https://editoria.letteratura.it/libro-lasciami-libero/#respond Sat, 26 Dec 2020 15:50:23 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8267 Che cos'è un libro? Che cosa differenzia una pubblicazione da un manoscritto nel cassetto? Una breve riflessione sul paratesto – in particolare la copertina –, soglia che permette al lettore di entrare in un testo.

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Un libro è il pensiero dell’autore che urge dentro di lui e dev’essere di necessità liberato, grazie alla comunicazione editoriale, per essere offerto al lettore.

Questa citazione, tratta da un interessante articolo del quotidiano “Il Giorno”, uscito in occasione della pubblicazione del volume Libro, lasciami libero. Introduzione letteraria all’editoria (EDUCatt, Milano 2005), ci introduce in un mondo vastissimo – quello dell’editoria – e nell’universo degli scrittori, i cui pensieri hanno bisogno di essere liberati e decodificati in segni riconoscibili perché possa avvenire un incontro coi lettori.

Manoscritto della lirica L’infinito di Giacomo Leopardi (Biblioteca Digitale della Biblioteca Nazionale di Napoli).

Quando i pensieri astratti non sono più sufficienti, ecco che intervengono le parole. Le idee fluiscono fuori dalla mente dell’autore e si concretizzano in lettere e vocaboli: con questo passaggio le intuizioni già iniziano a diventare altro, a trasformarsi da immagini interiori a concetti comprensibili da tutti coloro che sono in grado di decifrare tali segni.

Ancora non è tutto, però: serve un ulteriore passaggio perché un testo essere definito libro. Questo salto è offerto dalla mediazione editoriale; un lavoro di scelta, limatura e comunicazione svolto dai professionisti del libro che dà forma compiuta alle idee dello scrittore.

Si uniscono così la parte testuale e l’edizione (tutto ciò che non è testo e appartiene invece al regno dell’editore); secondo la definizione del critico e saggista francese Gérard Genette, ci troviamo nel paratesto, cioè quell’insieme di produzioni – ad esempio, la copertina – che contornano il testo e attraverso cui quest’ultimo – il famoso manoscritto nel cassetto – diventa libro vero e proprio. A seguire, diverse edizioni dei Canti di Giacomo Leopardi.

 

 

Sarà qui, a metà strada tra testo e paratesto, che avverrà l’incredibile incontro tra il pensiero dell’autore e quello del lettore, dando così vita a nuove idee, nuove immagini, nuovi mondi interiori.

Per leggere l’articolo Da Gutenberg a Eco, un libro dedicato a chi non legge mai, “Il Giorno”, 30 novembre 2005, p. 13 clicca qui: Libro, lasciami libero.


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Emilio De Marchi, «dentro alla polvere una vena di metallo puro» https://editoria.letteratura.it/emilio-de-marchi-opera-omnia-mondadori/ https://editoria.letteratura.it/emilio-de-marchi-opera-omnia-mondadori/#respond Sat, 26 Dec 2020 14:20:14 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8251 Quali furono le condizioni contrattuali e il lavoro di curatela di Giansiro Ferrata nell'opera omnia, pubblicata da Mondadori, di Emilio De Marchi? Un viaggio tra costanti incomprensioni e ritardi, ma anche rispetto e attenzione critica nei confronti dell'opera.

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Emilio De Marchi (Milano 1851 – ivi 1901) è considerato uno dei più importanti scrittori del secondo Ottocento italiano, la cui ispirazione deriva dalla gente umile della terra lombarda e dalla terra medesima, che sempre conforta gli affanni degli uomini. L’opera omnia dell’autore venne pubblicata da Arnoldo Mondadori Editore tra il 1959 e il 1965 col titolo di Tutte le opere di Emilio De Marchi, a cura di Giansiro Ferrata.

Busto in bronzo di Emilio De Marchi realizzato dallo scultore Antonio Carminati con lapide in marmo di Gaetano Moretti ed epigrafe ideata da Giuseppe Giacosa. Si trova oggi presso i Giardini pubblici Indro Montanelli, Milano.

Il contratto editoriale era stato approntato tra il maggio e il giugno 1957 e spedito alla signora De Marchi Rampoldi, con la richiesta di farlo firmare alle eredi, il 17 giugno. La versione definitiva era frutto di qualche compromesso da parte della famiglia De Marchi, che intendeva partecipare piuttosto attivamente alla pubblicazione del volume, come da parte della casa editrice, pronta a concedere una percentuale dei ricavi nonostante la legge sul diritto d’autore fosse a loro favore.

