Divergenze editoriali, ideologia e concorrenza interna: attraverso le carte d’archivio e alcune interviste radio-televisive inedite, una tesi approfondisce le ragioni che condussero Luciano Foà ad abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi.
Nato a Milano nel 1915 da Augusto Foà e Emma Agnelli, Giuseppe Luciano Foà ha rivestito un ruolo di rilievo nell’editoria italiana del Novecento in qualità di agente letterario, traduttore, consulente, segretario generale ed editore a tutto tondo. Suggerito a Giulio Einaudi da Cesare Pavese, Foà rivestì l’incarico di segretario generale della casa editrice dello Struzzo negli anni cinquanta: un ruolo ricoperto per dieci anni e interrotto ufficialmente nell’estate del 1961, con il trasferimento da Torino a Milano e la fondazione di Adelphi nel giugno 1962 insieme con Roberto Bazlen, Alberto Zevi e Roberto Olivetti.
Dover rendere ragione di una questione così complessa come l’uscita di Luciano Foà dalla casa editrice Einaudi può suscitare un certo spaesamento: sono state fornite molteplici chiavi di lettura per descrivere la fondazione di Adelphi, ritenuta dai più il frutto di uno scisma avvenuto nel nome controverso di Nietzsche, una sostanziale rottura con il marxismo, l’illuminismo e il razionalismo dell’Einaudi. Da questa connotazione rigorosamente ideologica alcuni studi hanno preso le distanze, ascrivendola a una mitografia editoriale fallace e non suffragata da fonti, prediligendo piuttosto un ritorno alla storiografia, con un’attenzione maggiore riservata a quei documenti che avvalorano una realtà più composita.
Ebbene, la soluzione più razionale che si è voluto perseguire in questo lavoro di tesi è stata quella di prendere finalmente atto che le motivazioni sottese alla decisione di Luciano Foà di porre fine alla collaborazione con la Einaudi furono molteplici e di diverso ordine. Nel tentativo di restituire una ricostruzione degli eventi aderente alla verità così come intesa dall’editore, sono state raccolte quante più testimonianze dirette possibili, cercando un punto di equilibrio tra l’esercizio del pensiero critico sulle fonti e l’evitamento di interpretazioni polarizzanti. Premesse delle ragioni di carattere strettamente famigliare, ovvero il peggioramento delle condizioni di salute della moglie di Foà, Luisa Schiralli, che al principio degli anni sessanta avevano reso impellente il trasferimento da Torino a Milano, si è riscontrata la necessità di accogliere tutte le altre cause addotte da Foà in occasione dei rari interventi ad oggi rintracciabili.
L’uscita dall’Einaudi e la “questione Nietzsche”: tra mistificazioni e inesattezze
Nel maggio 1986 veniva mandato in onda su RAI Tre Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi,[1] un reportage giornalistico sulla casa editrice torinese, nonché «un brano di storia, un quadro di costume, una radunanza di protagonisti della cultura e infine un ragionamento sull’“utilità sociale” dell’editoria impegnata».[2] Con un intento informativo, il racconto televisivo si proponeva di ripercorrere in chiave divulgativa i trascorsi della casa editrice, le scelte editoriali, le collane, i rapporti con gli autori, i criteri della grafica, ma anche gli «errori compiuti» e le «difficoltà sopravvenute». Tra i numerosi interventi di coloro che maggiormente collaborarono alla definizione del progetto editoriale, troviamo anche quello di Luciano Foà, il cui racconto approdava rapidamente alle cause della separazione dall’Einaudi:
Sul piano del lavoro, io avevo cercato appunto di aprire, in un certo senso, una piccola strada nuova con la consulenza di Roberto Bazlen, che partì da quella famosa lettera in cui lui dava un parere su L’uomo senza qualità di Musil.
Io ero amico di Bazlen dal ’38, quindi lo conoscevo da parecchio tempo, conoscevo le sue idee, i suoi gusti, e naturalmente mi dispiaceva che la sua posizione di consulente fosse un po’ sacrificata: così mi è nata l’idea di poter fondare una nuova casa editrice, anche se la cosa non fosse così ben chiara quando io ho lasciato l’Einaudi.[3]
Da queste prime parole si può evincere come la figura dell’amico Bazlen avesse rappresentato un tassello fondamentale nella ridefinizione da parte di Luciano Foà delle proprie aspettative, in larga parte disattese, rivolte alle pubblicazioni della Einaudi; ma, più genericamente, si potrebbe parlare di un mutamento della concezione di casa editrice, catalogo e suggestioni culturali. Nel proseguire la disamina di quegli anni di transizione, Foà non poteva poi non accennare alla questione che gli studi di editoria letteraria avrebbero associato alla sua scelta di lasciare la casa editrice nel luglio 1961, ovvero la rinuncia da parte della Einaudi a pubblicare le Opere complete di Friedrich Nietzsche:
Uno degli ultimi fatti che non riguarda Bazlen, ma che riguarda [Giorgio] Colli, che mi ha dato un’ulteriore spinta, fu quando lui propose alla casa editrice Einaudi – che aveva già in programma di fare nei Millenni un’edizione delle opere di Nietzsche – di fare un’edizione critica in quanto aveva potuto avere accesso, attraverso anche [Mazzino] Montinari, all’archivio di Weimar e di vedere l’infinità di materiale ancora inedito che c’era, e quindi la possibilità di fare un’edizione critica che i tedeschi non avevano, anche perché i tedeschi non volevano andare a Weimar. In questo punto venne rifiutata su pareri diversi: mi ricordo quello di Cantimori insomma.
[L’edizione critica fu] rifiutata in modo definitivo dopo che io lasciai la Einaudi, qualche mese dopo. E questo appunto poi venne a coincidere un po’ con la fondazione della casa editrice, dell’Adelphi, e quindi con l’accettazione della proposta stessa da parte nostra.[4]
Per quanto Foà, assecondando uno spirito di realismo manageriale che lo contraddistingueva, tendesse a indicare come origine del rifiuto einaudiano anche l’impegno finanziario proibitivo legato al progetto editoriale avanzato da Giorgio Colli e Mazzino Montinari,[5] non poteva comunque sottrarsi dal fare i conti con quella dirompenza politica e culturale che in ambito accademico aveva suscitato non poche polemiche.[6] Oltre all’irrazionalismo, il filosofo tedesco era al tempo associato indissolubilmente – e come si sarebbe poi dimostrato, impropriamente – all’antisemitismo, al nazismo e al fascismo.[7] Il risultato delle considerazioni su Nietzsche di Delio Cantimori fu quello di consolidare lo scetticismo che sul piano di politica culturale era già ampiamente diffuso fra i membri del consiglio editoriale dell’Einaudi.[8] Pur non avendo rappresentato la causa determinante per il rifiuto definitivo, la critica dello storico sarebbe rimasta impressa tanto nella memoria della casa editrice quanto in quella di Luciano Foà, a cui di volta in volta si sarebbe riferito attraverso le definizioni di «parere», «famoso giudizio negativo» e vero e proprio «veto ideologico».[9] Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale fosse stata la narrazione dei fatti legati alla “questione Nietzsche” suggerita dall’editore stesso, Giulio Eiunadi, che nel Colloquio con Severino Cesari avrebbe menzionato quel «momento di crisi» di cui Colli e l’edizione di Nietzsche erano stati protagonisti;[10] si può qui osservare come il punto di vista di Einaudi fosse ricaduto subito sulla gravità economica del progetto editoriale, in una sostanziale linea di continuità con le riflessioni di pragmatismo imprenditoriale di Foà. Nel proseguire il racconto, per l’editore era tuttavia impossibile sottrarsi dall’ammettere il «contrasto» e la «confusione» che si sarebbero creati con l’eventuale aggiunta nel catalogo di «dosi massicce di Nietzsche» (parole atte a indicare la percezione dell’impraticabilità di un distanziamento così netto dalla politica editoriale della Einaudi, legata al PCI), puntualizzando al tempo stesso che l’assenza «di pregiudizi di altra natura verso certi autori del “pensiero negativo”» sarebbe stata dimostrata dalla lettura «dei verbali del mercoledì degli anni cinquanta». Se infatti la casa editrice aveva promosso un’opera come La distruzione della ragione di György Lukács,[11] non si poteva dire che avesse escluso aprioristicamente Nietzsche dalle proprie pubblicazioni:[12] per Claudio Rugafiori «l’Einaudi non respinse le opere di Nietzsche, ma le Opere complete di Nietzsche proprio in quanto complete. Giulio Einaudi non sopportava l’idea, la considerava la bara di un autore».[13] Su questi punti si sarebbe espresso anche Giulio Bollati, il quale – relativamente al funzionamento del dibattito culturale all’interno della Einaudi e alla presunta egemonia-dittatura marxista vigente – avrebbe parlato del rifiuto dell’edizione Colli-Montinari come di «un caso di autocensura o di incomprensione» dettato dalla «posizione particolarmente scomoda» in cui versava la casa editrice:
Il dibattito si svolgeva come si svolge ancora oggi, i libri nascevano dalla discussione e dalle proposte degli interni, dei consulenti, degli amici. La tesi di Galli della Loggia, che la Einaudi sia stata la forza trainante di una dittatura marxista, mi sembra una semplificazione davvero assai rozza. Può esserci stato, piuttosto, qualche caso di autocensura o di incomprensione; nei confronti di Nietzsche, per esempio, che al gruppo torinese gramsciano-gobettiano allora non diceva nulla. Non va dimenticato che in quegli anni di guerra fredda la nostra posizione era particolarmente scomoda: chi non era schierato su posizioni moderate era considerato automaticamente comunista, ma se non era allineato all’ortodossia del partito rischiava di essere bollato come intellettuale velleitario. Noi eravamo sempre in mezzo: il che, beninteso, non comportava solo svantaggi, ma anche un grande senso di libertà. Tutte le nostre scelte, anche quelle che oggi depreco, come il rifiuto di Nietzsche, furono fatte con assoluta convinzione e al di fuori di ogni costrizione.[14]
Si potrebbe concludere che per quanto Nietzsche fosse stato marginalizzato e oggetto di un retropensiero difficile da scardinare,[15] l’Einaudi si era opposta all’idea di un’edizione completa, ma non al filosofo tout court: dai verbali del mercoledì si può osservare, a esempio, come la proposta dello stesso Luciano Foà di pubblicare per l’“Universale” le Lettere di Nietzsche fosse stata accolta con favore qualche mese prima dell’abbandono della casa editrice.[16] L’intreccio di «implicazioni personali, culturali, filologiche ed editoriali» che ha prodotto il “caso Nietzsche” risulterebbe talmente complesso da non poter «ridurre» in modo semplicistico il rifiuto einaudiano «a una volgare questione di censura ideologica».[17]
Ciononostante, a fronte delle innumerevoli attestazioni in cui il segretario generale aveva spontaneamente denunciato il clima refrattario a certe tendenze culturali all’interno della casa editrice dello Struzzo alla fine degli anni ’50, si ritiene che non sia possibile affermare che alle spalle dell’uscita di Foà dalla casa editrice non fossero state presenti anche motivazioni di stampo ideologico.
