Quali sono le immagini che hanno reso Pinocchio il burattino più conosciuto e amato al mondo? Un viaggio che dai bozzetti, attraverso gli illustratori più noti, ci condurrà fino alla controversa versione disneyana e alla contemporaneità.

A fine Ottocento si va delineando e formando una nuova letteratura, quella per l’infanzia, che vede in Pinocchio il primo grande esempio e punto di riferimento. Secondo Emilio Garroni in Pinocchio si verifica una mistificazione che avviene nel momento in cui Collodi stesso mette in discussione il proprio ruolo di autore, lasciando trasparire un «Collodi adulto», un «Collodi bambino» e insieme essere un «Collodi adulto che scrive per bambini».[1] La letteratura per l’infanzia, quando non è come quella di Pinocchio, destina il bambino ad essere eternamente tale perché tende a nascondergli, mistificandolo, «il rapporto oscuro e negativo con il mondo degli adulti, con la vita, cioè con l’ambivalenza in cui gli adulti si realizzano bilanciando realtà e irrealtà».[2]

Pinocchio diventa immagine: dai bozzetti ai primi grandi figurinai

Un contributo rilevante al successo di Pinocchio lo si deve agli illustratori, che prima di prendere matita e colori in mano, sono stati a loro volta lettori delle Avventure.

Pinocchio è appunto un mito, proprio perché è sempre facilmente identificabile da coloro ai quali è – forse – autenticamente diretto, cioè dai bambini che non sanno leggere, ma che possono tuttavia anche guadagnarsi una personale, irripetibile conoscenza delle Avventure, proprio guardando le figure e seguendo l’itinerario grafico percorso dall’inconfondibile protagonista.[3]

Occorre precisare che alla prima comparsa del racconto a puntate su “Il Giornale per bambini” le Avventure non sono corredate da alcuna rappresentazione grafica. Una vera e propria anomalia per un giornale dedicato ai piccoli lettori. La ragione è da ricondursi al carattere intermittente della stesura dei capitoli da parte dell’autore che scoraggia l’editore dall’affidare a qualche disegnatore professionale il compito di illustrare la storia di Pinocchio. Infatti Guido Biagi comunica a Collodi:

Non ti posso nemmeno far fare le vignette – aveva scritto – non avendo nulla in mano. Se tu me ne mandassi 46 capitoli cercherei di Ximenes o di altri che tu potresti indicarmi.[4]

Pinocchio viene raffigurato per la prima volta da Ugo Fleres (in “Giornale per i bambini”, 16 febbraio 1882).

Solo dopo l’interruzione più prolungata, viene inserita una vignetta: Pinocchio è raffigurato impiccato ad una bilancia; il suo corpo è dalla parte di chi guarda e l’altro braccio della bilancia pende verso un cerchio, ed un ago nero, che punta verso il basso. Questa piccola immagine è realizzata da Ugo Fleres (Messina 1857-Roma 1939), che ha «avuto l’onore di avere inaugurato l’immaginazione grafica a proposito del burattino.[5] Egli viene incaricato da Guido Biagi di tradurre in immagine il trade union tra la prima serie di capitoli ed i successivi. Ed in effetti l’ago della bilancia costituisce il punto di divisione tra presente e futuro della storia, come demarcazione del prima e del dopo l’interruzione della pubblicazione. Questa figura ha la funzione di spiegare dunque le intenzioni dell’autore piuttosto che illustrare le vicende della storia.[6]

La storia di Pinocchio, al momento del suo esordio come libro, incontra il suo primo corpo illustrativo grazie al lavoro dei cosiddetti “figurinai”. Con questo termine ci si riferisce a quei venditori ambulanti che commerciavano, nelle città e nelle campagne, statuine di marmo o gesso dette appunto figurine, oppure figurine e libretti a stampa come le immagini da appendere alle pareti, quali lunari o effigie dei santi.

Nell’Ottocento in Italia sono molti gli editori, tra cui Salani e Sonzogno, Barbèra e Bemporad, Paggi e Le Monnier, che commerciano i lunari e altri tipi di fogli volanti e prodotti simili al feuilleton francese.[7] Non è un caso che sia proprio Firenze il luogo prediletto ove fiorisce la professione del figurinaio, e cioè il luogo in cui vissero ed operarono tutti i più antichi fra i disegnatori italiani per l’infanzia, che hanno costituito un bacino di professionalità cui la fiorente editoria della città ha attinto per implementare l’ambito di quel genere letterario.[8]

Ed è in questo contesto che si collocano i primi illustratori delle storie di Pinocchio. Le Avventure di Pinocchio vengono per la prima volta rappresentate da Mazzanti e Chiostri, figurinai che lavorano entro un ambito editoriale avviato ma complesso.

Mazzanti nasce a Firenze nel 1852 ed è legato a Collodi da una vera amicizia anche, forse, dovuta al fatto che vi sono affinità biografiche tra i due, come per esempio la frequenza alla Scuola degli Scolopi, e spesso accompagna il Lorenzini nelle sue passeggiate notturne.[9] Già abile illustratore, s’incontra con Collodi quando gli viene dato il compito di illustrare due sue opere: la traduzione dal francese de I racconti delle Fate di Perrault e Storie Allegre.