Prova di questi atteggiamenti sono, ad esempio, le comunicazioni interne della Mondadori, in cui Enzo Orlandi riassume e discute i termini contrattuali che le eredi chiedono di modificare, domandando che siano «cancellati alcuni paragrafi» o addirittura di «poter approvare lo schema secondo il quale verrà fatta da noi ‘Opera Omnia’ predisposta in accordo con Giansiro Ferrata»;[1] grazie a queste fonti possiamo ipotizzare i contenuti principali del contratto, di cui abbiamo a disposizione soltanto un asciutto riassunto fornito in un “Appunto per il Presidente” e delle menzioni in alcune lettere precedenti l’invio dello stesso alle eredi.

Possiamo affermare con certezza che le percentuali infine proposte per i diritti d’autore, almeno fino al 31 dicembre 1961, sono «per l’edizione nei Classici Contemporanei Italiani 7% sulla brossura; [p]er le collane popolari, 4% sul prezzo di vendita»; prima con la riserva che «se sarà possibile prolungare la protezione di legge dei diritti d’autore invocando il fatto che la nostra è un’edizione critica» si potranno stilare «nuovi accordi»,[2] quindi, determinata l’impossibilità di prolungare i diritti dell’opera, con il «4% sul prezzo di copertina, dedotto il 25% dal 1.1.62 al 31.12.71» per Tutte le opere e il «2% sul prezzo di copertina dal 1.1.1961 al 31.12.1971» per le opere pubblicate nella “Biblioteca Moderna Mondadori”.[3]

Inoltre, sappiamo che la loro richiesta di visionare il piano dell’opera di Ferrata fu approvata, perché ne ritroviamo notizia nella già citata lettera del 17 giugno, in cui si afferma che il suddetto piano è consegnato in allegato (pur riportando l’indicazione che «l’abbozzo relativo non è stato ancora discusso dalla nostra Direzione Editoriale, e potrà quindi subire eventuali varianti»,[4] come poi effettivamente accadrà).

Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, Garzanti, 1961.

Sappiamo anche che fu concessa alla Garzanti, con l’approvazione delle eredi, la pubblicazione dell’«edizione ridotta per le scuole del romanzo Demetrio Pianelli a cura di Mazzali»,[5] probabilmente perché di nessun interesse editoriale per la Mondadori, e senz’altro non una minaccia per le vendite dell’edizione in preparazione, visto il differente pubblico di riferimento.

Prima della firma definitiva, comunque, ci furono alcuni fraintendimenti tra le eredi e la Casa e per questo motivo la firma definitiva del contratto avvenne solo nel mese di luglio: la signora De Marchi e le figlie, infatti, si sentirono intitolate ad aggiungere delle modifiche a penna alla copia che era stata loro inviata il 17 giugno dalla Mondadori.

Vi rendo il contratto firmato dalle mie figlie, nel quale all’art. 2) abbiamo apportato una modifica riguardo alla durata della cessione, secondo quanto era stato prima accordato e considerando di aver già accondisceso su molti altri punti.[6]

Si può parlare, ancora una volta, di errore in buona fede; come risulta dalle comunicazioni successive, e dall’accenno ad alcune conversazioni telefoniche[7] dopo una prima risposta piuttosto piccata da parte della Casa,[8] le eredi intendevano rifarsi a una «clausola indicata nella prima bozza di contratto da Voi [Mondadori] proposta»,[9] che prolungava il contratto di edizione fino alla durata di vent’anni; il fraintendimento si deve probabilmente, dunque, all’erronea idea che le eredi volessero lucrare sui diritti in scadenza del De Marchi per molto più tempo di quanto la Mondadori non fosse disposta a concedere. Appurato che così non era – benché non ci sia dato conoscere i termini esatti del chiarimento – il contratto definitivo venne spedito il 4 luglio e restituito, firmato e senza modifiche, due giorni dopo.

Sono molteplici le differenze tra il primo piano, steso in una fase ancora embrionale del progetto, e l’effettiva edizione che verrà poi messa in commercio. Quella più lampante è lo sviluppo del terzo volume in due tomi distinti: il materiale inedito si era rivelato più di quanto inizialmente ipotizzato, così la casa editrice pensò di non pubblicare un unico volume di dimensioni esorbitanti e al di fuori della linea della collana. Ma altri cambiamenti si possono trovare anche nella disposizione delle opere all’interno dei volumi, cui poi si preferirà dare dei nomi, piuttosto che una semplice numerazione ordinale.