Ideologia e politica
Ho lasciato l’Einaudi per ragioni soprattutto famigliari e anche perché incominciavo a sentirmi troppo stretto da un punto di vista ideologico, anche se Einaudi era una casa editrice con un’ideologia chiamiamo “aperta”, ma insomma sempre troppo stretta per me.[18]
Una valutazione attenta del materiale raccolto non può esimersi dal tenere in forte considerazione il risvolto politico comportato dal rifiuto einaudiano di pubblicare l’opera omnia di Nietzsche: difatti, sulla base di almeno altre cinque dichiarazioni rilasciate dallo stesso Foà attraverso differenti canali radio-televisivi e periodici, in un arco temporale che va dagli anni settanta agli anni novanta, si evince in modo lampante l’insofferenza che l’allora segretario generale aveva provato rispetto ai vincoli ideologici che, più o meno silenziosamente, si erano manifestati nella casa editrice torinese: limiti che l’Adelphi si era promessa di oltrepassare.[19]
In tale frangente, le lettere indirizzate da Luciano Foà nel corso degli anni a diversi giornali – al fine di mitigare e ridimensionare il peso di alcune sue affermazioni riportate in articoli d’intervista precedentemente pubblicati – rispondevano non tanto a una reale volontà di negare o sminuire le cause ideologiche che lo avevano spinto a lasciare l’Einaudi, quanto al tentativo di non compromettere la propria esperienza decennale in casa editrice e salvaguardare i rapporti personali che lì si erano stabiliti. Basti pensare alla Lettera al Direttore scritta da Foà nel dicembre 1972 e volta a puntualizzare, «soprattutto per correttezza verso altre persone», alcune sue dichiarazioni trascritte da Enzo Siciliano in un articolo pubblicato su “La Stampa”:[20]
Nel 1951 andai a lavorare a Torino, da Einaudi, per dare il mio contributo a un programma culturale e politico che aveva la mia più completa adesione. Perciò, per gran parte dei dieci anni in cui fui presso Einaudi, il mio lavoro, contrariamente a quanto è scritto nell’intervista, “si mescolò” strettamente con i miei “interessi culturali diretti”. Lasciai Einaudi, nel 1961, per un concorso di ragioni familiari e di amichevole dissenso sull’organizzazione della casa editrice e sul suo programma.[21]
Foà specificava come avesse aderito pienamente al «programma culturale e politico» della Einaudi «per gran parte dei dieci anni» di lavoro: un’affermazione che sanciva l’identificazione con la linea editoriale della casa dello Struzzo durante gli anni cinquanta, ma che al tempo stesso sottintendeva un momento di crisi – come si vedrà, più di uno – che lo aveva portato a non sentirsi più parte integrante del progetto einaudiano.
A soli tre anni di distanza l’ex segretario generale avrebbe sentito nuovamente l’urgenza di specificare e contestualizzare alcune dichiarazioni che aveva rilasciato a Silvia Giacomoni per la rivista “Prima Comunicazione”:[22] nella lettera del dicembre 1975 Foà ribadiva, infatti, la «soddisfazione» per il lavoro svolto all’Einaudi e l’«affetto e ammirazione» a essa rivolti, per poi accostarsi all’argomento spinoso del rapporto cultura-politica all’interno della casa editrice.[23] Quello di cui l’editore di Adelphi voleva dar conto attraverso l’espressione «malinconico ideologismo» era il rispecchiamento della frangia più ideologizzata della Einaudi con «la situazione generale della cultura di sinistra italiana», denunciando, in sostanza, un approccio alla cultura limitante e concepito, anche dopo i fatti d’Ungheria del ’56, esclusivamente come strumento di «lotta politica». Gli indugi del consiglio editoriale sul nome di Nietzsche erano stati il frutto di «questo temporaneo “sfasamento” tra un certo ideologismo e una realtà che si rivelava in quegli anni molto più complessa degli schemi invalsi nel periodo della guerra fredda»: una tendenza che Foà ascriveva al periodo compreso tra «la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta» e che, tuttavia, al tempo della scrittura della lettera considerava ormai ampiamente superata. Relegando il rifiuto einaudiano dell’opera omnia di Nietzsche a un momento di passaggio che era stato complesso per l’intero sistema culturale e politico italiano, Foà intendeva assolvere l’Einaudi da ogni accusa di censura ideologica; restituiva, così, un’immagine della casa editrice che «nei vari momenti “storici” del dopoguerra» si era dimostrata e si dimostrava ancora «tra le istituzioni culturali più aperte della sinistra italiana» e fautrice di un’influenza «positiva sulla politica delle sinistre».
Nel mettere a confronto il contenuto delle due lettere sopracitate con le fonti fin ora prese in esame si individuano delle oscillazioni di pensiero a volte di difficile interpretazione, attraverso le quali è possibile dedurre gli ostacoli che Foà dovette affrontare al momento di descrivere il proprio distacco dalla Einaudi, di riportare con le giuste misure una fase che lo aveva visto coinvolto sul piano personale, oltre che professionale: si rileva, in sostanza, la tendenza dall’ex segretario generale a voler evitare fraintendimenti e a non rinnegare un percorso che era stato molto importante nella definizione delle proprie inclinazioni editoriali.
Inoltre, è necessario sottolineare che addurre delle ragioni ideologiche per l’allontanamento di Foà dalla casa editrice non equivale a sottintendere un suo distanziamento dalle posizioni politiche del Partito Comunista Italiano – si noti come qualche mese prima dell’articolo in “Prima Comunicazione” l’editore avesse aderito all’appello lanciato da alcuni intellettuali italiani per un voto di rinnovamento al PCI –, ma alla percezione sperimentata in Einaudi di un ostacolo alla libertà editoriale.[24] Anche dopo l’uscita dal partito a seguito della rivelazione del rapporto Chruščëv e della crisi d’Ungheria, Foà sarebbe rimasto ancora allineato agli ideali di quella corrente, pur non condividendone la «filosofia» o la «metafisica»: «l’idea che il marxismo sia un mezzo insostituibile per interpretare la realtà».[25]
Dall’intervento del ’75 si evincerebbe come la sfera ideologica avesse orientato la decisione di Foà solo parzialmente, non costituendo il motivo «più importante».[26] Anche Giulio Bollati avrebbe dichiarato che la “secessione” di Foà dall’Einaudi non era stata determinata da scelte editoriali come quella sul filosofo tedesco, dal momento che nel caso del segretario il distacco era avvenuto «prima della proposta Nietzsche».[27] Per Bollati le motivazioni di Foà rispondevano, invece, a un «fenomeno assolutamente fisiologico» che aveva visto persone diverse staccarsi «dal tronco comune di una casa editrice, per così dire, “ecumenica” all’interno della sinistra» e trovare «a poco a poco la loro “identità specifica”». Gli interessi di Foà erano rivolti alla «letteratura attenta ai valori psicologico-esistenziali» promossa dall’amico Bobi Bazlen. Una “tendenza” per la quale il segretario generale aveva chiesto più spazio all’interno della casa editrice: «Einaudi glielo concesse in una misura per Foà insufficiente, e questo soprattutto per ragioni di equilibrio e di “linea”, e Foà se ne andò fondando Adelphi. Poco dopo venne la proposta Nietzsche».[28]
Adelphi specchio di Foà e Bazlen
Foà avrebbe ricordato come nel periodo iniziale della loro conoscenza Bazlen avesse esercitato su di lui «una pura e semplice azione pedagogica»,[29] ricorrendo spesso ad un aggettivo specifico per descrivere il rapporto consulenziale instauratosi negli anni tra l’intellettuale triestino e la casa editrice torinese, ovvero «morganatico»:[30] si riferiva alla natura stessa del rapporto Bazlen-Einaudi, che non fu mai diretto, ma sempre mantenuto per interposta persona, attraverso lo stesso Foà, prima, e attraverso Daniele Ponchiroli dopo il luglio 1961. Difatti Bazlen non avrebbe mai partecipato alle riunioni del mercoledì con gli altri consulenti della casa editrice, bensì le sue valutazioni critiche venivano esaminate in primo luogo da Foà, per poi passare a Calvino e, infine, al consiglio editoriale. Le lettere inviate al segretario generale esprimevano un giudizio che per la forma e per il contenuto risultava unico nel proprio genere.[31]
Al di là delle evidenti difficoltà riscontrate dagli editori nell’approcciarsi a una personalità come quella Bazlen, «non si può affermare» che presso l’Einaudi «le sue indicazioni vennero sistematicamente disattese», ma, anzi, risultarono determinanti per l’edizione di diversi libri.[32] Il caso più eclatante si verificò con L’uomo senza qualità di Robert Musil, per la cui pubblicazione il parere di Bazlen si era rivelato decisivo:[33] in una conversazione radiofonica del settembre 1993, invitato da Elisabetta Mondello a descrivere la propria esperienza nella casa editrice torinese, Luciano Foà avrebbe ripercorso con Giulio Einaudi il “caso Musil”:
Einaudi: Io ricordo, però, sempre una grande riconoscenza per Bazlen. È lui che ci ha portato Musil in casa editrice, o sbaglio?
