Mestieri del Libro Archivi - Editoria & Letteratura https://editoria.letteratura.it/category/blog/mestieri-del-libro/ Blog del Laboratorio di editoria diretto da Roberto Cicala Fri, 29 Nov 2024 12:07:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://editoria.letteratura.it/wp-content/uploads/2019/01/cropped-Icona-e1547805980831-32x32.png Mestieri del Libro Archivi - Editoria & Letteratura https://editoria.letteratura.it/category/blog/mestieri-del-libro/ 32 32 Luciano Foà tra Einaudi e Adelphi https://editoria.letteratura.it/luciano-foa-una-carriera-tra-einaudi-e-adelphi/ https://editoria.letteratura.it/luciano-foa-una-carriera-tra-einaudi-e-adelphi/#respond Thu, 24 Oct 2024 10:45:19 +0000 https://editoria.letteratura.it/?p=9024 Divergenze editoriali, ideologia e concorrenza interna: attraverso le carte d’archivio e alcune interviste radio-televisive inedite, una tesi approfondisce le ragioni che condussero Luciano Foà ad abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi. Nato a Milano nel 1915 da Augusto Foà e Emma Agnelli, Giuseppe Luciano Foà ha rivestito un ruolo di rilievo nell’editoria italiana del Novecento in […]

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Divergenze editoriali, ideologia e concorrenza interna: attraverso le carte d’archivio e alcune interviste radio-televisive inedite, una tesi approfondisce le ragioni che condussero Luciano Foà ad abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi.

Nato a Milano nel 1915 da Augusto Foà e Emma Agnelli, Giuseppe Luciano Foà ha rivestito un ruolo di rilievo nell’editoria italiana del Novecento in qualità di agente letterario, traduttore, consulente, segretario generale ed editore a tutto tondo. Suggerito a Giulio Einaudi da Cesare Pavese, Foà rivestì l’incarico di segretario generale della casa editrice dello Struzzo negli anni cinquanta: un ruolo ricoperto per dieci anni e interrotto ufficialmente nell’estate del 1961, con il trasferimento da Torino a Milano e la fondazione di Adelphi nel giugno 1962 insieme con Roberto Bazlen, Alberto Zevi e Roberto Olivetti.
Dover rendere ragione di una questione così complessa come l’uscita di Luciano Foà dalla casa editrice Einaudi può suscitare un certo spaesamento: sono state fornite molteplici chiavi di lettura per descrivere la fondazione di Adelphi, ritenuta dai più il frutto di uno scisma avvenuto nel nome controverso di Nietzsche, una sostanziale rottura con il marxismo, l’illuminismo e il razionalismo dell’Einaudi. Da questa connotazione rigorosamente ideologica alcuni studi hanno preso le distanze, ascrivendola a una mitografia editoriale fallace e non suffragata da fonti, prediligendo piuttosto un ritorno alla storiografia, con un’attenzione maggiore riservata a quei documenti che avvalorano una realtà più composita.
Ebbene, la soluzione più razionale che si è voluto perseguire in questo lavoro di tesi è stata quella di prendere finalmente atto che le motivazioni sottese alla decisione di Luciano Foà di porre fine alla collaborazione con la Einaudi furono molteplici e di diverso ordine. Nel tentativo di restituire una ricostruzione degli eventi aderente alla verità così come intesa dall’editore, sono state raccolte quante più testimonianze dirette possibili, cercando un punto di equilibrio tra l’esercizio del pensiero critico sulle fonti e l’evitamento di interpretazioni polarizzanti. Premesse delle ragioni di carattere strettamente famigliare, ovvero il peggioramento delle condizioni di salute della moglie di Foà, Luisa Schiralli, che al principio degli anni sessanta avevano reso impellente il trasferimento da Torino a Milano, si è riscontrata la necessità di accogliere tutte le altre cause addotte da Foà in occasione dei rari interventi ad oggi rintracciabili.

L’uscita dall’Einaudi e la “questione Nietzsche”: tra mistificazioni e inesattezze

Nel maggio 1986 veniva mandato in onda su RAI Tre Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi,[1] un reportage giornalistico sulla casa editrice torinese, nonché «un brano di storia, un quadro di costume, una radunanza di protagonisti della cultura e infine un ragionamento sull’“utilità sociale” dell’editoria impegnata».[2] Con un intento informativo, il racconto televisivo si proponeva di ripercorrere in chiave divulgativa i trascorsi della casa editrice, le scelte editoriali, le collane, i rapporti con gli autori, i criteri della grafica, ma anche gli «errori compiuti» e le «difficoltà sopravvenute». Tra i numerosi interventi di coloro che maggiormente collaborarono alla definizione del progetto editoriale, troviamo anche quello di Luciano Foà, il cui racconto approdava rapidamente alle cause della separazione dall’Einaudi:

Sul piano del lavoro, io avevo cercato appunto di aprire, in un certo senso, una piccola strada nuova con la consulenza di Roberto Bazlen, che partì da quella famosa lettera in cui lui dava un parere su L’uomo senza qualità di Musil.
Io ero amico di Bazlen dal ’38, quindi lo conoscevo da parecchio tempo, conoscevo le sue idee, i suoi gusti, e naturalmente mi dispiaceva che la sua posizione di consulente fosse un po’ sacrificata: così mi è nata l’idea di poter fondare una nuova casa editrice, anche se la cosa non fosse così ben chiara quando io ho lasciato l’Einaudi.[3]

Da queste prime parole si può evincere come la figura dell’amico Bazlen avesse rappresentato un tassello fondamentale nella ridefinizione da parte di Luciano Foà delle proprie aspettative, in larga parte disattese, rivolte alle pubblicazioni della Einaudi; ma, più genericamente, si potrebbe parlare di un mutamento della concezione di casa editrice, catalogo e suggestioni culturali. Nel proseguire la disamina di quegli anni di transizione, Foà non poteva poi non accennare alla questione che gli studi di editoria letteraria avrebbero associato alla sua scelta di lasciare la casa editrice nel luglio 1961, ovvero la rinuncia da parte della Einaudi a pubblicare le Opere complete di Friedrich Nietzsche:

Uno degli ultimi fatti che non riguarda Bazlen, ma che riguarda [Giorgio] Colli, che mi ha dato un’ulteriore spinta, fu quando lui propose alla casa editrice Einaudi – che aveva già in programma di fare nei Millenni un’edizione delle opere di Nietzsche – di fare un’edizione critica in quanto aveva potuto avere accesso, attraverso anche [Mazzino] Montinari, all’archivio di Weimar e di vedere l’infinità di materiale ancora inedito che c’era, e quindi la possibilità di fare un’edizione critica che i tedeschi non avevano, anche perché i tedeschi non volevano andare a Weimar. In questo punto venne rifiutata su pareri diversi: mi ricordo quello di Cantimori insomma.
[L’edizione critica fu] rifiutata in modo definitivo dopo che io lasciai la Einaudi, qualche mese dopo. E questo appunto poi venne a coincidere un po’ con la fondazione della casa editrice, dell’Adelphi, e quindi con l’accettazione della proposta stessa da parte nostra.[4]

Luciano Foà e Giorgio Colli

Luciano Foà e Giorgio Colli. Fonte: Archivio Giorgio Colli.