Occorre infine considerare che in questo primo volume non ci sono solo racconti, ma anche un romanzo come Il cappello del prete, vera e propria esperienza narrativa ormai di largo respiro, e di poco precedente i libri più noti del De Marchi che passeranno sotto il titolo di “Grandi romanzi” (secondo volume).[12]

Inoltre, un appunto redatto da Vittorio Sereni nel gennaio 1959 – oltre a sottolineare elementi di carattere generale come l’immancabile presenza del Presidente in ambito decisionale (d’altronde la Casa era evidentemente organizzata su un modello verticale, per cui le scelte finali passavano sempre attraverso Arnoldo) – ci permette di osservare anche come la stesura dell’edizione critica stesse richiedendo più tempo di quanto precedentemente pianificato: secondo l’Appunto del 6 dicembre che abbiamo già citato, infatti, la pubblicazione del primo volume sarebbe dovuta avvenire entro il 1958, «seguita dagli altri due 6 mesi dopo il 1° e 6 mesi dopo il 2° volume».[13]

Un ritardo dovuto probabilmente alla meticolosità con cui Ferrata stava curando il lavoro: il suo rispetto per l’opera del De Marchi è chiaramente percepibile dalle parole che accompagnano il primo volume dell’opera omnia, quando finalmente uscì nel febbraio 1959:

Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, Arnoldo Mondadori (Biblioteca Moderna Mondadori), Milano 1960.

Ha un significato tutto nuovo per lui [De Marchi] la pubblicazione fra i “Classici Contemporanei”. Romanzi famosi, altri quasi ignorati; racconti editi ed inediti, i migliori capitoli delle opere narrative che l’autore non pubblicò; una scelta di poesie, di scritti per il teatro, di prose, di lettere, di pagine in dialetto, e molte testimonianze di un lavoro critico, di un impegno educativo sempre rilevanti formeranno, nei tre volumi della nostra edizione, un panorama dove Emilio De Marchi avrà finalmente la luce che merita. Confrontando nel Pianelli ed altrove il testo definitivo con gli esperimenti (di grande interesse) da cui nacque; stabilendo in ogni caso l’ultima lezione data dall’autore e illustrando nell’appendice al terzo volume anche i più notevoli elementi linguistici verrà offerta qui una nuova prospettiva sull’intera questione. Perché vi si arriva solo oggi, molti anni dopo che Croce, per esempio, riconobbe in De Marchi qualità di prim’ordine?

Insieme a pigrizie, a indifferenze non rare pesò in questo caso l’opinione che alle strade maestre della sua arte lo scrittore fosse arrivato seguendo viottoli, sentieri, terreni vaghi di trascurabile importanza. Con il solito Demetrio Pianelli si osservavano Arabella, Giacomo l’idealista e qualche racconto; si ritrovavano stimoli di curiosità verso Il cappello del prete, romanzo “d’appendice” a doppiofondo psicologico; il resto venne abbandonato quasi sempre agli specialisti di esperienze lombarde. E troppe volte gli specialisti mancano di strumenti interiori per distinguere i meriti.[14]

Grazie a queste stesse pagine si scopre, inoltre, una precoce attenzione – forse non ininfluente nella scelta definitiva di Ferrata come curatore – all’opera dell’autore meneghino. Lui stesso, infatti, citandosi come «giovane lettore […] abbastanza somigliante al sottoscritto»[15] cui vennero presentate, nel 1930, alcune pagine della “Vita Nuova”, ricorda un articolo da lui pubblicato sulla rivista “Pan” del giugno ’34 e dedicato all’opera di De Marchi, in cui si arrischiò a scrivere «d’aver trovato “dentro alla polvere e alla materia inutile una vena di metallo davvero puro”».[16]

Si può tuttavia aggiungere che a questa sua particolare attenzione all’autore si dovrebbero sommare anche altri motivi per la dilazione della stampa, principalmente le responsabilità sempre maggiori che al Ferrata venivano assegnate in quegli anni nell’ambito della direzione editoriale di Sereni: oltre alle consulenze si aggiunse, infatti, prima il ruolo di direttore della collana “Arianna”, poi – proprio durante il periodo in cui stava portando avanti la curatela esaminata – dei “Classici Contemporanei Italiani”. Compiti onerosi, senza alcun dubbio; non sarebbe un’illazione, dunque, pensare che potessero aver parte nel ritardo della pubblicazione del De Marchi.