Foà: No, lui ha fatto un parere, dopo che l’aveva già fatto Bobbio [ride] ti ricordi?
Einaudi: Sì.
Foà: Io quando arrivai all’Einaudi sapevo che Bobbio stava leggendo Musil, L’uomo senza qualità. Il parere di Bobbio, mi ricordo, era sostanzialmente favorevole, ma dicendo che era assolutamente impossibile pubblicarlo per la sua lunghezza, per la sua complessità. Allora io, arrivato da poco, sempre nel ’51, lo mandai a Bazlen, e lui poi scrisse quella lettera sulla base della quale anche lui facendo delle riserve riguardo la lunghezza ecc., però c’era talmente un elemento di entusiasmo che è bastato quello perché si decidesse di farlo.
Einaudi: Ecco, vedi, c’è la riconoscenza per un consulente di cui tutti noi ammiriamo la grande qualità intellettuale. Ti ringrazio Luciano di questa testimonianza.[34]
Ma, a conti fatti, per Foà il contributo che Bobi Bazlen era riuscito ad apportare risultava comunque troppo «limitato». Eccezion fatta per i «sei o sette» libri consigliati e pubblicati, molti altri non erano stati accolti: tra le occasioni mancate dell’Einaudi, Il demone meschino di Fëdor Sologub e i Misteri di Knut Hamsun. Foà riteneva che le proposte di Bazlen fossero troppo «in anticipo sui tempi» e «inattuali» per essere considerate intrinsecamente nel proprio valore culturale dagli editori del tempo.[35] D’altra parte, negli anni cinquanta l’intellettuale triestino era già stato responsabile per la Astrolabio di Mario Ubaldini delle traduzioni di Freud e Jung destinate a “Psiche e coscienza”, collana codiretta insieme a Ernst Bernhard, il primo psicanalista junghiano in Italia. Bazlen era affascinato dalla psicologia, dalla parapsicologia e dall’esoterismo, tematiche che già aveva tentato di far confluire nelle NEI di Adriano Olivetti e di cui la collezione “Cultura dell’anima” diretta da Giovanni Papini per Carabba all’inizio del secolo era stata principale iniziatrice.[36] Ma l’intervento di Bazlen non si era fermato alla diffusione della psicanalisi (introdotta in Italia, prima di lui, da Edoardo Weiss, allievo di Sigmund Freud): ai tempi della collaborazione con Astrolabio aveva infatti partecipato alla traduzione dell’I Ching. Il Libro dei Mutamenti,[37] promuovendo di fatto la cultura orientale in un contesto, quello italiano, che nel dopoguerra si teneva ben distante da tutti quei saperi tacciati di irrazionalismo.[38]
Sappiamo come sul piano della gestione dell’impresa editoriale l’Adelphi fosse stata espressione della direzione di Luciano Foà, che già nel ’71, nell’ambito della trasmissione radiofonica Piccolo Pianeta, aveva avuto modo di delineare chiaramente gli ostacoli riscontrati dalle piccole case editrici in Italia;[39] intervista nella quale Foà aveva fornito una presentazione programmatica dell’Adelphi e un suo netto posizionamento rispetto alla correlazione, generalmente percepita, tra la figura del «piccolo editore» e una «maggiore selezione culturale» da un lato, tra la «grande casa editrice» e un «allargamento di produzione tale da risultare a discredito del livello culturale» dall’altro:
Penso che l’allargamento della produzione di una casa editrice non può che metter capo a un annacquamento e indebolimento del valore culturale in senso, però, di scoperta di valori nuovi, di nuove linee culturali, non già nel senso di una cultura di massa, di un “fornire degli strumenti di lavoro”, come si usa dire, ma più per il lavoro, diciamo così, un po’ pionieristico, di avanguardia: questo lavoro di punta che implica non inserirsi nelle mode, non dare la caccia ai bestsellers, ma un momento di riflessione che implica anche un riesame di un passato anche prossimo. Per fare questo lavoro bisogna essere estremamente selettivi, quindi non essere trasportati dall’esigenza di produrre, ma in un certo senso capovolgere il rapporto e produrre solo quello che si vuole produrre.
«Non essere trasportati dall’esigenza di produrre», non identificare i libri in «prodotti»: si potrebbe dire, non assecondare una visione capitalista della cultura e slegare il processo di selezione editoriale da un interesse esclusivo di carattere economico. Un’idea di impegno, quella di Foà, che sposava ancora perfettamente la categoria einaudiana di «editoria “sì”», pur nell’evidente distanza progettuale.[40]
Per l’editore di Adelphi la passione letteraria e politica era sorta alla lettura del saggio Ends and Means di Aldous Huxley (1937), che segnava la conversione dell’autore dallo scetticismo al pacifismo. Il fascino rivolto allo scrittore britannico era ancora ben presente alla fine degli anni settanta, quando in un’intervista rilasciata a Giulio Nascimbeni per Tuttilibri Foà accostava Guido Morselli agli autori «che si possono trovare nella letteratura inglese del Novecento, in quell’arco che va da Wells a Huxley».[41] Le riflessioni critiche di Foà su Un dramma borghese – opera di Morselli appena pubblicata dalla casa editrice e avente come tema centrale l’incesto – riecheggiavano chiaramente la concezione bazleniana dei “libri unici”, ovvero di quei romanzi, memorie o saggi che meritavano di essere letti e pubblicati poichè nati da un’esperienza diretta dell’autore.[42] Al criterio dell’unicità si univa quello strettamente interconnesso della “primavoltità”, un concetto coniato dallo stesso Bazlen e riassumibile come «il legame fra qualcosa che era successo e chi gli dava un nome»; un legame che, qualora si fosse presentato in modo «abrupto e irripetibile», avrebbe goduto di una «qualità ulteriore, una forza d’urto che poi si sarebbe dissipata».[43] Una parola per indicare le sensazioni che si percepiscono quando si fa qualcosa per la prima volta, quando si assume la consapevolezza che qualcosa sta per cambiare per sempre:[44] in definitiva, la primavoltità è il carattere insieme autobiografico, esperienzale e impellente dal quale emerge la scrittura letteraria.[45] Nonostante la scomparsa di Bazlen nel 1965, la sua eredità non sarebbe andata perduta: non stupisce, dunque, la scelta di pubblicare postume le opere di Guido Morselli, che nello scrivere Dissipatio aveva messo in scena la crisi esistenziale e il suicidio del protagonista, il suicidio che l’autore stesso avrebbe commesso pochi mesi dopo l’ultimazione del libro.
La lettera del 13 giugno 1961
L’eccessiva lontananza di Bazlen dal programma editoriale della Einaudi rendeva necessario progettare uno spazio diverso, tanto che nel ’61 Foà aveva già redatto un «programma molto generico» di libri che la casa editrice aveva rifiutato e che avrebbero potuto trovare una nuova collocazione: all’insoddisfazione per le proposte disattese dell’amico triestino si univano però delle motivazioni più personali, «una certa scontentezza» derivata dal silenzio di Einaudi rispetto ai consigli, alle aspirazioni e alle esigenze progettuali espresse dallo stesso Foà.[46] Nel maggio 1961 il segretario generale scriveva a Giulio Einaudi per «concludere il discorso cominciato qualche settimana fa a proposito di un possibile mio nuovo rapporto con la Casa» dopo il trasferimento da Torino a Milano previsto in autunno.[47] Il 7 giugno l’editore torinese prendeva atto «con estremo dispiacere» della decisione di Foà di lasciare la casa editrice, facendo riferimento in modo alquanto sbrigativo a tutta una serie di «idee» che quest’ultimo aveva elaborato nel corso degli anni e che, per svariati motivi, non erano state validate.[48] Come dichiarato dal futuro editore dell’Adelphi in un’intervista a Ernesto Ferrero, negli ultimi tempi presso l’Einaudi aveva sollecitato «una collana di classici a prezzo medio» e auspicato «una qualche grande opera per sostenere le vendite rateali».[49] Verso quest’ultima direzione avrebbe potuto spingere «l’enciclopedia McGraw-Hill della scienza e della tecnica» che Calvino aveva portato dall’America: «costava cento milioni di allora, ma ci mancavano le forze redazionali per realizzarla». E non senza amarezza Foà constatava che per quanto «su questi problemi» si scambiassero «lunghi memoriali scritti» che sembravano preludere a un accordo comune, di fatto «non capitava nulla». Non è quindi casuale che un anno e mezzo dopo la fondazione dell’Adelphi, ovvero alla fine del 1963, per «seguire una strada più riparata nell’inizio delle nostre attività» e per pubblicare importanti «opere che non c’erano oppure che erano pubblicate in edizioni non soddisfacenti», il punto di partenza sarebbe stato segnato proprio da quella collana di classici rifiutata da Einaudi.[50] Nella lettera sopracitata l’editore difendeva la propria scelta sostenendo che i classici proposti da Foà avessero già una propria collocazione presso la casa editrice, identificando unicamente nel settore biografico e memorialistico, seppur già inserito nelle diverse collane esistenti, una possibile collezione a sé stante;[51] teneva però a precisare come il carattere «commerciale» di quelle questioni esulasse «dagli interessi propri tuoi e miei personali», quasi a ribadire che il rifiuto fosse stato dettato, oltre che da una scelta di linea e interesse editoriali, anche di mercato. Tuttavia, Foà non avrebbe mancato di osservare a posteriori come non molto dopo la sua uscita dalla casa editrice la Einaudi stessa avesse fondato la “Nuova Universale Einaudi”: «una collana dedicata ai classici che corrispondeva molto bene a quella che era la mia impostazione da un punto di vista “industriale”».[52] A ideare la collana nel ’62 era stato Giulio Bollati, che alla fine degli anni sessanta aveva acquisito un ruolo di maggiore preminenza all’interno della casa editrice come collaboratore, subentrando, per ammissione di Einaudi stesso, a quella «centralità» che per molti anni era stata condivisa con Foà:[53]