Mazzanti, diversamente dal Lorenzini che giunse per gradi al Pinocchio, liberando via via solo una parte della sua fantasia e delle sue capacità di attingere al mondo degli archetipi e dei miti, diede già con le illustrazioni per le Storie Allegre di Collodi, una prova estremamente riuscita di quelle che furono sempre le sue migliori possibilità.[10]

Le modalità espressive con cui Mazzanti affronta Pinocchio risentono del viaggio recente e significativo tra le pagine francesi di Perrault. Ed inevitabile è che si confronti con le immagini di Gustave Doré, che ha illustrato la sopracitata storia prima di lui, e da cui fa derivare qualche linea gotica. Basti pensare quanto il famoso Barbablù di Dorè assomigli al nostro Mangiafoco. Nonostante le somiglianze molti sono gli elementi che però distanziano i due illustratori, a partire dalle conoscenze tecniche di ciascuno. Infatti mentre:

Dietro l’infinita, monocorde e laboriosa pazienza che riempie di segni, sfuma con grigi resi da fittissime campiture, attenua con miriadi di tratti la robusta chiarezza dell’impostazione data da Doré alle sue tavole, si indovina la organizzata e industre schiera degli anonimi incisori che operano negli atelier […].[11]

di contro il segno a stampa di Mazzanti è legato a quello iniziale della matita:

E si muove, libero e vagamente primitivo, secondo intemperanti e brevi bizzarrie, sogghignanti svolazzi e frenesie a malapena trattenute, nello spazio assolutamente esiguo delle piccolissime vignette, ma con la sicurezza di chi ha convintamente e creativamente negato il limite della pochezza spaziale e da ciò ricava veri tesori e riferimenti specifici.[12]

Mazzanti illustra Pinocchio per la prima stampa in volume (Felice Paggi Libraio-Editore, Firenze 1883).

Mazzanti disegna in totale 62 tavole, alcune delle quali assomigliano più a schizzi privi della dimensione favolistica, altre invece sembrano da lui favolisticamente più partecipate. Oltre a Doré si rinviene come altro modello di riferimento anche quello francese dei disegni di Grandville e al suo mondo di animali parlanti. Mentre valorizza i personaggi, dà scarso rilievo all’ambiente e al paesaggio. Trascura l’ambiente collodiano per focalizzarsi sul carattere, identificando le situazioni con il personaggio: per fare un solo esempio, la casa della Fata si riduce alla figura e immagine della Fata stessa, rappresentata come eterna bambina e primavera. Quanto a Pinocchio, ne trasmette la personalità irriverente e sfrontata nel frontespizio del libro: vediamo un Pinocchio che guarda dritto verso l’orizzonte, con le mani sui fianchi, circondato dagli animali e dalla Fata, ma da nessun altro personaggio umano.

Mazzanti in molte tavole ricorre all’uso di silhouette nera per un motivo funzionale alla descrizione psicologica del personaggio, quella della corsa compulsiva che, come si è detto sopra, Collodi descrive con l’uso di sinonimi e di similitudini (correre come un levriero o come una lepre). Questa corsa è interpretata da Mazzanti come fuga verso la vita ma anche come fuga dalla paura.[13]

Anche se l’immagine di Pinocchio che scaturisce dalla matita di Mazzanti è piuttosto gotica e grottesca, ciò non gli impedirà di essere stato l’unico figurinaio ad aver illustrato l’opera collodiana vivente l’autore e di sfondare le porte del successo nel mondo ancora oggi.

L’immagine del burattino con la casacca da clown bianca diventa subito paradigmatica.[14]

Altro figurinaio di Pinocchio è Carlo Chiostri che viene considerato:

Il secondo e più interessante inventore di Pinocchio. Fascino del tempo passato a parte, le sue rappresentazioni grafiche, eleganti, secche, limpide nel segno, risultano ancora penetranti e suggestive.[15]

Nasce a Firenze nel 1863 e perso «fra i suoi pennini e minuscoli modelli» diventa uno dei maggiori figurinai di fine Ottocento e inizio Novecento perché «povero» ma «laboriosissimo»:

Gli capitò lo straordinario dono di illustrare i due unici capolavori dell’Ottocento italiano: I promessi sposi e Pinocchio.[16]

Inizia a lavorare, come Mazzanti, per Bemporad e Salani. Già illustratore per l’infanzia, diventa famoso anche per i disegni compiuti per il Ciondolino di Vamba. Il suo stile è definito e ciò che lo caratterizza sono i tre elementi di cui si compone:

Il grigio che elaborò e esaltò in tutti i possibili toni; l’acquerello con le sue visionarie pastosità; lo sfumato che rese più vaghi e straniti i suoi improbabili ma esatti personaggi.[17]

Quando gli viene dato l’incarico di illustrare Pinocchio, come prima cosa riprende le figure di Mazzanti, apportandovi variazioni di poco conto. Già dalla copertina sembra riprendere l’immagine di Pinocchio di Mazzanti, ma allo stesso tempo se ne discosta:

Pinocchio è ancora in primo piano, ma insieme al gatto e alla volpe, posti in alto, in contrapposizione al grillo parlante, posto in basso, anch’esso in primo piano. Il personaggio perde così la sua posizione centrale e diviene uno dei personaggi in scena, non l’unico. […] All’interno del volume vi è una sostanziale libertà rispetto all’impianto precedente, le figure divengono più aggressive per via di una forte identificazione delle situazioni ambientali in cui si muove il burattino […]. Quello che nel Mazzanti è indefinito, qui trova forte definizione.[18]

Chiostri, inoltre, contribuisce a universalizzare Pinocchio proprio perché lo restituisce ad un contesto in cui il personaggio è immerso:

Chiostri cerca di introdurre il fantastico all’interno della realtà quotidiana, Mazzanti si era mosso in direzione opposta infantasticando il reale.[19]

Chiostri mette insieme per la prima volta il reale e il fantastico (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze 1901).

Ed infatti nell’edizione del 1901 per Bemporad, che cerca in un qualche modo di riscrivere le stesse tavole del suo predecessore per i primi due capitoli, già al terzo se ne discosta, dando respiro al suo stile. Il disegno del capitolo III diventa così emblema e simbolo dell’illustrazione chiostresca: il Carabiniere che prende per il naso Pinocchio. Qui si vede come Chiostri vede il mondo, caratterizzato dalla compresenza di reale e surreale. E come nella fiaba, così accade nelle tavole: inserisce sì un elemento straniante nel disegno, ma questo non è destabilizzante, anzi, sembra quasi che faccia parte naturalmente della realtà.

Chiostri disegna in copertina un Pinocchio rassomigliante a quello di Mazzanti (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze 1901).

Elemento straniante è lo stesso Pinocchio: per la prima volta lo vediamo di fronte, con una propria espressività a seconda di quello che gli succede. E inoltre, sul frontespizio, Chiostri riprende sì la stessa immagine di Mazzanti – con Pinocchio con le mani sui fianchi –, ma il personaggio non guarda più verso l’orizzonte ma sembra avere un’espressione allucinata e attonita che lo caratterizza poi per tutta la storia.

A differenza di Mazzanti, Chiostri ci fa rivivere gli ambienti della Toscana rurale e cittadina, come l’esterno del Gran Teatro dei Burattini con il pubblico abbigliato secondo la moda del tempo, gli uomini col cappotto e cilindro e le donne con il fazzoletto in testa e la scuola rurale.

Chiostri lavora per una vita:

Sopra gli uffici dell’Editore Le Monnier, prigioniero d’un tavolino del Seicento bolognese posto sotto la finestra, sul quale lavorerà ininterrottamente, curvo e magro, con la coppola in testa e la giacchetta in alpaca, fino alla morte, avvenuta a Firenze il 7 settembre 1939, a 76 anni d’età.[20]

Le illustrazioni di Chiostri vengono poi incise anche su legno da Adolfo Bongini, a scapito però delle sfumature del disegno.[21] Tuttavia la casa editrice Bemporad, dato il grande successo ottenuto, arriva alla tiratura di 350 000 copie.[22] Si potrebbe dire che dopo Mazzanti e Chiostri «agli altri non è rimasto che inventare».[23]

Pinocchio a colori

L’edizione illustrata da Mussino non solo è la prima a colori, ma è anche l’editio princeps e la prima di lusso (R. Bemporad & Figlio Editori, Firenze 1911).

L’inizio di una nuova era nell’illustrazione di Pinocchio lo si deve ad Attilio Mussino, il quale nasce nel 1878 a Torino. Nelle sue rappresentazioni si legge il segno di un nuovo contesto storico, quello giolittiano, economicamente e culturalmente più stimolante del periodo austero in cui operarono Mazzanti e Chiostri. Per la casa editrice Bemporad Mussino produce centinaia di tavole rimanendo a contatto con Pinocchio e gli altri personaggi per almeno 35 anni. Ogni qualvolta Bemporad ripropone la favola di Pinocchio in una diversa forma editoriale, commissiona a Mussino nuove e diverse tavole che a loro volta risultano di diversa qualità e riuscita. Ma l’edizione fondamentale da ricordare è quella del 1911: si tratta dell’edizione princeps, la prima a colori ed è la prima edizione di lusso venduta al prezzo di 12,50 lire rispetto alle 2,50 lire delle precedenti edizioni.[24] Mussino fa una riscrittura del Pinocchio chiostresco, presentando così il protagonista:

Pinocchio non ha più il cappello a cono ma una sorta di calottina, non porta più la gorgiera ma un collettone floscio e anche il vestito a fiori di carta manca dei consueti, evidenti, riferimenti al mondo del circo.[25]

I contorni e i contrasti sono netti e precisi, ma il colore è il vero filo conduttore del racconto: attraverso le diverse tonalità (cupe, chiare, neri e blu, verdi accesi) l’illustratore esprime via via il senso e l’atmosfera del racconto e le caratteristiche dei personaggi, cosicché testo e disegno diventano complementari. Mussino con:

Estrema precisione di un segno a macchia, scultoreo e nitido incontra spesso un’enfasi raffinata […].[26]

e riesce:

A concentrare, nel suo inconfondibile segno nero – robustamente aggressivo, quasi scanzonatamente plebeo, ma insieme maneggevole e imprevedibile, ricco sempre di una incontrollabile fantasia – echi provenienti da territori diversi e fra loro lontani ma sempre riconoscibili.[27]

Egli è stato in grado di rinnovare «l’iconografia pinocchiesca», ci dice il critico Bargellini, in quanto la narrazione è disegnata passo passo, anche attraverso l’uso delle sequenze.