Ferrata comunque non ha mai negato le proprie pecche in tal senso, anzi: è lui stesso a scrivere ad Arnoldo Mondadori, estendendo al Presidente l’invito a una serata dedicata proprio al De Marchi, a dire che «è stato Lei [Arnoldo Mondadori] a proporre questo lavoro, non il sottoscritto, desolantemente recidivo nel rimandare le iniziative a volte più giuste. Ora che il Ferrata prenda lodi un po’ da tutti, per la sua “buona volontà” ecc. ecc., si sentirebbe molto disonesto tacendo sulle sue pigrizie e trascurando di ringraziare, in Lei, la Casa Mondadori per l’incoraggiamento fiducioso e qualche volta… longanime a scrivere, a leggere, a curare almeno i libri degli altri».[17]

Nonostante alcune lungaggini, comunque, i primi volumi di Tutte le opere cominciavano ad entrare nelle librerie e nelle case degli italiani. Il secondo volume (Grandi romanzi), con un ritardo di otto mesi rispetto ai sei definiti dal contratto, venne stampato nell’aprile del 1960; ne abbiamo notizia direttamente da Arnoldo Mondadori, che parlando della «nostra bella edizione amorosamente curata» alla signora De Marchi Rampoldi, «[s]i compiac[e] moltissimo di poterLe inviare il [su]o fervido augurio per quello che sarà […] un nuovo felice incontro del grande Autore col […] pubblico».[18]

Il terzo ed ultimo volume (diviso in due tomi), invece, si fece attendere abbastanza da far sorgere alcune preoccupazioni nella signora De Marchi Rampoldi: passati più di due anni dalla pubblicazione del secondo volume, arriverà a scrivere:

Il Prof. Ferrata quando preparerà il III volume delle Opere complete che dove [sic] uscire, come promesso, entro il 1962? Ero tanto felice di avere offerto a voi le opere complete di Emilio De Marchi e sono tuttora entusiasta delle vostre belle edizioni, ma questi grandi ritardi mi addolorano.[19]

Emilio De Marchi, Varietà e inediti, Arnoldo Mondadori Editore (I classici contemporanei italiani), Milano 1965.

Parole forti, dettate anche dall’età avanzata della signora – cui abbiamo già accennato e che ella sentiva molto – ed è probabilmente per questo che, oltre a scusarsi per il ritardo, la Casa si preoccupò di assicurare, nella risposta del 28 maggio, la pubblicazione entro i primi mesi del 1963.

Purtroppo si trattò d’una promessa destinata a non essere mantenuta: all’alba del 22 gennaio 1963 « Ferrata comunica che è d’accordo con Arneri per la consegna a fine febbraio del materiale»[20] e, più di un anno dopo, questa ulteriore scadenza è stata ampiamente superata, come testimoniato anche da un’altra lettera – particolarmente seccata – della signora De Marchi, che scrive di «non po[ter] tacere quanto [le] spiaccia il lungo indugio a completare la pubblicazione delle opere di Emilio De Marchi nella collana dei Classici Contemporanei».[21]

L’irritazione, d’altronde, è più che comprensibile, soprattutto se si pensa che in questo modo si era persa l’opportunità di legare la pubblicazione ai centodieci anni dalla nascita (e ai sessanta dalla morte) dell’autore, celebrati nel 1961. La stessa signora, mostrandosi ancora una volta attenta all’eredità del suocero, aveva scritto a riguardo a Vittorio Sereni, allegando anche un articolo del “Corriere Lombardo” che parlava di un busto dedicato all’autore eretto a Paderno Dugnano,[22] augurandosi che fosse «l’avvio ad altre commemorazioni così che la data non passi inosservata».[23]

Tuttavia, l’attesa in questo caso ha una giustificazione concreta e di una certa importanza, come è possibile constatare dalla risposta che venne inviata alla signora De Marchi:

La pubblicazione del 3° volume delle Opere Scelte del De Marchi è programmata da tempo, il rimando è stato determinato dal lavoro di ricopiatura degli inediti e dal completamento della traduzione di Milanin Milanon ormai avviata al termine. Tra poco, verso maggio, comunque potremo andare in composizione e nella primavera dell’anno prossimo i due volumi (come forse Ferrata Le avrà riferito il volume terzo uscirà in due tomi) saranno senz’altro pronti.[24]

L’edizione di Tutte le opere, priva degli importanti inediti studiati dal Ferrata, non si sarebbe potuta considerare completa né adatta a svolgere una funzione critica nell’ambito degli studi dedicati al De Marchi. Comunque, in questo caso le rassicurazioni si dimostrarono veritiere: i due tomi finali uscirono nell’aprile e nel maggio 1964, completi di tutte le Varietà e degli Inediti, come si decise poi d’intitolare il terzo volume.