Quando è morto Pavese, Bollati aveva ventidue anni. Si è fatto pian piano con me. Ma non è che dall’inizio, io vedo subito Pavese o Calvino o Bollati come “motori” o “perni”. In quegli anni c’era un altro personaggio che mandava avanti la casa editrice: Luciano Foà. Non possiamo dimenticare che per dieci anni, dal ’45 al ’55 [sic] è stato segretario generale. Con Luciano Foà mi sembrava di essere a cavallo, finalmente ho uno che ha pratica di lavoro, intelligente, colto, viene da Milano senza essere per l’efficientismo fine a sé stesso. Naturalmente veniva a scontrarsi con Bollati, che pian piano emergeva, diventando la voce del padrone, e Luciano Foà, mentre la malattia di una persona cara lo spingeva a tornare a Milano, sente che io ascolto ormai più l’altro che lui. A lui mi rivolgevo per dire: perché non pagate questo? Perché non pagate quell’altro? Ma di progetti, di idee, parlavo sempre di più con Bollati che con lui.[54]
La mancata realizzazione della collana di classici era stata sicuramente significativa per Foà, tanto da obbligare Einaudi, che voleva individuare soprattutto in questo le ragioni delle dimissioni, a ribadire le proprie motivazioni per il rifiuto; tuttavia, in queste dichiarazioni a Severino Cesari si manifesta un aspetto forse ancora più delicato, ovvero che a essere messa in discussione dall’editore non era stata soltanto la proposta della singola collana, ma più in generale il contributo in termini «di progetti» e «di idee» che Foà avrebbe potuto apportare alla casa editrice in qualità di «direttore editoriale».[55] Non stupisce quindi la reazione di Foà alle parole di Einaudi, che il 13 giugno 1961 scriveva all’editore una lunga e dettagliata lettera per «fare un po’ di storia» e dar conto della complessità di quella concatenazione di eventi che lo aveva motivato ad abbandonare la casa editrice, e che a suo giudizio era stata riassunta dall’editore in «modo un po’ spiccio». Per la sua netta «chiarezza» d’intenti, volta a dissipare quegli «equivoci» che «servono talora per la convivenza, ma sono sempre ingiustificati e senza attenuanti quando ci si lascia», questa lettera costituisce una delle fonti più importanti per conoscere le cause di un distacco «doloroso» ma ormai inevitabile.[56]
È evidente come Foà avesse deciso di esporre in modo trasparente un processo di disaffezione dalla casa editrice che non era stato subitaneo, ma lento e non privo di gravi mancanze, da una parte, e di tentativi di risoluzione, dall’altra. Quello che Foà non poteva assecondare era l’intento di Einaudi di deresponsabilizzarsi per l’accaduto mostrandosi condiscendente alle smanie del segretario generale. Al culminare degli anni cinquanta si erano presentati ben tre momenti di «crisi» a cui non era stata trovata una degna conclusione, e che Foà non si sarebbe risparmiato dal descrivere minuziosamente. Da un punto di vista prettamente «economico», dopo la crisi einaudiana degli anni ’56-’58, in cui Foà si era visto remunerato (inverosimilmente) più per la sua attività presso l’ALI che dalla casa editrice, l’editore sarebbe riuscito a venire incontro alle esigenze del segretario generale. Ma a solo un anno di distanza dalla «prima» crisi del ’59, nei primi mesi del ’60, se ne sarebbe presentata una «seconda» che, concesso (dopo diverse sollecitazioni) un ulteriore miglioramento sul piano economico, avrebbe investito in modo preponderante l’ambito del lavoro redazionale: come avrebbe confessato a Ernesto Ferrero, a fronte di una situazione finanziaria più stabile per la casa editrice Foà avvertiva ormai «un’esigenza d’ordine interno, la necessità di darci strutture più solide e chiare»,[57] che concretamente richiedeva «una più razionale organizzazione del lavoro». Il risvolto più personale della questione lo si vedeva nella richiesta esplicita del segretario di voler «esercitare funzioni di maggiore responsabilità» e di un «controllo effettivo sull’esecuzione del lavoro redazionale»: d’altra parte, a un aumento stipendiale avrebbe dovuto corrispondere un ruolo di maggiore spessore. A queste istanze Einaudi aveva risposto predisponendo delle riunioni tra i consulenti della casa editrice al ritorno di Calvino dall’America. Un’impostazione, quella delle riunioni, che il segretario aveva giudicato e giudicava ancora, senza mezzi termini, «errata», poiché bisognava sì prendere atto dei problemi ascoltando l’opinione di ciascuno singolarmente, ma «per essere conclusiva» la discussione avrebbe dovuto svolgersi tra pochi stretti, ovvero Einaudi, Bollati, Calvino e lo stesso Foà. Malgrado tutto, l’ostacolo più grande si era presentato nel momento in cui, convocato insieme a Giulio Bollati nell’ufficio di Einaudi per una ripartizione dei compiti, il segretario prendeva atto che il lavoro affidatogli dall’editore non rispondeva più al piano dell’ideazione e della progettazione, ma consisteva in un controllo del «lavoro redazionale» che altro non avrebbe fatto se non mettergli tra le mani «molto lavoro spicciolo». Si era verificato, in poche parole, quel tacito passaggio di testimone per il quale Foà non sarebbe stato più consultato in qualità di consigliere editoriale, ma come amministratore di un’attività puramente esecutiva «sempre più assorbente». Nella speranza (vana) di una maggiore partecipazione, Foà doveva constatare come le «decisioni importanti» venissero prese da Einaudi senza sentire il suo parere, come le riunioni atte alla discussione di problemi generali fossero ormai quasi del tutto scomparse, nonché appurare l’impossibilità di parlare con l’editore «persino delle questioni specifiche del mio lavoro».[58] Questo clima di insoddisfazioni nell’autunno del ’60 non era stato ancora risollevato, e Foà comprendeva che probabilmente non ci sarebbero stati più i presupposti per risollevarlo. Con la «terza crisi» del ’61 si chiudeva il cerchio: la «riorganizzazione del lavoro editoriale» era una condizione necessaria e non più rinviabile. Ed è a questo punto che segue un’asserzione tanto inaspettata quanto lapidaria:
Posso ora dirti che se, su questo punto, tu mi avessi dato soddisfazione (ciò che non voleva certo dire che tu dovessi accettare tutte le mie idee al riguardo) di crisi non ce ne sarebbero più state, malgrado la situazione mia familiare che tu conosci. La mia permanenza alla Casa editrice sarebbe stata definitiva o, almeno, definitiva nei limiti di tutte le cose di questo mondo.
Queste parole non lascerebbero adito a dubbi: il fattore determinante per la scelta di Foà di abbandonare la casa editrice fu dettato dalla totale mancanza di ascolto rispetto a quel «senso di un preciso dovere verso la Casa editrice e verso di te di far valere con la maggiore energia l’istanza di un miglioramento del lavoro comune», dall’assenza di un coinvolgimento diretto nel programma da parte di Giulio Einaudi. Se l’editore avesse tentato di trovare una mediazione, è molto probabile che Foà sarebbe rimasto a lavorare ancora a Torino per la casa editrice, ovviando ai problemi famigliari. C’è da chiedersi, certo, in quale misura Foà avrebbe potuto convivere ancora con le distanze culturali dell’amico Bazlen dalla linea editoriale della casa dello Struzzo, con le resistenze «agli sconfinamenti spiritualistici» dell’intellettuale triestino.[59] Si ritiene che il complesso di cause di vario genere cui si è fatta menzione inviterebbe forse, in ultima analisi, a ponderare con cautela questa ipotesi avanzata dal segretario di una sua «permanenza definitiva» a Torino se solo Giulio Einaudi si fosse prodigato per venire incontro alle sue esigenze: è preferibile ampliare lo spettro e sottrarsi dal dedurre da questa sola dichiarazione che le uniche e vere motivazioni di Foà fossero rappresentate da quelle esposte nella lettera privata a Einaudi. L’assenza della “questione Nietzsche” all’interno del documento farebbe supporre verosimilmente che Foà avesse preferito non alludere per iscritto a un argomento dai connotati ideologico-politici così spigolosi, prediligendo probabilmente un dialogo de visu: d’altro canto, come si è visto, sarebbe stato proprio l’ex segretario generale, nell’ambito della trasmissione Biografia di un catalogo, a specificare come l’edizione Colli-Montinari avesse costuito a tutti gli effetti «un’ulteriore spinta» a lasciare l’Einaudi.
È bene sottolineare come il rapporto amicale con Giulio Einaudi sarebbe rimasto positivo nonostante i trascorsi sul piano professionale. Pur non limitandosi nell’esplicitare delle riserve sul programma della casa editrice milanese, Einaudi si sarebbe riferito sempre con termini di apprezzamento al lavoro e alla figura del passato collaboratore: «I saggi Adelphi sono di una assoluta pulizia, c’è un amico, Luciano Foà, che stimo moltissimo».[60] A dimostrare ulteriormente come le basi del rapporto amicale Foà-Einaudi fossero tutt’altro che minate in modo irresolubile vi è una lettera inviata dall’ex segretario generale all’editore dello Struzzo il 16 aprile 1962 inerente alla stesura di «un preventivo delle spese redazionali» di un’anonima «rivista» internazionale (quasi certamente, Gulliver),[61] che attesta la disponibilità di Foà a dare il proprio contributo ai progetti einaudiani anche dopo il distacco.[62]
Ma ci si chiede ancora, nel turbinio delle affermazioni di personalità come Giulio Einaudi e Roberto Calasso, quale fosse il pensiero nascosto di Foà in merito all’idea generalmente diffusa di un antagonismo inscindibile tra l’Einaudi e l’Adelphi. Una possibile traccia la si potrebbe identificare nel contesto già citato della lunga intervista radiofonica che Elisabetta Mondello aveva registrato con Einaudi, attraverso quella che appare, oggi, una chiara presa di posizione espressa da Foà all’inizio del suo personale intervento:
Mondello: Con quale spirito, secondo lei, sono nate le tante case editrici che in qualche modo sono collegabili poi all’Einaudi per filiazione, diciamo per germinazione, oppure perché l’Einaudi ad alcuni personaggi è stata stretta?