Per quanto Foà, assecondando uno spirito di realismo manageriale che lo contraddistingueva, tendesse a indicare come origine del rifiuto einaudiano anche l’impegno finanziario proibitivo legato al progetto editoriale avanzato da Giorgio Colli e Mazzino Montinari,[5] non poteva comunque sottrarsi dal fare i conti con quella dirompenza politica e culturale che in ambito accademico aveva suscitato non poche polemiche.[6] Oltre all’irrazionalismo, il filosofo tedesco era al tempo associato indissolubilmente – e come si sarebbe poi dimostrato, impropriamente – all’antisemitismo, al nazismo e al fascismo.[7] Il risultato delle considerazioni su Nietzsche di Delio Cantimori fu quello di consolidare lo scetticismo che sul piano di politica culturale era già ampiamente diffuso fra i membri del consiglio editoriale dell’Einaudi.[8] Pur non avendo rappresentato la causa determinante per il rifiuto definitivo, la critica dello storico sarebbe rimasta impressa tanto nella memoria della casa editrice quanto in quella di Luciano Foà, a cui di volta in volta si sarebbe riferito attraverso le definizioni di «parere», «famoso giudizio negativo» e vero e proprio «veto ideologico».[9] Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale fosse stata la narrazione dei fatti legati alla “questione Nietzsche” suggerita dall’editore stesso, Giulio Eiunadi, che nel Colloquio con Severino Cesari avrebbe menzionato quel «momento di crisi» di cui Colli e l’edizione di Nietzsche erano stati protagonisti;[10] si può qui osservare come il punto di vista di Einaudi fosse ricaduto subito sulla gravità economica del progetto editoriale, in una sostanziale linea di continuità con le riflessioni di pragmatismo imprenditoriale di Foà. Nel proseguire il racconto, per l’editore era tuttavia impossibile sottrarsi dall’ammettere il «contrasto» e la «confusione» che si sarebbero creati con l’eventuale aggiunta nel catalogo di «dosi massicce di Nietzsche» (parole atte a indicare la percezione dell’impraticabilità di un distanziamento così netto dalla politica editoriale della Einaudi, legata al PCI), puntualizzando al tempo stesso che l’assenza «di pregiudizi di altra natura verso certi autori del “pensiero negativo”» sarebbe stata dimostrata dalla lettura «dei verbali del mercoledì degli anni cinquanta». Se infatti la casa editrice aveva promosso un’opera come La distruzione della ragione di György Lukács,[11] non si poteva dire che avesse escluso aprioristicamente Nietzsche dalle proprie pubblicazioni:[12] per Claudio Rugafiori «l’Einaudi non respinse le opere di Nietzsche, ma le Opere complete di Nietzsche proprio in quanto complete. Giulio Einaudi non sopportava l’idea, la considerava la bara di un autore».[13] Su questi punti si sarebbe espresso anche Giulio Bollati, il quale – relativamente al funzionamento del dibattito culturale all’interno della Einaudi e alla presunta egemonia-dittatura marxista vigente – avrebbe parlato del rifiuto dell’edizione Colli-Montinari come di «un caso di autocensura o di incomprensione» dettato dalla «posizione particolarmente scomoda» in cui versava la casa editrice:

Il dibattito si svolgeva come si svolge ancora oggi, i libri nascevano dalla discussione e dalle proposte degli interni, dei consulenti, degli amici. La tesi di Galli della Loggia, che la Einaudi sia stata la forza trainante di una dittatura marxista, mi sembra una semplificazione davvero assai rozza. Può esserci stato, piuttosto, qualche caso di autocensura o di incomprensione; nei confronti di Nietzsche, per esempio, che al gruppo torinese gramsciano-gobettiano allora non diceva nulla. Non va dimenticato che in quegli anni di guerra fredda la nostra posizione era particolarmente scomoda: chi non era schierato su posizioni moderate era considerato automaticamente comunista, ma se non era allineato all’ortodossia del partito rischiava di essere bollato come intellettuale velleitario. Noi eravamo sempre in mezzo: il che, beninteso, non comportava solo svantaggi, ma anche un grande senso di libertà. Tutte le nostre scelte, anche quelle che oggi depreco, come il rifiuto di Nietzsche, furono fatte con assoluta convinzione e al di fuori di ogni costrizione.[14]

Si potrebbe concludere che per quanto Nietzsche fosse stato marginalizzato e oggetto di un retropensiero difficile da scardinare,[15] l’Einaudi si era opposta all’idea di un’edizione completa, ma non al filosofo tout court: dai verbali del mercoledì si può osservare, a esempio, come la proposta dello stesso Luciano Foà di pubblicare per l’“Universale” le Lettere di Nietzsche fosse stata accolta con favore qualche mese prima dell’abbandono della casa editrice.[16] L’intreccio di «implicazioni personali, culturali, filologiche ed editoriali» che ha prodotto il “caso Nietzsche” risulterebbe talmente complesso da non poter «ridurre» in modo semplicistico il rifiuto einaudiano «a una volgare questione di censura ideologica».[17]
Ciononostante, a fronte delle innumerevoli attestazioni in cui il segretario generale aveva spontaneamente denunciato il clima refrattario a certe tendenze culturali all’interno della casa editrice dello Struzzo alla fine degli anni ’50, si ritiene che non sia possibile affermare che alle spalle dell’uscita di Foà dalla casa editrice non fossero state presenti anche motivazioni di stampo ideologico.

Ideologia e politica

Ho lasciato l’Einaudi per ragioni soprattutto famigliari e anche perché incominciavo a sentirmi troppo stretto da un punto di vista ideologico, anche se Einaudi era una casa editrice con un’ideologia chiamiamo “aperta”, ma insomma sempre troppo stretta per me.[18]

Luciano Foà (in piedi) con Giulio Einaudi negli anni cinquanta (tratta da E. FERRERO, Il signore degli Adelphi, in “La Stampa”, 8 dicembre 1990).