Estratto da: Camilla Pelizzoli, Emilio De Marchi: storia editoriale tra Garzanti e Mondadori, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2013-2014, relatore Chiar.mo prof. Roberto Cicala.

[1] Appunto della segreteria editoriale di Enzo Orlandi, 23 maggio 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[2] Arnoldo Mondadori Editore a Maria De Marchi Rampoldi, 25 maggio 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[3] Appunto per il Presidente, dall’Ufficio Proprietà Letteraria, 6 dicembre 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[4] Ibidem.

[5] Maria De Marchi Rampoldi a Enzo Orlandi, 21 giugno 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[6] Maria De Marchi Rampoldi a Enzo Orlandi, 21 giugno 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[7] Ci si riferisce in particolare alla lettera del 2 luglio di Magda Boitani De Marchi e Cesarina De Marchi, indirizzata all’attenzione del dott. Orlandi (ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi).

[8] Al messaggio sopracitato la Mondadori rispose con una lettera che si conclude in questo modo: «Siamo spiacenti di non poter accettare il contratto che le Eredi ci hanno rimandato e ci dichiariamo disposti a farle tenere una nuova copia di esso ripristinata nella sua integrità perché venga finalmente firmata. Ove le Eredi non credano di accedere a questa nostra proposta, la Casa è spiacente di dover dichiarare che si disinteresserà della pubblicazione delle opere di Emilio De Marchi quale era stata prospettata precedentemente» (Arnoldo Mondadori Editore a Maria De Marchi Rampoldi, 29 giugno 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi).

[9] Magda Boitani De Marchi e Cesarina De Marchi a Enzo Orlandi, 2 luglio 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[10] Piano per i tre volumi De Marchi nell’edizione critica “Classici Contemporanei”, redatto da Giansiro Ferrata, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[11] Scrive Arnoldo Mondadori a Piero Panzini: «Avrà letto il mio recente “ordine di servizio”, di cui Le feci inviare copia, che annuncia l’inserimento nella Direzione Generale di due elementi che saranno di valido aiuto per il mio lavoro: l’Avv. Arrigo Polillo alla Segreteria della Presidenza, e il Dott. Vittorio Sereni, Direttore Letterario» (Arnoldo Mondadori a Piero Panzini, 7 novembre 1958, ArchAmeSeai, fascicolo Piero Panzini).

[12] Appunto per il Presidente, Vittorio Sereni, 30 gennaio 1959, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[13] Appunto per il Presidente, dall’Ufficio Proprietà Letteraria, 6 dicembre 1957, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[14] Emilio De Marchi, Tutte le opere, a cura di Giansiro Ferrata, Mondadori, Milano 1959, vol. I, p. XIII.

[15] Ibi, p. XIV.

[16] Ibidem.

[17] Giansiro Ferrata ad Arnoldo Mondadori, 10 giugno 1959, ArchAmeAr, fascicolo Giansiro Ferrata.

[18] Arnoldo Mondadori a Maria De Marchi Rampoldi, 28 aprile 1960, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[19] Maria De Marchi Rampoldi alla Casa Editrice Mondadori, 30 aprile 1962, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[20] Appunto della Segreteria Letteraria, 22 gennaio 1963, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[21] Maria De Marchi Rampoldi alla Direzione Amministrativa, 5 aprile 1964, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[22] R.C.P., Un busto ad Emilio De Marchi nel sessantesimo della morte, in “Corriere Lombardo”, 24-25 febbraio 1961, p. 9.

[23] Maria De Marchi Rampoldi a Vittorio Sereni, 29 febbraio 1961, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.

[24] Vittorio Sereni a Maria De Marchi Rampoldi, 16 ottobre 1964, ArchAmeSeai, fascicolo Emilio De Marchi.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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