Mussino infatti utilizza figurine scontornate che rimandano l’una all’altra, come tanti fotogrammi in successione, precorrendo la tecnica del cartone animato.

Diverso è l’ambiente disegnato perché diverso è l’ambiente in cui vive il disegnatore: se Mazzanti e Chiostri vivono nell’età umbertina, Mussino è dell’età giolittiana e così nelle tavole non c’è più la Toscana, ma Torino.[28] Il popolo viene rappresentato secondo l’abbigliamento tipico della borghesia piemontese. Ed è così che se Chiostri utilizza un minuzioso realismo, Mussino invece presenta la realtà e i personaggi come una galleria di caricature. Lo stesso Pinocchio:

È lontano dal possedere la fissità drammatica e allucinata del Pinocchio di Chiostri, e che rivela clamorosamente, spalancando o chiudendo a ogni momento la bocca, ogni più passeggero stato d’animo.[29]

Tra le tavole più famose vi è quella dell’arresto di Pinocchio da parte dei Carabinieri, il Gatto e la Volpe rappresentati con accentuato antropomorfismo – anche Mussino riprende la lezione di Grandville – e il bel ritratto della Fata, che sembra la Bella Addormentata.[30] I personaggi sono o divengono essi stessi burattini attraverso una forte connotazione caricaturale.

Sergio Tofano esalta i movimenti flessuosi e teatrali del protagonista (Edizione Libreria Italiana, Milano 1921).

Quando Sergio Tofano (Roma, 1886-1973), in arte Sto, disegna per la prima volta Pinocchio è nel 1921, a quattro anni di distanza dalla prima apparizione nel “Corriere dei piccoli” del personaggio strampalato da lui inventato di nome Bonaventura. Pinocchio e Bonaventura vanno a braccetto nei suoi disegni, uno rimanda continuamente all’altro per l’indiscutibile somiglianza. Nascono velocemente 23 illustrazioni, raccolte in un volumetto, che non ha avuto tuttavia un gran successo probabilmente a causa della copertina disegnata da Mussino e quindi per il contrasto e differenze tra i due disegnatori. Lo scarso successo di questa iniziativa è testimoniato dal fatto che non ne verrà fatta una seconda edizione.

Diversamente dagli altri illustratori, Sto non teme la figura di Pinocchio che è presente in ogni tavola, non manca mai né come spettatore né come protagonista, né si limita a rappresentarlo, come invece altri illustratori, di spalle o di profilo o accennando solo alla sua presenza tramite silhouette. Pinocchio è personaggio centrale, mentre l’ambiente circostante perde completamente d’importanza. Di Pinocchio esalta i movimenti flessuosi e teatrali riconquistando così il suo essere davvero marionetta, leggera e flessibile, nonché le espressioni spesso esasperate di stupore e di gioia. Per Sto l’unico protagonista è Pinocchio e trascura altri personaggi chiave del racconto. Addirittura la Fata o il Gatto e la Volpe non compaiono mai nelle sue tavole.[31]

Lo stile liberty nelle illustrazioni dei fratelli Cavalieri (Salani Editore, Milano 1924).

Nel 1924 esce per i tipi di Salani l’edizione, in piccolo formato, con le illustrazioni dei fratelli Luigi e Maria Cavalieri. Le loro tavole, in totale otto, divengono subito famose e apprezzate per il loro gusto liberty. I personaggi, non molto spontanei nei loro gesti amplificati e teatrali, risultano tuttavia dolci e piacevoli. Pinocchio riconquista il suo cappello ed abito da clown di mazzantiana memoria ma è molto dolce e accattivante con le labbra ed i pomelli rossi ed il sorriso quasi femmineo.[32] Questi due disegnatori hanno insieme rivisto Pinocchio con lo sguardo tipico dell’Art Nouveau, attraverso delicate linee espressive. Ma vi è pure chi vi ha visto una certa deformazione dei personaggi anche con una lieve derisione come per esempio:

Il pescatore verde, pieno di riccioli, di volute, cosparso di conchiglie, è di per sé un personaggio liberty e così la chiocciola, lo strano serpente, per non dire della fatina. Pinocchio poi, vibra tutto tra le pieghe di un floreale vestitino, mentre il gatto e la volpe sembrano tratti da un fregio di Beardsley.[33]