Luciano Foà (in piedi) con Giulio Einaudi negli anni cinquanta (tratta da E. FERRERO, Il signore degli Adelphi, in “La Stampa”, 8 dicembre 1990).

Una valutazione attenta del materiale raccolto non può esimersi dal tenere in forte considerazione il risvolto politico comportato dal rifiuto einaudiano di pubblicare l’opera omnia di Nietzsche: difatti, sulla base di almeno altre cinque dichiarazioni rilasciate dallo stesso Foà attraverso differenti canali radio-televisivi e periodici, in un arco temporale che va dagli anni settanta agli anni novanta, si evince in modo lampante l’insofferenza che l’allora segretario generale aveva provato rispetto ai vincoli ideologici che, più o meno silenziosamente, si erano manifestati nella casa editrice torinese: limiti che l’Adelphi si era promessa di oltrepassare.[19]
In tale frangente, le lettere indirizzate da Luciano Foà nel corso degli anni a diversi giornali – al fine di mitigare e ridimensionare il peso di alcune sue affermazioni riportate in articoli d’intervista precedentemente pubblicati – rispondevano non tanto a una reale volontà di negare o sminuire le cause ideologiche che lo avevano spinto a lasciare l’Einaudi, quanto al tentativo di non compromettere la propria esperienza decennale in casa editrice e salvaguardare i rapporti personali che lì si erano stabiliti. Basti pensare alla Lettera al Direttore scritta da Foà nel dicembre 1972 e volta a puntualizzare, «soprattutto per correttezza verso altre persone», alcune sue dichiarazioni trascritte da Enzo Siciliano in un articolo pubblicato su “La Stampa”:[20]

Nel 1951 andai a lavorare a Torino, da Einaudi, per dare il mio contributo a un programma culturale e politico che aveva la mia più completa adesione. Perciò, per gran parte dei dieci anni in cui fui presso Einaudi, il mio lavoro, contrariamente a quanto è scritto nell’intervista, “si mescolò” strettamente con i miei “interessi culturali diretti”. Lasciai Einaudi, nel 1961, per un concorso di ragioni familiari e di amichevole dissenso sull’organizzazione della casa editrice e sul suo programma.[21]

Foà specificava come avesse aderito pienamente al «programma culturale e politico» della Einaudi «per gran parte dei dieci anni» di lavoro: un’affermazione che sanciva l’identificazione con la linea editoriale della casa dello Struzzo durante gli anni cinquanta, ma che al tempo stesso sottintendeva un momento di crisi – come si vedrà, più di uno – che lo aveva portato a non sentirsi più parte integrante del progetto einaudiano.
A soli tre anni di distanza l’ex segretario generale avrebbe sentito nuovamente l’urgenza di specificare e contestualizzare alcune dichiarazioni che aveva rilasciato a Silvia Giacomoni per la rivista “Prima Comunicazione”:[22] nella lettera del dicembre 1975 Foà ribadiva, infatti, la «soddisfazione» per il lavoro svolto all’Einaudi e l’«affetto e ammirazione» a essa rivolti, per poi accostarsi all’argomento spinoso del rapporto cultura-politica all’interno della casa editrice.[23] Quello di cui l’editore di Adelphi voleva dar conto attraverso l’espressione «malinconico ideologismo» era il rispecchiamento della frangia più ideologizzata della Einaudi con «la situazione generale della cultura di sinistra italiana», denunciando, in sostanza, un approccio alla cultura limitante e concepito, anche dopo i fatti d’Ungheria del ’56, esclusivamente come strumento di «lotta politica». Gli indugi del consiglio editoriale sul nome di Nietzsche erano stati il frutto di «questo temporaneo “sfasamento” tra un certo ideologismo e una realtà che si rivelava in quegli anni molto più complessa degli schemi invalsi nel periodo della guerra fredda»: una tendenza che Foà ascriveva al periodo compreso tra «la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta» e che, tuttavia, al tempo della scrittura della lettera considerava ormai ampiamente superata. Relegando il rifiuto einaudiano dell’opera omnia di Nietzsche a un momento di passaggio che era stato complesso per l’intero sistema culturale e politico italiano, Foà intendeva assolvere l’Einaudi da ogni accusa di censura ideologica; restituiva, così, un’immagine della casa editrice che «nei vari momenti “storici” del dopoguerra» si era dimostrata e si dimostrava ancora «tra le istituzioni culturali più aperte della sinistra italiana» e fautrice di un’influenza «positiva sulla politica delle sinistre».
Nel mettere a confronto il contenuto delle due lettere sopracitate con le fonti fin ora prese in esame si individuano delle oscillazioni di pensiero a volte di difficile interpretazione, attraverso le quali è possibile dedurre gli ostacoli che Foà dovette affrontare al momento di descrivere il proprio distacco dalla Einaudi, di riportare con le giuste misure una fase che lo aveva visto coinvolto sul piano personale, oltre che professionale: si rileva, in sostanza, la tendenza dall’ex segretario generale a voler evitare fraintendimenti e a non rinnegare un percorso che era stato molto importante nella definizione delle proprie inclinazioni editoriali.
Inoltre, è necessario sottolineare che addurre delle ragioni ideologiche per l’allontanamento di Foà dalla casa editrice non equivale a sottintendere un suo distanziamento dalle posizioni politiche del Partito Comunista Italiano – si noti come qualche mese prima dell’articolo in “Prima Comunicazione” l’editore avesse aderito all’appello lanciato da alcuni intellettuali italiani per un voto di rinnovamento al PCI –, ma alla percezione sperimentata in Einaudi di un ostacolo alla libertà editoriale.[24] Anche dopo l’uscita dal partito a seguito della rivelazione del rapporto Chruščëv e della crisi d’Ungheria, Foà sarebbe rimasto ancora allineato agli ideali di quella corrente, pur non condividendone la «filosofia» o la «metafisica»: «l’idea che il marxismo sia un mezzo insostituibile per interpretare la realtà».[25]
Dall’intervento del ’75 si evincerebbe come la sfera ideologica avesse orientato la decisione di Foà solo parzialmente, non costituendo il motivo «più importante».[26] Anche Giulio Bollati avrebbe dichiarato che la “secessione” di Foà dall’Einaudi non era stata determinata da scelte editoriali come quella sul filosofo tedesco, dal momento che nel caso del segretario il distacco era avvenuto «prima della proposta Nietzsche».[27] Per Bollati le motivazioni di Foà rispondevano, invece, a un «fenomeno assolutamente fisiologico» che aveva visto persone diverse staccarsi «dal tronco comune di una casa editrice, per così dire, “ecumenica” all’interno della sinistra» e trovare «a poco a poco la loro “identità specifica”». Gli interessi di Foà erano rivolti alla «letteratura attenta ai valori psicologico-esistenziali» promossa dall’amico Bobi Bazlen. Una “tendenza” per la quale il segretario generale aveva chiesto più spazio all’interno della casa editrice: «Einaudi glielo concesse in una misura per Foà insufficiente, e questo soprattutto per ragioni di equilibrio e di “linea”, e Foà se ne andò fondando Adelphi. Poco dopo venne la proposta Nietzsche».[28]