Foà: Voglio distinguere, perché poi di queste case editrici che hanno avuto dei rapporti con Einaudi attraverso chi le ha fondate, c’è Paolo Boringhieri, che nel ’55-’56 si distaccò, lui prima era redattore e si occupava della parte scientifica della casa editrice Einaudi, poi acquistò tutte le collane scientifiche, compresa quella etnologica, e proseguì sulla strada di queste collane, ne fece poi delle altre, ma insomma cominciò col rilevare queste due collane.
Per quanto riguarda me, non si può dire che io possa essere una “filiazione” se si pensa al programma della casa editrice Einaudi e al programma dell’Adelphi. Certo, io ho imparato moltissimo nei dieci anni che sono stato da Einaudi, dal ’51 al ’61: ho imparato il mestiere. Io avevo fatto già qualche anno prima, anzi parecchi anni prima, un’altra esperienza, durata molto poco a causa della guerra, per quella casa editrice che Adriano Olivetti voleva fare preparandosi dopo la caduta del fascismo, quindi con un programma molto importante, in cui il consulente fondamentale era Roberto Bazlen, ma che durò solo due anni perché poi ci disperdemmo dopo l’8 settembre del ’43. Quindi, io fondando la casa editrice Adelphi volevo fare delle cose diverse da quelle che venivano fatte da Einaudi: quindi, non c’è una filiazione dal punto di vista del programma. Semplicemente ci sono io che sono un tramite, in quanto prima lavoravo in Einaudi.[63]
Se il contenuto della dichiarazione è già rilevante di per sè, ad amplificarne l’importanza è anche l’ambito nel quale l’intervento andava a inserirsi: la registrazione era stata realizzata nel 1993 in occasione del compimento dei sessant’anni della Einaudi. Luciano Foà, «collegato per telefono da Milano», dichiarava pubblicamente in presenza dell’amico-editore di voler fare una netta distinzione tra il processo di fondazione dell’Adelphi e quello della casa editrice di Paolo Boringhieri: se infatti quest’ultima risultava come emanazione diretta delle collane scientifiche della Einaudi, lo stesso non lo si poteva dire per l’Adelphi, che era nata per dare spazio alle idee inattuali di Bazlen in totale assenza di un fil rouge che la facesse discendere dal programma dell’editore torinese. Pur consapevole e grato dell’esperienza accumulata nel corso degli anni cinquanta come segretario generale, Foà considerava quel capitolo della propria vita professionale chiuso definitivamente nel 1961, rifiutando con fermezza la concezione di sé e della propria casa editrice come un semplice e puro prolungamento derivato dalla casa dello Struzzo, della quale, piuttosto, si riteneva un «tramite». Quella che Foà aveva messo in atto in Paesaggio con figure era una rivendicazione dell’originalità e della paternità del progetto editoriale a cui lui e Bazlen avevano dato luce: Adelphi.
Estratto-sintesi dalla tesi di Davide Siano Luciano Foà: le motivazioni del passaggio dall’Einaudi all’Adelphi, relatore Prof. Roberto Cicala, Università degli Studi di Pavia, anno accademico 2022-2023.
[1] Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, programma andato in onda su Rai Tre il 10 maggio 1986. Il servizio fu realizzato nella sede Rai di Torino dal regista Bruno Gambarotta e coordinato e curato, in collaborazione con Gambarotta, da Cesare Dapino.
[2] U. Buzzolan, Einaudi. Biografia della casa editrice che segnò un’epoca, in “La Stampa”, 10 maggio 1986. Da qui i riferimenti utili all’identificazione della trasmissione e le successive citazioni.
[3] Trascrizione dell’intervento inedito di Luciano Foà in Biografia di un catalogo (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).
[4] L’abbandono definitivo del progetto, comunicato a Colli da Einaudi nell’autunno 1961, sarebbe stato poi discusso nella riunione editoriale del 24 gennaio 1962. L’incontro aveva visto presenti: Antonicelli, Bobbio, Bollati, Caprioglio, Castelnuovo, Einaudi, Fonzi, Lanternari, Serini, Solmi e Venturi. Di seguito si riporta l’intervento verbalizzato di Solmi: «Questione del Nietzsche. Serini è per il sì. (Lunga discussione pro o contro). Non lo facciamo. Il Consiglio raccomanda alla Direzione di fare tutto il possibile per sganciarsi»: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, Einaudi, Torino 2013, p. 532. In una testimonianza raccolta in A. Sofri, Federico il pendolare, in “Panorama”, 22 febbraio 1987, Foà sembrerebbe alludere alla riunione del ’62: «Nel luglio del 1961 io lasciai la Einaudi; seppi poi che di lì a poco c’era stata una discussione in un “mercoledì” einaudiano, conclusa con la decisione di lasciar cadere anche la traduzione delle opere già in cantiere. Ne rilevammo noi i diritti. Un anno e mezzo dopo la comparsa del primo libro Adelphi, uscì, nel 1964, il primo volume delle opere di Nietzsche».
[5] Nell’intervista rilasciata a U. Costamagna in Tenacia, costanza e coerenza furono le sue peculiarità. A colloquio con Luciano Foà della casa editrice “Adelphi”, in “Il quotidiano di Lecce”, 9 febbraio 1980, alla domanda se la mancata pubblicazione fosse stata dovuta alla paura di Giulio Einaudi o dei suoi collaboratori «di spostare la casa editrice troppo a “destra”», Foà avrebbe risposto: «Ritengo di no. La risposta negativa data da Einaudi era forse giustificata dalla vastità del compito e dal gravoso impegno finanziario che richiedeva»: FAAM (a indicare d’ora in poi la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano), Giorgio Colli, b. 26, fasc. 022 (1980). Sempre sulla questione economica Foà si espresse anche in altri suoi interventi: in R. Barbolini, Fratelli di carta, in “Panorama”, 7 gennaio 1994, p. 94: «[Dopo la proposta di Colli di un’edizione critica di tutta l’opera di Nietzsche] Einaudi si spaventò, proprio per la portata economica dell’impresa»; in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi, in “La Stampa”, 8 dicembre 1990: «A orientare negativamente Einaudi non ci fu solo il veto ideologico di Cantimori […], ma anche i forti costi dell’operazione»; in A. Sofri, Federico il pendolare: «La mole dell’impresa cresceva, e con essa il rilievo culturale, ma anche l’impegno finanziario e politico. Einaudi non se la sentì, e con Colli fu la rottura». Si segnala che alcuni degli articoli che verranno citati sono stati raccolti in Adelphi. Editoria dall’altra parte, Oblique studio, Roma 2016.
[6] Ci si riferisce qui all’articolo pubblicato da Cesare Vasoli in cui lo storico della filosofia si era opposto ai progetti editoriali promossi da Giorgio Colli dell’edizione critica di Nietzsche (Einaudi) e della collana “Enciclopedia di autori classici” (Boringhieri) in quanto considerati «una nuova fuga dalla realtà e dalla storia», degli ostacoli al tentativo della «parte più viva della cultura filosofica […] di inserirsi nel processo vitale dello sviluppo storico del paese»: cfr. C. Vasoli, A che servono i filosofi in Italia, in “Itinerari”, n.49, maggio 1961 (VIII), p. 97: cfr. G. Campioni, Leggere Nietzsche. Alle origini dell’edizione critica Colli-Montinari, ETS editrice, Pisa 1992, pp. 63-64. A sentirsi coinvolto direttamente nella critica di Vasoli vi era stato anche lo storico Delio Cantimori, che in una lettera di apologia avrebbe ribadito con forza la necessità di una conoscenza storica di Nietzsche, astenendosi però dal conferire al filosofo tedesco una piena legittimità letteraria: cfr. Lettera di Delio Cantimori a “Itinerari” del settembre-ottobre 1961, in D. Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari 1967, pp. 88-97.
[7] Nell’approcciarsi alla raccolta degli scritti postumi di Nietzsche – il Nachlass –, fin dai primi giorni di consultazione a Weimar Montinari avrebbe riscontrato il problema delle lacune e delle interpolazioni filologiche che la sorella del filosofo, Elisabeth Förster-Nietzsche, aveva arbitrariamente compiuto nella Grossoktav-Ausgabe (Leipzing 1895 sgg.), l’edizione canonica in diciannove volumi delle opere complete nietzschiane da cui sarebbero dipese direttamente tutte le altre edizioni precedenti quella Colli-Montinari. Con la fondazione dell’archivio di Weimar e la promozione dell’opera del fratello, Elisabeth Nietzsche si era resa responsabile della manipolazione in senso ideologico-politico dei documenti del filosofo: in modo particolare, la ricostruzione soggettiva dei frammenti della Wille zur Macht (la Volontà di potenza) avrebbe contribuito per molto tempo ad alimentare la visione nazionalsocialista e antisemita del filosofo tedesco.
[8] Il germanista e consulente einaudiano Cesare Cases, in un ricordo di Montinari, avrebbe così riferito sul caso Nietzsche: «Il consiglio editoriale, composto in massima parte da marxisti e da liberalsocialisti, aveva forti riserve ideologiche, non tanto contro il nome di Nietzsche quanto contro l’idea di pubblicarne l’opera omnia da mettere accanto a quella di Gramsci, come se fossero classici che avevano militato sotto la stessa bandiera»: C. Cases, Il granduca di Weimar. Ricordo di Mazzino Montinari, Belfagor, Firenze, 31 maggio 1987, p. 336; cfr. G. Campioni, Leggere Nietzsche, p. 63.
[9] Citazioni di Foà rispettivamente in: Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, Rai Tre, 1986; R. Barbolini, Fratelli di carta, 1994; E. Ferrero, Il signore degli Adelphi, 1990.
[10] S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Giulio Einaudi editore, Torino 2018, 3ª ed., pp. 201-202. La prima edizione per i tipi di Theoria risale al 1991.
[11] G. Lukács, La distruzione della ragione, trad. di Eraldo Arnaud, Einaudi, Torino 1959. La proposta dell’opera del filosofo ungherese, in cui si evidenziava la forte correlazione tra la filosofia nietzschiana e l’ideologia dei fascismi europei, era stata avanzata nella riunione editoriale del 1° settembre 1954: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 124.