Le prime illustrazioni pensate per gli adulti

Alcune edizioni possono essere considerate per adulti piuttosto che per ragazzi, data la presenza, a volte invadente, dell’interesse volto più ai valori formali o simbolici del testo. Tra i disegnatori di questo tipo di edizioni vi è Leonardo Mattioli (1928-1999) che illustra per Vallecchi nel 1955 una nuova edizione delle Avventure, con l’introduzione di Luigi Volpicelli. I lavori per questa edizione lo impegnano per circa un anno poiché cerca di esprimere al meglio le suggestioni del testo. Pinocchio è semplice silhouette che si muove nello spazio, non si vede il suo volto né i colori dei suoi vestiti. I colori sono nell’ambiente e il tutto si dipinge di azzurro carta da zucchero e arancio, beige e marrone, rosso spento e blu notte. La frantumazione delle figure, nonché la consuetudine a firmare ogni tavola con la propria iniziale fanno pensare a una certa influenza del cubismo e di Picasso.[34]

Il mondo ridondante e goliardico di Jacovitti (Edizioni AVE, Roma 1964).

Benito Jacovitti (Termoli 1923-1997) si avvicina a Pinocchio la prima volta nel 1943 per la casa editrice La Scuola di Brescia. Compie i disegni in bianco e nero, colorati poi da Aristide Longato. Disegna Pinocchio una seconda volta nel 1946 per i tipi Fratelli Spada e questa volta si tratta di una riduzione con immagini e testo a fianco. Ma già il suo stile è ben definito: il suo mondo è ridondante e goliardico, ricco di significati nascosti: basta aguzzare la vista un attimo per vedere, nel marasma di colori e figure, allegorie alla quotidianità o elementi del tutto estranei al racconto. Nel 1964 per le edizioni AVE, Jacovitti affronta di nuovo Pinocchio. L’immagine sembra parlare e raccontare di più rispetto al testo. Immancabili sono le tavole di derivazione fumettistica come quella della colazione con la pera di Geppetto e Pinocchio e quella del Gran Teatro dei burattini, tavola quest’ultima divenuta simbolo del suo stile affannoso ed affollato.[35] Si tratta di una «gragnuola di bum-bum, drig, puffette, bang e gulp».[36]

All’edizione del 1964 e allo stile «stracarico e ridondante» di Jacovitti, si affianca nello stesso periodo un’altra edizione: quella illustrata da Alberto Longoni per Vallardi nel 1963, caratterizzata da «un calligrafismo formale di grande poeticità».[37] In origine l’edizione è stata curata dalla casa farmaceutica Midi come strenna per i clienti ed è di formato gigantesco (35x50cm). Quello di Longoni è uno stile ben preciso e delineato che si discosta completamente dalla schiera di illustratori del tempo. Anche Pinocchio è particolare: di lui si nota ogni singola nervatura di cui è composto il suo legno ed è immerso:

In un paesaggio ingombro di colpi di penna, fittissimo di trame tratteggiate, nuota in un mare dove l’intrigo dei segni è volto a creare arabescati fantastici e improbabili, sale su carrozze che, pur tirate da centinaia di ciuchini, appaiono quasi avviluppate da ragnatele. […] personaggio principale è qui l’illustratore.[38]

Il Pinocchio onirico di Topor (Olivetti, Milano 1972).

Roland Topor, artista francese di origine polacca (Parigi 1938-1997), oltre ad essere un grande illustratore, è anche uno scrittore di romanzi per l’infanzia, un cineasta e animatore. Il suo carattere tenebroso è riflesso e nelle sue storie e nei suoi disegni, divenendo così in toto un illustratore «onirico».[39] È Giorgio Soavi che gli commissiona la strenna Olivetti per il 1972 ed è così che Topor accetta di incontrare Pinocchio. È il primo illustratore che riesce a trasporre in disegno l’inquietudine del personaggio: nasce un Pinocchio carico di significati e simboli: le paure ancestrali (il serpente), i complessi edipici (la fatina ormai donna/madre/amante), il Pesce-Cane-Grembo che inghiotte e poi restituisce un Pinocchio nuovo, simboli fallici (il naso di Pinocchio).[40] Sono le stesse parole di Topor a spiegarci il perché di questa sua visione:

Io l’adoro questo burattino. È l’unico personaggio letterario moderno, attuale, vero, con le sue curiosità, le sue viltà. E poi quel naso non le sembra un pene, il simbolo della crisi del maschio? Lo guardi quel Pinocchio con quell’aria dimessa e arresa e quel gran naso floscio, in ammirazione della Fatina.[41]

Pinocchio torna in Toscana con le illustrazioni di Roberto Innocenti che nasce nei pressi di Firenze a Bagno a Ripoli nel 1940. Diversamente da Chiostri, che nonostante le origini toscane esclude l’ambiente evocato da Collodi dalle sue raffigurazioni, i disegni di Innocenti per Pinocchio sono invece una catalogazione del paese e degli ambienti tipici di quella regione:

Le illustrazioni di Innocenti sono un grande affresco della Toscana contadina e paesana, dei suoi modi di vita, quotidiani e straordinari.[42]

Le sue tavole, che illustrano l’edizione Creative Education del 1989, riprendono in modo minuzioso ogni aspetto della vita quotidiana. I suoi sono affreschi in cui i personaggi del racconto collodiano sembrano perdersi. Innocenti ci dice che, per avvicinarsi alla storia ha dovuto ripercorrere i luoghi della sua infanzia e così, mettendosi in contatto con i propri ricordi, ha potuto incontrare anche Pinocchio:

Ho girato mezza Toscana, per fotografare pezzi di muratura, viottole senza meta, muretti che non servono a nulla, case abbandonate. Ma è servito soprattutto a rinfrescare la memoria di un ragazzino che suo zio portava a caccia. […] Tutto intorno c’erano quei muri, quella gente che andava a mezz’ora di carro per prendere l’acqua, una vitaccia, una Toscana di zolle secche, mezzadri, fattori, carrettieri […]. Dopo tutto fu allora che lessi Pinocchio, e quello era il paesaggio fantastico che io avevo intorno, cominciava a mezz’ora di tram da casa mia. [43]

I pastelli a cera di Mattotti rendono i personaggi così vivi che sembrano uscire dalla pagina (Albin Michel Jeunesse, 1990).

Lorenzo Mattotti (nato a Brescia nel 1954) disegna per la prima volta l’opera collodiana per Albin Michel Jeunesse nel 1990, edizione pubblicata un anno dopo in italiano da Rizzoli e nel 2001 da Fabbri Editori. Viene considerata dalla critica la più bella edizione mai fatta per la spettacolarità delle immagini, che prendono volume acquisendo peso e sostanza. La tecnica utilizzata da Mattotti, che lo rende famoso in tutto il mondo, è quella dei pastelli a cera «grumosi, chiaroscuri sapienti e fascinosi».[44] Nell’immagine prevale l’elemento gotico:

Mattotti plasma le sue figure con dei colori che sembrano usciti dalla tavolozza dell’inconscio, i toni sono prevalentemente cupi e si armonizzano perfettamente con i colori chiari costantemente illuminati da una luce lunare.[45]

I personaggi sono così veri e di carne ed ossa che sembrano uscire dalla pagina e danno allo stesso tempo un senso di inquietudine:

La pioggia, il freddo, la fame, il fango, tutto ci racconta di una difficoltà di vivere faticosa ed estrema. Pinocchio corre, scappa, come nella copertina, e sopra di lui qualcosa incombe sempre minaccioso, siano i due carabinieri, totem ieratici, sia il terribile Mangiafoco, che emerge dalla gran barba nera […].[46]

La tavola più bella e incredibile è quella che raffigura Pinocchio impiccato alla Grande Quercia, di notte, al buio in balia del vento:

Una tavola tutta risolta a colpi di pittura, veloce, instabile, piegata verso il buio sotto un vento, violento e “strapazzone”. […] Pinocchio è uno sconfitto, perderà le monete d’oro e sta perdendo la vita: rimane lì, come una povera cosa squassata dal vento.[47]

È significativo notare che nella versione italiana non vi è nemmeno una riga d’introduzione o di commento, e questo forse è dovuto all’importanza data alle immagini. Ma nella versione francese c’è una frase di Mattotti stesso che, forse, valeva la pena riprodurre:

Pinocchio racconta la solitudine di una marionetta, i suoi sogni, i suoi incubi, la sua incapacità di comprendere la realtà. In fondo siamo tutti delle marionette.[48]

 Pinocchio esce dal libro

Il noto Pinocchio prodotto dalla Walt Disney Productions (1940).

Non si può non fare un accenno alla immagine di pinocchio che scaturisce da altri strumenti comunicativi come il cinema e il teatro, a loro volta sedotti dall’intramontabile burattino. Le avventure di Pinocchio approdano al cinema con Comencini (1972) e poi Benigni (2002). Ma è negli anni ‘40 che avviene la vera rivoluzione: Pinocchio approda in America con il cartone animato di Walt Disney. Molte sono state le critiche mosse a questa interpretazione d’oltreoceano tra cui quella di aver raccontato un’altra storia, diversa da quella di Collodi. Ed in effetti Disney amplifica, come con il grillo parlante, o sminuisce il ruolo di alcune figure ed imprime alla storia la sua personale scelta di eliminare il male, il diverso, il cattivo dalla realtà, scelta:

Tesa a spegnere nell’infanzia, ogni sospetto ancora residuo intorno all’esistenza del male.[49]

Secondo alcuni però questa critica tranciante non tiene in considerazione alcuni aspetti positivi del lavoro di Disney poiché egli:

Ha permesso al burattino di superare agevolmente la cittadinanza italiana per farsi cittadino del mondo. Questo cosmopolitismo nella forma in cui si è imposto lo porta però inevitabilmente all’appiattimento della sua identità, che coincide con la perdita della paternità.[50]

Dice Franco Cavallone:

Non c’è dubbio che Disney abbia compiuto sul classico testo di Collodi un tradimento. Eppure il suo adattamento è, più di altri commenti e riscritture, un principio di operazione critica sul testo di Collodi, un tentativo a suo modo rigoroso di ribaltare le premesse.[51]

Non è d’accordo la Marcheschi che invece sostiene che:

L’effetto del film a cartoni animati di Walt Disney (1940) si era fatto sentire, eccome! Piombato in Europa e altrove con la forza dirompente dell’economia statunitense, quel Pinocchio era appena riconoscibile: naso ridotto, abiti tirolesi, ambientazione per cliché pittoreschi, confusione dell’intreccio, tradimento dell’onomastica collodiana e degli echi satirici.[52]

Secondo Antonio Faeti:

Non si trattava di un Pinocchio tradito, ma di un Pinocchio giustamente riletto e opportunamente riambientato entro una soluzione fruitiva che doveva assicurarne il godimento anche a quanti, privi di qualunque informazione o di qualunque dato, immaginato o osservato, sulla Toscanina granducale, intendevano accogliere il mito del burattino errante secondo le cadenze di uno spazio antropologico-culturale che poteva ben confrontarsi con quello da cui, riconoscibilmente, il burattino proviene.[53]

Insomma il merito di Disney è stato quello di aver colto l’universalità di Pinocchio.[54]

È nel 1981 in occasione del centenario della nascita del burattino collodiano che Emanuele Luzzati (1921-2007), grande scenografo per il teatro e inimitabile illustratore, progetta uno spettacolo dal titolo Pinocchio bazar in cielo e terra, con la propria compagnia genovese il “Teatro della Tosse”. Ricevuti premi e complimenti per il grande successo ottenuto, il suo rapporto con Pinocchio continua fino ad arrivare al 1996, quando illustra le Avventure per le Edizioni Nuages. Ferruccio Giromini, illustratore, fotografo, sceneggiatore ci dice riguardo a questa edizione:

Quello di Luzzati è un Pinoccchio che profuma del legno dei palcoscenici teatrali, da cui quell’esperienza arriva e dalla quale non intende allontanarsi. (…) Legno eri e legno ritornerai!… Uno dei caratteri distintivi di questa rilettura luzzatiana, tra paratie inchiodate, botole incernierate, assi piallate, segature ammonticchiate, decorazioni e terror di tarli; la sensazione del legno onnipresente come dolciastra ossessione del passato, tra rimpianto e melanconia ripulsa.[55]

Alcuni degli illustratori moderni e contemporanei

La grandezza di Sigfrido Bartolini sta non solo nell’aver illustrato la fiaba di Collodi, ma di aver costruito attraverso il suo lavoro durato dodici anni – che lo ha portato a compiere 309 xilografie – un grande affresco della Toscana. Il compito gli è stato commissionato dalla Fondazione Collodi nel 1983 in occasione del centenario della nascita di Pinocchio e sembra:

Quasi un pretesto per raccontare la storia visiva, umorale e partecipata, di un territorio e di un modo di vivere che non esiste più.[56]

Ha trasposto su legno il bagaglio di memorie personali e collettive, che vengono raccolte in un monumentale lavoro. Bartolini è riuscito a dare anche una propria interpretazione di Pinocchio, riconsegnandolo alla sua genesi: lo rappresenta in posizione fetale in un piccolo pinolo, insieme evocazione della sua vera natura lignea e rimando all’etimologia latina del nome del personaggio (Pinocchio da pinoculus). Dato il successo riscosso tra il pubblico, ne viene fatta una seconda edizione nel 1996 e una terza nel 2007, in occasione della sua scomparsa.

Delicatezza e inquietudine nelle illustrazioni della Ceccoli (Mondadori, Milano 2001, “Classici Illustrati”).

Un insieme più rasserenante per i colori tenui e delicati è quello che Nicoletta Ceccoli, nata a San Marino nel 1973, disegna nel 2001 per Mondadori nei “Classici Illustrati”. Questa delicatezza non esclude tuttavia l’inquietudine della fiaba che viene espressa in modo del tutto singolare. L’ansia e l’inquietudine traspaiano ad esempio nell’abbraccio tra Geppetto e Pinocchio prima che il burattino vada a scuola: è l’abbraccio tipico di chi non torna. Così come amorevole e dolce è il gesto della fatina che si china sul letto di Pinocchio ammalato ma inquietante è la sfilata in primo piano dei conigli portatori della bara. Un chiaro-scuro emozionale che scava nelle ansie e paure infantili mai superate del lettore.[57]

Emanuela Santini

Emanuela Santini nasce a Jesi nel 1975 e, dopo la maturità artistica, si trasferisce a Bologna dove nel 2000 si diploma in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti, con una tesi sull’illustrazione per l’infanzia.

Con Pinocchio la Santini si cimenta nel 2009, allorché è incaricata dalla Mondadori di corredare l’edizione del racconto. Una volta accettato l’incarico, la casa editrice le invia la cartella con il racconto e le comunica a quale indicazioni deve attenersi:

Dovevo fare due illustrazioni per capitolo: una piccola a inizio capitolo e una grande all’interno del capitolo.[58]

E per fare ciò:

Ho riletto la storia e per ogni capitolo ho sottolineato le parti più importanti e decisive della vicenda. Poi ho focalizzato solo queste parti e per illustrarle sono spesso scesa ad un compromesso tra quelle più importanti e decisive per lo svolgimento della storia e quelle che mi piacevano di più. Fortunatamente il più delle volte le due cose coincidevano.[59]

Una volta decisi i passaggi, Manuela Santini, per trarre maggiore ispirazione, riguarda la riproduzione cinematografica delle Avventure di Comencini, che le ha fatto compagnia durante l’infanzia, ed inoltre consulta nuovamente le immagini dei primi figurinai – Mazzanti e Chiostri –, quelle di Mattotti e quelle di Nicoletta Ceccoli che, prima di lei ha illustrato Pinocchio sempre per Mondadori. Ripreso contatto emotivo con la storia e i personaggi l’illustratrice deve scendere ad un nuovo compromesso, tra il suo stile e quello della casa editrice «classico ma non troppo». Il formato del libro è di 21×29, e la Santini deve stare all’interno di quei margini segnalati come spazi dedicati ai disegni.