Adelphi specchio di Foà e Bazlen

Foà avrebbe ricordato come nel periodo iniziale della loro conoscenza Bazlen avesse esercitato su di lui «una pura e semplice azione pedagogica»,[29] ricorrendo spesso ad un aggettivo specifico per descrivere il rapporto consulenziale instauratosi negli anni tra l’intellettuale triestino e la casa editrice torinese, ovvero «morganatico»:[30] si riferiva alla natura stessa del rapporto Bazlen-Einaudi, che non fu mai diretto, ma sempre mantenuto per interposta persona, attraverso lo stesso Foà, prima, e attraverso Daniele Ponchiroli dopo il luglio 1961. Difatti Bazlen non avrebbe mai partecipato alle riunioni del mercoledì con gli altri consulenti della casa editrice, bensì le sue valutazioni critiche venivano esaminate in primo luogo da Foà, per poi passare a Calvino e, infine, al consiglio editoriale. Le lettere inviate al segretario generale esprimevano un giudizio che per la forma e per il contenuto risultava unico nel proprio genere.[31]
Al di là delle evidenti difficoltà riscontrate dagli editori nell’approcciarsi a una personalità come quella Bazlen, «non si può affermare» che presso l’Einaudi «le sue indicazioni vennero sistematicamente disattese», ma, anzi, risultarono determinanti per l’edizione di diversi libri.[32] Il caso più eclatante si verificò con L’uomo senza qualità di Robert Musil, per la cui pubblicazione il parere di Bazlen si era rivelato decisivo:[33] in una conversazione radiofonica del settembre 1993, invitato da Elisabetta Mondello a descrivere la propria esperienza nella casa editrice torinese, Luciano Foà avrebbe ripercorso con Giulio Einaudi il “caso Musil”:

Einaudi: Io ricordo, però, sempre una grande riconoscenza per Bazlen. È lui che ci ha portato Musil in casa editrice, o sbaglio?
Foà: No, lui ha fatto un parere, dopo che l’aveva già fatto Bobbio [ride] ti ricordi?
Einaudi: Sì.
Foà: Io quando arrivai all’Einaudi sapevo che Bobbio stava leggendo Musil, L’uomo senza qualità. Il parere di Bobbio, mi ricordo, era sostanzialmente favorevole, ma dicendo che era assolutamente impossibile pubblicarlo per la sua lunghezza, per la sua complessità. Allora io, arrivato da poco, sempre nel ’51, lo mandai a Bazlen, e lui poi scrisse quella lettera sulla base della quale anche lui facendo delle riserve riguardo la lunghezza ecc., però c’era talmente un elemento di entusiasmo che è bastato quello perché si decidesse di farlo.
Einaudi: Ecco, vedi, c’è la riconoscenza per un consulente di cui tutti noi ammiriamo la grande qualità intellettuale. Ti ringrazio Luciano di questa testimonianza.[34]

Ma, a conti fatti, per Foà il contributo che Bobi Bazlen era riuscito ad apportare risultava comunque troppo «limitato». Eccezion fatta per i «sei o sette» libri consigliati e pubblicati, molti altri non erano stati accolti: tra le occasioni mancate dell’Einaudi, Il demone meschino di Fëdor Sologub e i Misteri di Knut Hamsun. Foà riteneva che le proposte di Bazlen fossero troppo «in anticipo sui tempi» e «inattuali» per essere considerate intrinsecamente nel proprio valore culturale dagli editori del tempo.[35] D’altra parte, negli anni cinquanta l’intellettuale triestino era già stato responsabile per la Astrolabio di Mario Ubaldini delle traduzioni di Freud e Jung destinate a “Psiche e coscienza”, collana codiretta insieme a Ernst Bernhard, il primo psicanalista junghiano in Italia. Bazlen era affascinato dalla psicologia, dalla parapsicologia e dall’esoterismo, tematiche che già aveva tentato di far confluire nelle NEI di Adriano Olivetti e di cui la collezione “Cultura dell’anima” diretta da Giovanni Papini per Carabba all’inizio del secolo era stata principale iniziatrice.[36] Ma l’intervento di Bazlen non si era fermato alla diffusione della psicanalisi (introdotta in Italia, prima di lui, da Edoardo Weiss, allievo di Sigmund Freud): ai tempi della collaborazione con Astrolabio aveva infatti partecipato alla traduzione dell’I Ching. Il Libro dei Mutamenti,[37] promuovendo di fatto la cultura orientale in un contesto, quello italiano, che nel dopoguerra si teneva ben distante da tutti quei saperi tacciati di irrazionalismo.[38]
Sappiamo come sul piano della gestione dell’impresa editoriale l’Adelphi fosse stata espressione della direzione di Luciano Foà, che già nel ’71, nell’ambito della trasmissione radiofonica Piccolo Pianeta, aveva avuto modo di delineare chiaramente gli ostacoli riscontrati dalle piccole case editrici in Italia;[39] intervista nella quale Foà aveva fornito una presentazione programmatica dell’Adelphi e un suo netto posizionamento rispetto alla correlazione, generalmente percepita, tra la figura del «piccolo editore» e una «maggiore selezione culturale» da un lato, tra la «grande casa editrice» e un «allargamento di produzione tale da risultare a discredito del livello culturale» dall’altro:

Penso che l’allargamento della produzione di una casa editrice non può che metter capo a un annacquamento e indebolimento del valore culturale in senso, però, di scoperta di valori nuovi, di nuove linee culturali, non già nel senso di una cultura di massa, di un “fornire degli strumenti di lavoro”, come si usa dire, ma più per il lavoro, diciamo così, un po’ pionieristico, di avanguardia: questo lavoro di punta che implica non inserirsi nelle mode, non dare la caccia ai bestsellers, ma un momento di riflessione che implica anche un riesame di un passato anche prossimo. Per fare questo lavoro bisogna essere estremamente selettivi, quindi non essere trasportati dall’esigenza di produrre, ma in un certo senso capovolgere il rapporto e produrre solo quello che si vuole produrre.