[12] F. Nietzsche, Considerazioni sulla storia, a cura di L. Pintor, Einaudi, Torino 1943; F. Nietzsche, Ecce Homo, a cura di S. Romagnoli, Einaudi, Torino 1950. Negli anni ’40 era prevista inoltre una traduzione, poi non portata a termine, di Enzo Paci della Volontà di potenza: cfr. A. Banfi, Nietzsche, Colli, Foà: l’azzardo di un’edizione critica e di una nuova casa editrice, Leo S. Olschki editore, Firenze 2015, p. 278.
[13] Intervista a Claudio Rugafiori, «tra i fondatori dell’Adelphi», in P. Di Stefano, L’invisibile maestro dei libri, in “Corriere della Sera”, 9 luglio 2023.
[14] Tratto dal Colloquio con Giulio Bollati, in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, a cura di P. Di Stefano, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2001, pp. 107-133. L’intervista a Bollati è apparsa nel fascicolo D del semestrale di letteratura “Idra”, il Melangolo, dicembre 1991. Per illustrare «il lato più grottesco della faccenda», Bollati ricordava: «Negli stessi mesi in cui ci trovammo a discutere delle opere complete di Nietzsche, arrivò sui nostri tavoli, da un altro consulente, la proposta di pubblicare tutto Nenni…Era stravagante discutere contemporaneamente di Nenni e di Nietzsche, che finimmo per rifiutare entrambi. La coincidenza mi sembra significativa, perché dà un’idea del clima italiano, del clima in cui lavoravamo…». In un’intervista rilasciata lo stesso anno, Bollati riportava alla memoria la riunione in cui era stata avanzata la proposta di Colli: «C’erano Bobbio, Mila, Calvino, Panzieri: uomini che sarebbero dovuti essere accaniti avversari di Nietzsche. Ma non ci fu nessuna battaglia, nessuno si accalorò […]. La verità è che restammo perplessi non tanto perché temessimo di compiere un sacrilegio nei confronti dell’ideologia marxista, quanto perché la cultura torinese era piuttosto restia a considerare Nietzsche un grande pensatore. L’avevamo letto in edizioni secondarie, da bancarella, per noi non era quel che si dice un autore di serie A. Figuriamoci: il vecchio Piemonte, con la sua solida cultura, magari un po’ provinciale, non si metteva certo a tremare come una foglia all’idea di pubblicare Nietzsche». Cfr. intervento di Bollati in M. Assalto, Nietzsche fa ancora paura, in “La Stampa”, 3 novembre 1991.
[15] Nel servizio di Rai Tre Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, rispetto all’edizione proposta da Colli, Norberto Bobbio avrebbe confessato: «Io stesso allora non ero molto favorevole. Nonostante l’importanza storica della filosofia di Nietzsche, [non pot-] avevamo dimenticato che Nietzsche era considerato l’ispiratore di Hitler, del nazismo, a torto o a ragione, diciamo a torto o a ragione: sotto certi aspetti, anche con qualche ragione. So che dicendo questo io suscito un vespaio, ma credo anche in parte a ragione. Non bisogna dimenticare che quando Mussolini fu liberato da Campo Imperatore dove era stato messo in prigione da Badoglio, dal nuovo regime instauratosi in Italia, Hitler lo accolse regalandogli le opere di Nietzsche: insomma, Nietzsche era un simbolo, bisogna riconoscere che era un simbolo. Probabilmente è stato un errore. Oggi possiamo dirlo: è stato un errore». E concludeva il suo intervento commentando l’edizione poi pubblicata da Adelphi: «È uscita questa magnifica edizione, una delle maggiori imprese dell’editoria italiana di questi ultimi anni, questa stupenda edizione di Adelphi, curata da Giorgio Colli».
[16] F. Nietzsche, Epistolario (1865-1900), a cura di B. Allason, Einaudi, Torino 1962. Le Lettere rientrano nell’elenco dei libri decisi durante la riunione del 15 febbraio 1961. La pubblicazione sarebbe avvenuta poco dopo l’uscita di Foà dalla casa editrice e la rottura con Colli: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 479.
[17] G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Giulio Einaudi editore, Torino 2004, p. 146.
[18] Intervento inedito di Luciano Foà in Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo, intervista radiofonica di Elisabetta Mondello a Giulio Einaudi in occasione dei sessant’anni della casa editrice torinese, trasmessa su Rai Radio Tre il 26 settembre 1993 (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).
[19] Sulla scelta “ideologica” di abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi Foà si era espresso in diverse occasioni: «Fondai l’Adelphi, con i consigli di Bobi Bazlen, per rompere la monotonia dell’ideologismo editoriale di sinistra, per scegliere autori che uscissero fuori dai binari codificati di una visione del mondo esosa in senso deteriore. Qui pubblichiamo i libri che più ci piacciono, solo quelli, con rischi e soddisfazioni»: Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi, in “La Stampa”, 20 dicembre 1972; «Intendevamo reagire all’aria del tempo, che era tutta politicizzata e ideologica: naturalmente, altri ci vennero dietro, ci tolsero l’esclusiva. […] Nietzsche, un pensatore così asistematico, così mistificato, si confaceva a noi»: Foà in L. Mondo, Libro come avventura. Uomini rappresentativi dell’editoria, in “La Stampa”, 7 aprile 1976; «Il nostro programma si basava su autori, correnti di pensiero, temi che la cultura italiana di allora, estremamente politicizzata, lasciava deliberatamente al margine». Dall’intervento di Foà trascritto negli atti del convegno Gli anni ’60. Intellettuali e editoria (Milano 7 e 8 maggio 1984), a cura di F. Brioschi, con la prefazione di C. Segre, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1987, pp. 135-138: cfr. A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria in Italia dall’Unità a oggi, Editrice bibliografica, Milano 2018, p. 113; «Mi pare superfluo ricordare qual era non solo il clima culturale italiano negli anni ’50, ma anche le particolari caratteristiche della casa editrice Einaudi, che, pur non essendo strettamente legata ad un’ideologia, pure gli era molto vicino»: Foà in Lo specchio del cielo. Autoritratti segreti raccolti da Maurizio Ciampa prima di un altro lunedì, puntata n. 47 trasmessa su Rai Radio Due nel 1987. Fonte: <https://hubhopper.com/episode/lo-specchio-del-cielo-puntata-47-luciano-foa-e-gianfranco-menotti-1581105906>; «Vorrei tornare un momento sul progetto Nietzsche. Questo progetto rientrava molto bene in un programma generale della Casa Editrice Adelphi che intendeva far conoscere in Italia opere e scrittori che ne erano stati tenuti lontano per vari motivi politici, ideologici, o che pure ci erano pervenuti in modo deformato»: dalla trascrizione integrale dell’intervento di Foà in Modi di vivere: Giorgio Colli. Una conoscenza per cambiare la vita, documentario realizzato nel 1980 per Rai Due da Mauro Misul, regia di Marco Colli (<https://www.youtube.com/watch?v=giPb42wCy3E>). Fonte: FAAM, Giorgio Colli, b. 36, fasc. 001 (Modi di vivere).
[20] Intervista a Luciano Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi. Si riporta di seguito il punto «in cui l’amico Enzo Siciliano ha involontariamente frainteso quel che gli dissi»: «[All’Einaudi] il lavoro non si mescolò più per Foà con gli interessi culturali diretti. La “passione fisica” per i libri restò un fatto privato».
[21] L. Foà, Lettera al Direttore, in “La Stampa”, 29 dicembre 1972.
[22] Intervista a Luciano Foà in S. Giacomoni, Il piacere dell’intelligenza, in “Prima Comunicazione”, novembre 1975. I possibili fraintendimenti potevano sorgere alla lettura del seguente passo: «Oggi forse è più facile capire cosa intenda dire Foà quando parla del “malinconico ideologismo” dei consulenti della casa editrice Einaudi: il passare degli anni ci rende possibile vedere i pregi, e i limiti, di un atteggiamento culturale nato dal sommarsi della politica culturale del PCI, dell’arretratezza di un paese che usciva da vent’anni di fascismo, dell’emarginazione – durante la guerra fredda – della élite che aveva fatto la resistenza. Forse oggi riusciamo a capire meglio come alcune persone (e pensiamo a Bazlen) sapessero, già allora, porsi di fronte ai problemi della cultura e della politica con un’ottica più libera, forse più rischiosa, che non aveva come punti di riferimento obbligatori i “valori” della resistenza, l’antifascismo, gli schieramenti internazionali».
[23] L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate, in “Prima Comunicazione”, dicembre 1975. La lettera di Foà iniziava così: «Cara Giacomoni, la ringrazio molto per il profilo “storico” che ha voluto dedicare all’Adelphi – la cui storia è così breve – sull’ultimo numero di Prima. La ringrazio soprattutto per la sostanziale esattezza delle notizie che vi sono contenute, fatto ormai molto raro e che merita di essere segnalato. Mi preme, tuttavia, chiarire due punti del suo articolo che nella loro formulazione un po’ drastica (dovuta certamente a esigenze di spazio), possono essere fraintese. Sono due punti che riguardano i miei rapporti, e quelli del mio carissimo amico Roberto Bazlen, con la casa editrice Einaudi, ma che hanno forse un interesse più generale»: cfr. A. Ferrando, Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), Carocci editore, Roma 2023, p. 325: in questo volume recentemente pubblicato da Anna Ferrando si evidenziano le fasi cruciali che hanno portato alla fondazione della casa editrice milanese, individuando «le premesse di lungo periodo sin dal ventennio fascista» e i protagonisti di una realtà editoriale che fino a quel momento non era «mai stata fatta oggetto di uno studio storiografico ad hoc».