Compiuti i primi disegni a matita, li invia alla casa editrice e:

Mi è stata segnalata qualche criticità poiché il disegno di Pinocchio impiccato era troppo forte, e la figura del giudice era troppo cattiva. Ma una volta trovata la quadra, ho dato il via ai pastelli colorati e all’olio su carta. Poi ho dovuto scansionare e scontornare i disegni, lavoro che un tempo faceva il grafico, ma che oggi tutti gli illustratori sono chiamati a saper fare.[60]

In alcuni punti, oltre alla tecnica ad olio e pastelli su carta, utilizza anche la tecnica del collage: in alcune rappresentazioni dei vestiti dei personaggi infatti, tra la stoffa, si possono intravedere trame di quadri di Bosch. Con il suo lavoro la Santini cerca di:

Sottolineare il carattere iniziatico della storia, attraverso la simbologia e gli archetipi: la Fata-Madre, il Grillo-Coscienza e il Gatto e la Volpe come ingannatori. E questo perché l’artista è come un canale e io come tale, mi sono posta questo obbiettivo. Ci sono voluti due mesi di lavoro intenso, ma la fatica è stata ripagata con la soddisfazione finale.[61]

La copertina disegnata da Emanuela Santini (Mondadori, Milano 2008, “Mondadori Ragazzi”).

Nella copertina Pinocchio sembra un tutt’uno con l’albero (il naso sembra un ramo e le gambe sembrano germogli). In effetti l’albero segna il percorso narrativo del burattino che nasce dal legno dell’albero e sull’albero vive il momento più critico della sua storia: esso è insieme l’albero della vita e la Grande Quercia. Sui rami, come frutto del “peccato”, si snodano alcuni personaggi e oggetti simbolici del racconto: la Fata Turchina assume le sembianze di una farfalla che solletica il naso di Pinocchio, i frutti dell’albero sono i denari che penzolano e luccicano, l’abbecedario in bilico su un ramo. Infine il Gatto e la Volpe che, con un’inversione di ruolo, figurano come marionette anziché come “burattinai” del protagonista.

Dai disegni della Santini scaturisce un insieme leggiadro e soave. Anche le scene più drammatiche del racconto risultano rassicuranti, incapaci di suscitare ansie o evocare paure ancestrali. Quello della Santini è un Pinocchio morbido, che affronta le sue avventure con la dolcezza del sorriso e la testarda fiducia dei bambini.

Per concludere

Condivido l’opinione di coloro che ritengono che leggere oggi Pinocchio non sia più come farlo per la prima volta. Quella di Pinocchio è una storia che abbiamo ascoltato con la voce di qualcun altro, letto in silenzio, che è stata consigliata o imposta. E neppure chi non l’avesse mai letta non è scampato dal sentirsi dire almeno una volta «non dire bugie perché altrimenti ti diventa il naso lungo!». Che Pinocchio sia un pensiero o un ricordo, positivo o negativo, tutti almeno una volta abbiamo avuto a che fare con lui.

Sono stati gli illustratori, specialmente i primi, a dare un’immagine di riferimento del burattino costituita da tutti quei connotati che lo rendono universalmente conosciuto e riconoscibile. Temo che una rilettura “neutra” senza che si formino nella mente del lettore le immagini già note sia quasi impossibile. Il bello è proprio questo: ognuno ha la propria sfera e bagaglio d’immagini, corrispondenti alle illustrazioni che ha conosciuto a seconda dell’epoca in cui è vissuto.

Ed è grazie ai disegni che il libro si anima.

Pinocchio è un «libro umano», per dirla con le parole di Croce, sintesi di tutti i sentimenti umani positivi e negativi di bontà e gratitudine, debolezza, fragilità, paura, autonomia, libertà, furberia e ingenuità. Sentimenti che restano vivi e che verranno declinati nelle rappresentazioni future per modalità e intensità secondo la sensibilità del tempo.

Sarei curiosa di conoscere in quali avventure Pinocchio si è cimentato dopo i famosi tre puntini. Pinocchio sta forse aspettando qualcuno che le scriva (per lui), ma questa è un’altra storia, poiché come dice Rodari «anche a fiaba finita, c’è sempre la possibilità di un dopo».

Estratto da: Caterina Ceriani, Pinocchio illustrato: casi di paratesto del capolavoro collodiano, tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 2016-2017, relatore Chiar.mo prof. Roberto Cicala.

Per consultare la bibliografia clicca qui: bibliografia.

 


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).