Luciano Foà tra le sue carte, anni ottanta.

Luciano Foà tra le sue carte, anni ottanta. Fonte: Archivio Giorgio Colli.

«Non essere trasportati dall’esigenza di produrre», non identificare i libri in «prodotti»: si potrebbe dire, non assecondare una visione capitalista della cultura e slegare il processo di selezione editoriale da un interesse esclusivo di carattere economico. Un’idea di impegno, quella di Foà, che sposava ancora perfettamente la categoria einaudiana di «editoria “sì”», pur nell’evidente distanza progettuale.[40]
Per l’editore di Adelphi la passione letteraria e politica era sorta alla lettura del saggio Ends and Means di Aldous Huxley (1937), che segnava la conversione dell’autore dallo scetticismo al pacifismo. Il fascino rivolto allo scrittore britannico era ancora ben presente alla fine degli anni settanta, quando in un’intervista rilasciata a Giulio Nascimbeni per Tuttilibri Foà accostava Guido Morselli agli autori «che si possono trovare nella letteratura inglese del Novecento, in quell’arco che va da Wells a Huxley».[41] Le riflessioni critiche di Foà su Un dramma borghese – opera di Morselli appena pubblicata dalla casa editrice e avente come tema centrale l’incesto – riecheggiavano chiaramente la concezione bazleniana dei “libri unici”, ovvero di quei romanzi, memorie o saggi che meritavano di essere letti e pubblicati poichè nati da un’esperienza diretta dell’autore.[42] Al criterio dell’unicità si univa quello strettamente interconnesso della “primavoltità”, un concetto coniato dallo stesso Bazlen e riassumibile come «il legame fra qualcosa che era successo e chi gli dava un nome»; un legame che, qualora si fosse presentato in modo «abrupto e irripetibile», avrebbe goduto di una «qualità ulteriore, una forza d’urto che poi si sarebbe dissipata».[43] Una parola per indicare le sensazioni che si percepiscono quando si fa qualcosa per la prima volta, quando si assume la consapevolezza che qualcosa sta per cambiare per sempre:[44] in definitiva, la primavoltità è il carattere insieme autobiografico, esperienzale e impellente dal quale emerge la scrittura letteraria.[45] Nonostante la scomparsa di Bazlen nel 1965, la sua eredità non sarebbe andata perduta: non stupisce, dunque, la scelta di pubblicare postume le opere di Guido Morselli, che nello scrivere Dissipatio aveva messo in scena la crisi esistenziale e il suicidio del protagonista, il suicidio che l’autore stesso avrebbe commesso pochi mesi dopo l’ultimazione del libro.

La lettera del 13 giugno 1961

L’eccessiva lontananza di Bazlen dal programma editoriale della Einaudi rendeva necessario progettare uno spazio diverso, tanto che nel ’61 Foà aveva già redatto un «programma molto generico» di libri che la casa editrice aveva rifiutato e che avrebbero potuto trovare una nuova collocazione: all’insoddisfazione per le proposte disattese dell’amico triestino si univano però delle motivazioni più personali, «una certa scontentezza» derivata dal silenzio di Einaudi rispetto ai consigli, alle aspirazioni e alle esigenze progettuali espresse dallo stesso Foà.[46] Nel maggio 1961 il segretario generale scriveva a Giulio Einaudi per «concludere il discorso cominciato qualche settimana fa a proposito di un possibile mio nuovo rapporto con la Casa» dopo il trasferimento da Torino a Milano previsto in autunno.[47] Il 7 giugno l’editore torinese prendeva atto «con estremo dispiacere» della decisione di Foà di lasciare la casa editrice, facendo riferimento in modo alquanto sbrigativo a tutta una serie di «idee» che quest’ultimo aveva elaborato nel corso degli anni e che, per svariati motivi, non erano state validate.[48] Come dichiarato dal futuro editore dell’Adelphi in un’intervista a Ernesto Ferrero, negli ultimi tempi presso l’Einaudi aveva sollecitato «una collana di classici a prezzo medio» e auspicato «una qualche grande opera per sostenere le vendite rateali».[49] Verso quest’ultima direzione avrebbe potuto spingere «l’enciclopedia McGraw-Hill della scienza e della tecnica» che Calvino aveva portato dall’America: «costava cento milioni di allora, ma ci mancavano le forze redazionali per realizzarla». E non senza amarezza Foà constatava che per quanto «su questi problemi» si scambiassero «lunghi memoriali scritti» che sembravano preludere a un accordo comune, di fatto «non capitava nulla». Non è quindi casuale che un anno e mezzo dopo la fondazione dell’Adelphi, ovvero alla fine del 1963, per «seguire una strada più riparata nell’inizio delle nostre attività» e per pubblicare importanti «opere che non c’erano oppure che erano pubblicate in edizioni non soddisfacenti», il punto di partenza sarebbe stato segnato proprio da quella collana di classici rifiutata da Einaudi.[50] Nella lettera sopracitata l’editore difendeva la propria scelta sostenendo che i classici proposti da Foà avessero già una propria collocazione presso la casa editrice, identificando unicamente nel settore biografico e memorialistico, seppur già inserito nelle diverse collane esistenti, una possibile collezione a sé stante;[51] teneva però a precisare come il carattere «commerciale» di quelle questioni esulasse «dagli interessi propri tuoi e miei personali», quasi a ribadire che il rifiuto fosse stato dettato, oltre che da una scelta di linea e interesse editoriali, anche di mercato. Tuttavia, Foà non avrebbe mancato di osservare a posteriori come non molto dopo la sua uscita dalla casa editrice la Einaudi stessa avesse fondato la “Nuova Universale Einaudi”: «una collana dedicata ai classici che corrispondeva molto bene a quella che era la mia impostazione da un punto di vista “industriale”».[52] A ideare la collana nel ’62 era stato Giulio Bollati, che alla fine degli anni sessanta aveva acquisito un ruolo di maggiore preminenza all’interno della casa editrice come collaboratore, subentrando, per ammissione di Einaudi stesso, a quella «centralità» che per molti anni era stata condivisa con Foà:[53]