[24] La difficoltà avvertita da Luciano Foà di esprimersi apertamente sul proprio orientamento politico e culturale fu dettata indubbiamente dalla sua discrezione e dal suo riserbo: una ritrosia che rende difficile, oggi, dare conto dei pensieri effettivi che l’editore aveva elaborato nel corso della sua vita. Si può ricordare, a titolo esemplificativo, che Foà sottoscrisse un appello insieme a «un ampio e qualificato gruppo di esponenti del mondo della cultura milanese, molti dei quali impegnati nel settore dell’editoria, […] contro l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, “riconoscendo nell’istituto del divorzio una conquista democratica intesa alla tutela di inalienabili diritti dei cittadini italiani”» (Più ampio il movimento per respingere l’attacco ad una conquista di civiltà, in “L’Unità”, 5 maggio 1974); aderì all’appello lanciato dalla realtà intellettuale milanese e romana «al mondo della cultura per un voto di rinnovamento, per il voto al PCI» (Nuove importanti prese di posizione di intellettuali per il voto al PCI, in “L’Unità”, 8 giugno 1975); insieme ad altri intellettuali, sottoscrisse l’appello per chiedere quali fossero «le proposte degli economisti per la sopravvivenza ecologica e alimentare dell’Italia», per sottolineare «l’urgenza» che aveva assunto «la questione dell’agricoltura in Italia» e affermare «la necessità di trovare un rapporto diverso, per una nuova condizione di vita, tra città, mondo agricolo e mondo industriale» (R. Stefanelli, Fra alimentazione e agricoltura molto spesso non tornano i conti, in “L’Unita”, 20 dicembre 1977).
[25] Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi…
[26] In merito all’interruzione del rapporto con la Einaudi, Foà avrebbe anche affermato: «Su questa scelta sono state scritte spesso inesattezze. Nel ’61, sia per problemi di famiglia legati alla salute di mia moglie che per l’insoddisfazione di non poter sviluppare meglio le intuizioni editoriali di Bazlen, decisi di dimettermi e tornai a Milano»: cfr. R. Barbolini, Fratelli di carta, p. 94. Rispetto alla “questione Nietzsche” come motivazione dell’uscita dall’Einaudi, in un’intervista a Domenico Porzio Foà confessava: «Non è che per me questa sia stata una cosa decisiva, era una delle tante»: FAAM, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio [s.d.]: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2013, p. 304. Nell’intervista rilasciata a E. Ferrero in Il signore degli Adelphi, la «leggenda editoriale» (così definita da Ferrero) che adduceva come ragioni della separazione dall’Einaudi i «contrasti sull’opportunità di pubblicare le opere di Nietzsche» sarebbe stata screditata da Foà. Ciononostante, è interessante notare come lo stesso Ferrero, in un successivo articolo in memoria dell’editore scomparso, avrebbe posto ancora il rifiuto di Nietzsche come «innesco per la nuova impresa dell’Adelphi»: cfr. E. Ferrero, Foà l’editore al futuro, in “La Stampa”, 26 gennaio 2005.
[27] Dal Colloquio con Giulio Bollati, in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, pp. 114-115.
[28] Ibidem. Si presume che «la proposta Nietzsche» – avanzata ufficialmente da Giorgio Colli nel 1958 e tuttavia ascritta da Bollati a un momento successivo rispetto all’uscita di Foà dalla Einaudi nel luglio 1961 – si riferisse alla discussione della riunione editoriale del 24 gennaio 1962 in cui si decise unanimamente di non pubblicare le opere complete del filosofo tedesco (così come ricordato dallo stesso Foà in Biografia di un catalogo).
[29] Foà intervistato da G. Ziani in Scrisse sempre. Ma non finì mai…, in “Il Piccolo”, 14 aprile 1993: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 54. Nell’intervento in Bobi Bazlen: uno special di Tuttilibri, regia di Aldo Grasso, trasmesso su Rai TV Rete Uno il 1° giugno 1983, Foà aveva ricordato come le lunghe passeggiate per le vie del centro durante il soggiorno milanese di Bazlen prima del suo trasferimento definitivo a Roma avessero rappresentato «un’opera pedagogica che lui esercitò su di me in quel periodo, facendomi riconoscere come più veramente mie molte idee e concezioni generali della vita che erano in realtà sue. Ad ogni incontro io scoprivo sempre di più il tesoro sconfinato delle sue letture, e anche il modo nuovo che lui aveva di parlare di libri». Alla fine degli anni trenta il primo autore indicatogli dall’amico triestino era stato Kafka. Tra i consigli di libri da leggere e da proporre agli editori italiani che Bazlen gli aveva segnalato nell’ambito del proprio lavoro per l’ALI – l’Agenzia Letteraria Internazionale, fondata dal padre di Luciano, Augusto Foà, nel 1898 – l’editore aveva ancora impressi in mente i nomi di Broch, Traven, Powys, Güiraldes, Ortega e Keyserling, alcuni poi confluiti nel repertorio adelphiano. Il documentario è stato gentilmente fornito dalla famiglia di Luciano Foà.
[30] Con riferimento agli interventi di Foà in: L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate: «L’altro punto che volevo precisare riguarda i rapporti di Bazlen, nella veste di consulente – e direi “morganatico” – con la Einaudi, rapporti tenuti soprattutto da me e, dopo la mia uscita dalla casa, per breve tempo da Daniele Ponchiroli»; Bobi Bazlen: uno special di Tuttilibri: «Rapporto consulenziale […] un po’ morganatico, in quanto i rapporti passavano attraverso di me, e poi attraverso quella carissima persona che era Daniele Ponchiroli»; Lo specchio del cielo: «Voglio dire che questa consulenza di Bazlen presso la Einaudi fu una consulenza morganatica direi».
[31] «Lontane da ogni forma di anonima compilazione di giudizio redazionale-editoriale, queste lettere, nel loro peculiare stile epistolare, riflettono piuttosto quel suo completo disancoraggio dalle incasellature teoriche, dalle mode culturali». Si tratta di valutazioni che passavano da «una percezione istintiva dell’esatto valore di un testo, giudicato, dapprima, mediante il metro elusivo della propria sensibilità […] e misurato, poi, secondo un preciso parametro critico che inserisce il testo letto all’interno di un’ampia prospettiva culturale». Data «la tendenza a ricercare d’intravedere sempre l’uomo nello scrittore», a rintracciare in ogni singolo libro «una correlazione, intimamente avvertita come autentica, tra espressione letteraria e realtà umana corrispondente», risulta facile «comprendere il perché della sua contrarietà all’opera omnia in quanto tale. E, di contro, il suo favore verso quei testi» in cui intuiva, «dietro una valida espressione letteraria, un’autentica verità interiore»: M. La Ferla, Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, Sellerio, Palermo 1994, pp. 63-64. Cfr. R. Bazlen, Lettere editoriali, a cura di R. Calasso e L. Foà, Adelphi, Milano 1968; ora in R. Bazlen, Scritti, Adelphi, Milano 1984.
[32] Si pensi a I sonnambuli di Broch, Ferdydurke di Gombrowicz, Olivia di Olivia, Le canzoni di Narayama di Fukazawa, Il Sosia di Mattioni, Lo spazio letterario di Blanchot, e ad autori come Henry Miller, Bruno Schulz, W.C. Williams, Ramón Sender. Cfr. L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate; M. La Ferla, Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, pp. 68-72.
[33] Foà avrebbe citato più volte la lettera inviatagli da Bazlen il 12 giugno 1951 dedicata a R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, 3 voll., Rowohlt, Berlin 1930-1943 (trad. it. L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1964): cfr. R. Bazlen, Scritti, pp. 273-279. «Non era certo un parere senza i pro e senza i contro, ma era talmente diverso dai pareri che venivano dati normalmente e così fondamentalmente convincente che fu decisa la pubblicazione di questo libro» (Foà in Lo specchio del cielo).
[34] Conversazione inedita tra Einaudi e Foà in Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo. Oltre a Bobbio, a nutrire dubbi sull’opportunità di una pubblicazione dell’opera (soprattutto per la sua mole) vi erano stati anche altri consulenti; è interessante notare come alla fine degli anni ottanta Einaudi avesse ricordato L’uomo senza qualità soltanto attraverso il giudizio negativo di Cantimori, che «con stizza annotava, nel ’52, che l’aveva già letto nel 1936, e che allora gli “sembrò pesante e noioso”»: cfr. G. Einaudi, Frammenti di memoria, Rizzoli, Milano 1988, p. 155.
[35] Rispettivamente, Foà in: R. Barbolini, Fratelli di carta, p. 94; Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo. A essere «inattuale» sarebbe stato anche il programma della casa editrice Adelphi (Cfr. Gli anni ’60. Intellettuali e editoria, p. 137).
[36] Non si può dimenticare come il sodalizio tra Bazlen e Foà avesse affondato le sue radici nelle Nuove Edizioni Ivrea, il progetto editoriale in cui entrambi erano stati coinvolti negli anni quaranta da Adriano Olivetti: un’iniziativa che allora non era riuscita a concretizzarsi, ma dal cui intento sarebbe partita l’Adelphi: «Bisognava superare il blocco culturale provocato dal provincialismo italiano e consolidato dal fascismo, rotto appena, negli anni trenta, dalla “scoperta” degli Americani»: Foà in L. Mondo, Libro come avventura. Uomini rappresentativi dell’editoria.
[37] Informazioni tratte dall’intervista di Vittorio Graziani ad Anna Foà, figlia di Luciano Foà, in Tre libri. A casa di Anna Foà, “Libreria Centofiori”, 20 giugno 2023 in: <https://www.youtube.com/watch?v=xKD1NLhl44A> (ultima consultazione: 1° marzo 2024).
[38] «Caro Bobi, se fossi vissuto anche solo fino al 1966 avresti visto […] una cultura spontanea cosmopolita, come sarebbe piaciuto a te, che non amavi i provincialismi e tutti quegli eccessi delle identità nazionali. E che l’Oriente, e soprattutto l’India sarebbe diventata una meta necessaria, l’I Ching un oracolo di massa, e dal Tao alla Baghavad Gita a Siddharta, Lo Zen e il tiro con l’arco e 101 storie Zen, libri di culto per una generazione»: A. Foà, Lettere a Bobi in Bazleniana, Acquario, Torino 2022, p. 219. Bazleniana raccoglie una serie di scritti di vari autori dedicati alla figura di Bazlen, nonchè i disegni tratti dal diario che l’intellettuale aveva redatto durante il percorso psicanalitico intrapreso con l’amico Bernhard. La casa editrice Acquario (uno dei nomi favoriti prima che si optasse per “Adelphi”) è stata fondata da Anna Foà e da Marco Sodano nel 2019, sotto il nume tutelare di Bazlen.