Quando è morto Pavese, Bollati aveva ventidue anni. Si è fatto pian piano con me. Ma non è che dall’inizio, io vedo subito Pavese o Calvino o Bollati come “motori” o “perni”. In quegli anni c’era un altro personaggio che mandava avanti la casa editrice: Luciano Foà. Non possiamo dimenticare che per dieci anni, dal ’45 al ’55 [sic] è stato segretario generale. Con Luciano Foà mi sembrava di essere a cavallo, finalmente ho uno che ha pratica di lavoro, intelligente, colto, viene da Milano senza essere per l’efficientismo fine a sé stesso. Naturalmente veniva a scontrarsi con Bollati, che pian piano emergeva, diventando la voce del padrone, e Luciano Foà, mentre la malattia di una persona cara lo spingeva a tornare a Milano, sente che io ascolto ormai più l’altro che lui. A lui mi rivolgevo per dire: perché non pagate questo? Perché non pagate quell’altro? Ma di progetti, di idee, parlavo sempre di più con Bollati che con lui.[54]

La mancata realizzazione della collana di classici era stata sicuramente significativa per Foà, tanto da obbligare Einaudi, che voleva individuare soprattutto in questo le ragioni delle dimissioni, a ribadire le proprie motivazioni per il rifiuto; tuttavia, in queste dichiarazioni a Severino Cesari si manifesta un aspetto forse ancora più delicato, ovvero che a essere messa in discussione dall’editore non era stata soltanto la proposta della singola collana, ma più in generale il contributo in termini «di progetti» e «di idee» che Foà avrebbe potuto apportare alla casa editrice in qualità di «direttore editoriale».[55] Non stupisce quindi la reazione di Foà alle parole di Einaudi, che il 13 giugno 1961 scriveva all’editore una lunga e dettagliata lettera per «fare un po’ di storia» e dar conto della complessità di quella concatenazione di eventi che lo aveva motivato ad abbandonare la casa editrice, e che a suo giudizio era stata riassunta dall’editore in «modo un po’ spiccio». Per la sua netta «chiarezza» d’intenti, volta a dissipare quegli «equivoci» che «servono talora per la convivenza, ma sono sempre ingiustificati e senza attenuanti quando ci si lascia», questa lettera costituisce una delle fonti più importanti per conoscere le cause di un distacco «doloroso» ma ormai inevitabile.[56]
È evidente come Foà avesse deciso di esporre in modo trasparente un processo di disaffezione dalla casa editrice che non era stato subitaneo, ma lento e non privo di gravi mancanze, da una parte, e di tentativi di risoluzione, dall’altra. Quello che Foà non poteva assecondare era l’intento di Einaudi di deresponsabilizzarsi per l’accaduto mostrandosi condiscendente alle smanie del segretario generale. Al culminare degli anni cinquanta si erano presentati ben tre momenti di «crisi» a cui non era stata trovata una degna conclusione, e che Foà non si sarebbe risparmiato dal descrivere minuziosamente. Da un punto di vista prettamente «economico», dopo la crisi einaudiana degli anni ’56-’58, in cui Foà si era visto remunerato (inverosimilmente) più per la sua attività presso l’ALI che dalla casa editrice, l’editore sarebbe riuscito a venire incontro alle esigenze del segretario generale. Ma a solo un anno di distanza dalla «prima» crisi del ’59, nei primi mesi del ’60, se ne sarebbe presentata una «seconda» che, concesso (dopo diverse sollecitazioni) un ulteriore miglioramento sul piano economico, avrebbe investito in modo preponderante l’ambito del lavoro redazionale: come avrebbe confessato a Ernesto Ferrero, a fronte di una situazione finanziaria più stabile per la casa editrice Foà avvertiva ormai «un’esigenza d’ordine interno, la necessità di darci strutture più solide e chiare»,[57] che concretamente richiedeva «una più razionale organizzazione del lavoro». Il risvolto più personale della questione lo si vedeva nella richiesta esplicita del segretario di voler «esercitare funzioni di maggiore responsabilità» e di un «controllo effettivo sull’esecuzione del lavoro redazionale»: d’altra parte, a un aumento stipendiale avrebbe dovuto corrispondere un ruolo di maggiore spessore. A queste istanze Einaudi aveva risposto predisponendo delle riunioni tra i consulenti della casa editrice al ritorno di Calvino dall’America. Un’impostazione, quella delle riunioni, che il segretario aveva giudicato e giudicava ancora, senza mezzi termini, «errata», poiché bisognava sì prendere atto dei problemi ascoltando l’opinione di ciascuno singolarmente, ma «per essere conclusiva» la discussione avrebbe dovuto svolgersi tra pochi stretti, ovvero Einaudi, Bollati, Calvino e lo stesso Foà. Malgrado tutto, l’ostacolo più grande si era presentato nel momento in cui, convocato insieme a Giulio Bollati nell’ufficio di Einaudi per una ripartizione dei compiti, il segretario prendeva atto che il lavoro affidatogli dall’editore non rispondeva più al piano dell’ideazione e della progettazione, ma consisteva in un controllo del «lavoro redazionale» che altro non avrebbe fatto se non mettergli tra le mani «molto lavoro spicciolo». Si era verificato, in poche parole, quel tacito passaggio di testimone per il quale Foà non sarebbe stato più consultato in qualità di consigliere editoriale, ma come amministratore di un’attività puramente esecutiva «sempre più assorbente». Nella speranza (vana) di una maggiore partecipazione, Foà doveva constatare come le «decisioni importanti» venissero prese da Einaudi senza sentire il suo parere, come le riunioni atte alla discussione di problemi generali fossero ormai quasi del tutto scomparse, nonché appurare l’impossibilità di parlare con l’editore «persino delle questioni specifiche del mio lavoro».[58] Questo clima di insoddisfazioni nell’autunno del ’60 non era stato ancora risollevato, e Foà comprendeva che probabilmente non ci sarebbero stati più i presupposti per risollevarlo. Con la «terza crisi» del ’61 si chiudeva il cerchio: la «riorganizzazione del lavoro editoriale» era una condizione necessaria e non più rinviabile. Ed è a questo punto che segue un’asserzione tanto inaspettata quanto lapidaria:

Posso ora dirti che se, su questo punto, tu mi avessi dato soddisfazione (ciò che non voleva certo dire che tu dovessi accettare tutte le mie idee al riguardo) di crisi non ce ne sarebbero più state, malgrado la situazione mia familiare che tu conosci. La mia permanenza alla Casa editrice sarebbe stata definitiva o, almeno, definitiva nei limiti di tutte le cose di questo mondo.

Queste parole non lascerebbero adito a dubbi: il fattore determinante per la scelta di Foà di abbandonare la casa editrice fu dettato dalla totale mancanza di ascolto rispetto a quel «senso di un preciso dovere verso la Casa editrice e verso di te di far valere con la maggiore energia l’istanza di un miglioramento del lavoro comune», dall’assenza di un coinvolgimento diretto nel programma da parte di Giulio Einaudi. Se l’editore avesse tentato di trovare una mediazione, è molto probabile che Foà sarebbe rimasto a lavorare ancora a Torino per la casa editrice, ovviando ai problemi famigliari. C’è da chiedersi, certo, in quale misura Foà avrebbe potuto convivere ancora con le distanze culturali dell’amico Bazlen dalla linea editoriale della casa dello Struzzo, con le resistenze «agli sconfinamenti spiritualistici» dell’intellettuale triestino.[59] Si ritiene che il complesso di cause di vario genere cui si è fatta menzione inviterebbe forse, in ultima analisi, a ponderare con cautela questa ipotesi avanzata dal segretario di una sua «permanenza definitiva» a Torino se solo Giulio Einaudi si fosse prodigato per venire incontro alle sue esigenze: è preferibile ampliare lo spettro e sottrarsi dal dedurre da questa sola dichiarazione che le uniche e vere motivazioni di Foà fossero rappresentate da quelle esposte nella lettera privata a Einaudi. L’assenza della “questione Nietzsche” all’interno del documento farebbe supporre verosimilmente che Foà avesse preferito non alludere per iscritto a un argomento dai connotati ideologico-politici così spigolosi, prediligendo probabilmente un dialogo de visu: d’altro canto, come si è visto, sarebbe stato proprio l’ex segretario generale, nell’ambito della trasmissione Biografia di un catalogo, a specificare come l’edizione Colli-Montinari avesse costuito a tutti gli effetti «un’ulteriore spinta» a lasciare l’Einaudi.
È bene sottolineare come il rapporto amicale con Giulio Einaudi sarebbe rimasto positivo nonostante i trascorsi sul piano professionale. Pur non limitandosi nell’esplicitare delle riserve sul programma della casa editrice milanese, Einaudi si sarebbe riferito sempre con termini di apprezzamento al lavoro e alla figura del passato collaboratore: «I saggi Adelphi sono di una assoluta pulizia, c’è un amico, Luciano Foà, che stimo moltissimo».[60] A dimostrare ulteriormente come le basi del rapporto amicale Foà-Einaudi fossero tutt’altro che minate in modo irresolubile vi è una lettera inviata dall’ex segretario generale all’editore dello Struzzo il 16 aprile 1962 inerente alla stesura di «un preventivo delle spese redazionali» di un’anonima «rivista» internazionale (quasi certamente, Gulliver),[61] che attesta la disponibilità di Foà a dare il proprio contributo ai progetti einaudiani anche dopo il distacco.[62]
Ma ci si chiede ancora, nel turbinio delle affermazioni di personalità come Giulio Einaudi e Roberto Calasso, quale fosse il pensiero nascosto di Foà in merito all’idea generalmente diffusa di un antagonismo inscindibile tra l’Einaudi e l’Adelphi. Una possibile traccia la si potrebbe identificare nel contesto già citato della lunga intervista radiofonica che Elisabetta Mondello aveva registrato con Einaudi, attraverso quella che appare, oggi, una chiara presa di posizione espressa da Foà all’inizio del suo personale intervento:

Mondello: Con quale spirito, secondo lei, sono nate le tante case editrici che in qualche modo sono collegabili poi all’Einaudi per filiazione, diciamo per germinazione, oppure perché l’Einaudi ad alcuni personaggi è stata stretta?
Foà: Voglio distinguere, perché poi di queste case editrici che hanno avuto dei rapporti con Einaudi attraverso chi le ha fondate, c’è Paolo Boringhieri, che nel ’55-’56 si distaccò, lui prima era redattore e si occupava della parte scientifica della casa editrice Einaudi, poi acquistò tutte le collane scientifiche, compresa quella etnologica, e proseguì sulla strada di queste collane, ne fece poi delle altre, ma insomma cominciò col rilevare queste due collane.
Per quanto riguarda me, non si può dire che io possa essere una “filiazione” se si pensa al programma della casa editrice Einaudi e al programma dell’Adelphi. Certo, io ho imparato moltissimo nei dieci anni che sono stato da Einaudi, dal ’51 al ’61: ho imparato il mestiere. Io avevo fatto già qualche anno prima, anzi parecchi anni prima, un’altra esperienza, durata molto poco a causa della guerra, per quella casa editrice che Adriano Olivetti voleva fare preparandosi dopo la caduta del fascismo, quindi con un programma molto importante, in cui il consulente fondamentale era Roberto Bazlen, ma che durò solo due anni perché poi ci disperdemmo dopo l’8 settembre del ’43. Quindi, io fondando la casa editrice Adelphi volevo fare delle cose diverse da quelle che venivano fatte da Einaudi: quindi, non c’è una filiazione dal punto di vista del programma. Semplicemente ci sono io che sono un tramite, in quanto prima lavoravo in Einaudi.[63]

Se il contenuto della dichiarazione è già rilevante di per sè, ad amplificarne l’importanza è anche l’ambito nel quale l’intervento andava a inserirsi: la registrazione era stata realizzata nel 1993 in occasione del compimento dei sessant’anni della Einaudi. Luciano Foà, «collegato per telefono da Milano», dichiarava pubblicamente in presenza dell’amico-editore di voler fare una netta distinzione tra il processo di fondazione dell’Adelphi e quello della casa editrice di Paolo Boringhieri: se infatti quest’ultima risultava come emanazione diretta delle collane scientifiche della Einaudi, lo stesso non lo si poteva dire per l’Adelphi, che era nata per dare spazio alle idee inattuali di Bazlen in totale assenza di un fil rouge che la facesse discendere dal programma dell’editore torinese. Pur consapevole e grato dell’esperienza accumulata nel corso degli anni cinquanta come segretario generale, Foà considerava quel capitolo della propria vita professionale chiuso definitivamente nel 1961, rifiutando con fermezza la concezione di sé e della propria casa editrice come un semplice e puro prolungamento derivato dalla casa dello Struzzo, della quale, piuttosto, si riteneva un «tramite». Quella che Foà aveva messo in atto in Paesaggio con figure era una rivendicazione dell’originalità e della paternità del progetto editoriale a cui lui e Bazlen avevano dato luce: Adelphi.

Estratto-sintesi dalla tesi di Davide Siano Luciano Foà: le motivazioni del passaggio dall’Einaudi all’Adelphi, relatore Prof. Roberto Cicala, Università degli Studi di Pavia, anno accademico 2022-2023.