[39] La situazione dei piccoli editori, intervista radiofonica inedita a Luciano Foà per Piccolo Pianeta. Rassegna di vita culturale, trasmessa il 19 marzo 1971. Canale di trasmissione Rai non definito (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano). Premesso un divario sempre più profondo e «grave» tra le grosse-medie case editrici e le piccole, l’editore individuava, sostanzialmente, due punti in cui i piccoli editori si trovavano svantaggiati nei confronti dei grossi, ovvero le possibilità in termini di «distribuzione» e di «pubblicità». Dal punto di vista della distribuzione, le grandi case editrici disponevano quasi sempre di organizzazioni proprie oppure si valevano di distribuzioni esterne sostenute da gruppi di promotori alle loro dirette dipendenze; per i piccoli editori, invece, non esistevano che le piccole organizzazioni, quasi sempre famigliari, presenti sul territorio italiano, che – aggiungeva Foà – «geograficamente è molto difficile da raggiungere, anche per un certo frazionamento dei centri maggiori, dei centri cittadini». Nell’evidenziare la rilevante differenza di possibilità di raggiungere il pubblico, l’editore si mostrava sorpreso della mancata costituzione, in Italia, di «un’organizzazione di distribuzione che faccia questo lavoro per un numero notevole di piccoli editori». L’elemento pubblicitario, a cui le grandi case editrici potevano adire con maggiore profusione in virtù delle proprie disponibilità finanziarie, si rivelava naturalmente precluso ai piccoli editori. Non agevolava, in tal senso, l’assenza di un organo stampa esclusivamente dedicato alle recensioni di libri e all’informazione su tutte le novità librarie, come alcune riviste esistenti all’estero: un veicolo che, rivolto a un «pubblico che desidera e vuole essere informato», avrebbe rappresentato sicuramente un luogo più adatto ed economico per la pubblicità dei piccoli editori.
[40] Cfr. S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 6. Su questa affinità di “funzione-editore” conviene anche A. Ferrando in Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), p. 92. È interessante osservare come all’inizio degli anni ottanta Foà riscontrasse «uno stato di incertezza» nel mercato librario, che prendeva forma «in quel tipo di editoria che fa libri fungibili, dove un libro può sostituire l’altro per un pubblico indifferenziato, senza faccia, che vien fuori dalle indagini di mercato»; aggiungeva infine che «l’editoria “in grande” pubblica certi libri non perché piacciano a chi li sceglie, ma perché si crede che piaceranno al pubblico senza faccia»: dall’intervista di Foà in G. Dossena, L’editoria è in crisi, ma si fanno troppi piagnistei, in “Tuttolibri”-“La Stampa”, 18 luglio 1981.
[41] «Scittori di romanzi di contenuto […] in cui prevale un interesse per le idee, per il mondo futuro, per lo sviluppo del mondo nell’avvenire, che porta poi a romanzi come Il mondo nuovo di Huxley, di fanta-ideologia»: intervista inedita a Luciano Foà per il programma televisivo Tuttilibri condotto da Giulio Nascimbeni, puntatata trasmessa su Rai Uno il 29 maggio 1978 (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).
[42] Foà riteneva che la qualità maggiormente rilevabile mostrata dallo scrittore fosse, infatti, la sua «facoltà mimetica»: una mimesi che, nel caso in questione, si riduceva «allo sforzo d’immaginazione» adoperato da Morselli di «immedesimarsi» col protagonista, al punto da arrivare a una vera e propria «identificazione del protagonista con l’autore». Altra caratteristica annessa era l’«elemento dello scavo psicologico», ovvero l’«autoanalisi che il protagonista conduce su sé stesso e che è in fondo un’autoanalisi di Morselli», con «tutte le sue complicazioni, i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi interessi, che vanno anche ben al di là della letteratura». «Un vero autoritratto, che può costituire in un certo senso l’antefatto dell’ultimo libro di Morselli, che pure con altra risonanza e altri accenti è fortemente autobiografico, Dissipatio». Cfr. G. Morselli, Un dramma borghese, Adelphi, Milano 1978; id., Dissipatio, Adelphi, Milano 1977.
[43] R. Calasso, Bobi, Adelphi, Milano 2021, p. 78.
[44] B. Grasso, A reflection about my great-grandfather Augusto Foà and his son (my grandfather) Luciano Foà, in “Hook Literary Magazine”: <https://www.hookliterarymagazine.com/lessico-familiare> (ultima consultazione: 29 febbraio 2024).
[45] V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 2.
[46] Dichiarazione di Foà nella già citata intervista di Domenico Porzio.
[47] FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, 24 maggio 1961.
[48] «Capisco le tue ragioni, d’altra parte ogni prospettiva che cercassi di porti d’innanzi potrebbe in queste condizioni essere soltanto un palliativo, obbligandoci a ritrovarci in altrettanto drammatica situazione fra un anno o due. Per quanto riguarda il tuo lavoro a Milano, comprendo il tuo desiderio di un lavoro editoriale autonomo. Non so – lo dico francamente – come questo possa inserirsi nel quadro del programma editoriale della Casa editrice, avendo questa, come ben sai, una nota gelosia di mestiere. […] Comunque, ogni proposta tua concreta nel senso di un tuo lavoro esterno ci troverà tutti pronti a discuterla per trovare una formula di intesa di comune soddisfazione. […] Mi auguro solo che questo lungo periodo lasci in te un buon ricordo, se non altro di amicizia e di esperienza umana e di lavoro. Per me e per la Casa editrice è stata una collaborazione preziosa. Ti abbraccio»: FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Giulio Einaudi a Luciano Foà, Torino, 7 giugno 1961.
[49] Intervista a Foà in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi.
[50] Foà in Lo specchio del cielo: «Devo dire che su questa questione dei classici io avevo già spezzato una lancia ai tempi in cui ero in Einaudi, ma la cosa non ebbe esito».
[51] Sulla passione di Foà per la memorialistica, che avrebbe poi trovato spazio nell’Adelphi: «Mi piacciono le autobiografie, gli epistolari, libri che in Italia non hanno pubblico» (in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi).
[52] Foà in Lo specchio del cielo.
[53] Cfr. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 842.
[54] Einaudi in S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 66.
[55] È rilevante notare come lo stesso Giulio Einaudi associasse espressamente il ruolo del segretario generale a quello di «direttore editoriale» in S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 126.
[56] FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, 13 giugno 1961.
[57] Intervista a Foà in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi.
[58] Nel delineare la storia della casa editrice Adelphi è interessante osservare come per Foà questa fosse stata concepita idealmente come un «luogo in cui i rapporti tra coloro che vi lavoravano tendessero il più possibile a essere orizzontali anziché verticali, dove l’aria che circolasse fosse decente. Doveva essere e rimanere una casa editrice di modeste proporzioni per evitare le scelte meno felici che un aumento dei titoli fatalmente comporta»: cfr. Gli anni ’60. Intellettuali e editoria, p. 137. Ci si chiede quanto queste dichiarazioni non fossero legate all’esperienza decennale in Einaudi. Si veda, a tal proposito, uno scambio Foà-Einaudi di appunti manoscritti in testa al verbale sommario delle riunioni, di poco precedenti le dimissioni, del 19 e 26 aprile 1961, e del 10 e 19 maggio 1961: Foà: «Prego approvare, o no, queste decisioni»; Einaudi: «Le decisioni sono sempre valide». Cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 486.
[59] Con queste parole Italo Calvino suggeriva prudenza a Giulio Einaudi in merito alle proposte editoriali di Bazlen: lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi, New York, 22 novembre 1959, in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Arnoldo Mondadori, Milano 2000, p. 617: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 246. Va ricordato come Calvino avesse contribuito, sul finire degli anni cinquanta, al rifiuto della “Collezione dell’Io”, formulazione finale di una serie di proposte di Bazlen per una nuova collana einaudiana: il nome della collezione “bocciata” è attestato per la prima volta in una lettera di Foà a Bazlen del 1° aprile 1960. Fonte: Archivio storico Giulio Einaudi Editore presso Archivio di Stato, Torino (d’ora in poi, AE), incart. Bazlen. Sulla storia delle collezioni “grande”, “piccola” e “dell’io”: V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, pp. 222-273.
[60] Le nostre speranze, intervista di Paolo Di Stefano a Giulio Einaudi in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, p. 99 (uscita originariamente sul “Corriere della Sera” il 6 agosto 1994 e poi riscritta ad hoc seguendo la successione originaria delle domande).
[61] La «rivista internazionale immaginata alla fine degli anni cinquanta da tre gruppi di scrittori appartenenti a tre diverse nazioni», da considerarsi «l’unica rivista europea del secondo dopoguerra» in quanto «interamente progettata, scritta e redatta da una redazione francese, una italiana e una tedesca»: cfr. M. Belpoliti, E. Grazioli, Gulliver, in “doppiozero”, 21 maggio 2012 in: <https://www.doppiozero.com/gulliver> (ultima consultazione: 22 febbraio 2024). Sulla storia della rivista si segnala Gulliver. Progetto di una rivista internazionale, a cura di A. Panicali, Marcos y Marcos, Milano 2003.
[62] Lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, Milano, 16 aprile 1962, copia dattiloscritta, AE, sezione dell’archivio dedicata alla corrispondenza in ordine alla collana “I gettoni”, cartella 12, fascicolo 760 (Luciano Foà). È interessante osservare come nella primavera del ’62, a pochi mesi dall’abbandono della casa editrice torinese, Giulio Einaudi prediligesse affidarsi ancora a Luciano Foà per le sue capacità di consulenza aziendale e di gestione contabile in merito a un’iniziativa dalla portata culturale come “Gulliver”. Un impianto, quello della rivista, che era ancora a uno stadio iniziale e al quale Foà si accostava fornendo a Vittorini – con cui, negli anni cinquanta, aveva collaborato alla collana dei “Gettoni” – il proprio aiuto, su esplicita richiesta dell’editore.
[63] Intervento inedito di Luciano Foà in Paesaggio con figure.
(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).
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