[1] Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, programma andato in onda su Rai Tre il 10 maggio 1986. Il servizio fu realizzato nella sede Rai di Torino dal regista Bruno Gambarotta e coordinato e curato, in collaborazione con Gambarotta, da Cesare Dapino.

[2] U. Buzzolan, Einaudi. Biografia della casa editrice che segnò un’epoca, in “La Stampa”, 10 maggio 1986. Da qui i riferimenti utili all’identificazione della trasmissione e le successive citazioni.

[3] Trascrizione dell’intervento inedito di Luciano Foà in Biografia di un catalogo (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).

[4] L’abbandono definitivo del progetto, comunicato a Colli da Einaudi nell’autunno 1961, sarebbe stato poi discusso nella riunione editoriale del 24 gennaio 1962. L’incontro aveva visto presenti: Antonicelli, Bobbio, Bollati, Caprioglio, Castelnuovo, Einaudi, Fonzi, Lanternari, Serini, Solmi e Venturi. Di seguito si riporta l’intervento verbalizzato di Solmi: «Questione del Nietzsche. Serini è per il sì. (Lunga discussione pro o contro). Non lo facciamo. Il Consiglio raccomanda alla Direzione di fare tutto il possibile per sganciarsi»: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, Einaudi, Torino 2013, p. 532. In una testimonianza raccolta in A. Sofri, Federico il pendolare, in “Panorama”, 22 febbraio 1987, Foà sembrerebbe alludere alla riunione del ’62: «Nel luglio del 1961 io lasciai la Einaudi; seppi poi che di lì a poco c’era stata una discussione in un “mercoledì” einaudiano, conclusa con la decisione di lasciar cadere anche la traduzione delle opere già in cantiere. Ne rilevammo noi i diritti. Un anno e mezzo dopo la comparsa del primo libro Adelphi, uscì, nel 1964, il primo volume delle opere di Nietzsche».

[5] Nell’intervista rilasciata a U. Costamagna in Tenacia, costanza e coerenza furono le sue peculiarità. A colloquio con Luciano Foà della casa editrice “Adelphi”, in “Il quotidiano di Lecce”, 9 febbraio 1980, alla domanda se la mancata pubblicazione fosse stata dovuta alla paura di Giulio Einaudi o dei suoi collaboratori «di spostare la casa editrice troppo a “destra”», Foà avrebbe risposto: «Ritengo di no. La risposta negativa data da Einaudi era forse giustificata dalla vastità del compito e dal gravoso impegno finanziario che richiedeva»: FAAM (a indicare d’ora in poi la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano), Giorgio Colli, b. 26, fasc. 022 (1980). Sempre sulla questione economica Foà si espresse anche in altri suoi interventi: in R. Barbolini, Fratelli di carta, in “Panorama”, 7 gennaio 1994, p. 94: «[Dopo la proposta di Colli di un’edizione critica di tutta l’opera di Nietzsche] Einaudi si spaventò, proprio per la portata economica dell’impresa»; in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi, in “La Stampa”, 8 dicembre 1990: «A orientare negativamente Einaudi non ci fu solo il veto ideologico di Cantimori […], ma anche i forti costi dell’operazione»; in A. Sofri, Federico il pendolare: «La mole dell’impresa cresceva, e con essa il rilievo culturale, ma anche l’impegno finanziario e politico. Einaudi non se la sentì, e con Colli fu la rottura». Si segnala che alcuni degli articoli che verranno citati sono stati raccolti in Adelphi. Editoria dall’altra parte, Oblique studio, Roma 2016.

[6] Ci si riferisce qui all’articolo pubblicato da Cesare Vasoli in cui lo storico della filosofia si era opposto ai progetti editoriali promossi da Giorgio Colli dell’edizione critica di Nietzsche (Einaudi) e della collana “Enciclopedia di autori classici” (Boringhieri) in quanto considerati «una nuova fuga dalla realtà e dalla storia», degli ostacoli al tentativo della «parte più viva della cultura filosofica […] di inserirsi nel processo vitale dello sviluppo storico del paese»: cfr. C. Vasoli, A che servono i filosofi in Italia, in “Itinerari”, n.49, maggio 1961 (VIII), p. 97: cfr. G. Campioni, Leggere Nietzsche. Alle origini dell’edizione critica Colli-Montinari, ETS editrice, Pisa 1992, pp. 63-64. A sentirsi coinvolto direttamente nella critica di Vasoli vi era stato anche lo storico Delio Cantimori, che in una lettera di apologia avrebbe ribadito con forza la necessità di una conoscenza storica di Nietzsche, astenendosi però dal conferire al filosofo tedesco una piena legittimità letteraria: cfr. Lettera di Delio Cantimori a “Itinerari” del settembre-ottobre 1961, in D. Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari 1967, pp. 88-97.

[7] Nell’approcciarsi alla raccolta degli scritti postumi di Nietzsche – il Nachlass –, fin dai primi giorni di consultazione a Weimar Montinari avrebbe riscontrato il problema delle lacune e delle interpolazioni filologiche che la sorella del filosofo, Elisabeth Förster-Nietzsche, aveva arbitrariamente compiuto nella Grossoktav-Ausgabe (Leipzing 1895 sgg.), l’edizione canonica in diciannove volumi delle opere complete nietzschiane da cui sarebbero dipese direttamente tutte le altre edizioni precedenti quella Colli-Montinari. Con la fondazione dell’archivio di Weimar e la promozione dell’opera del fratello, Elisabeth Nietzsche si era resa responsabile della manipolazione in senso ideologico-politico dei documenti del filosofo: in modo particolare, la ricostruzione soggettiva dei frammenti della Wille zur Macht (la Volontà di potenza) avrebbe contribuito per molto tempo ad alimentare la visione nazionalsocialista e antisemita del filosofo tedesco.

[8] Il germanista e consulente einaudiano Cesare Cases, in un ricordo di Montinari, avrebbe così riferito sul caso Nietzsche: «Il consiglio editoriale, composto in massima parte da marxisti e da liberalsocialisti, aveva forti riserve ideologiche, non tanto contro il nome di Nietzsche quanto contro l’idea di pubblicarne l’opera omnia da mettere accanto a quella di Gramsci, come se fossero classici che avevano militato sotto la stessa bandiera»: C. Cases, Il granduca di Weimar. Ricordo di Mazzino Montinari, Belfagor, Firenze, 31 maggio 1987, p. 336; cfr. G. Campioni, Leggere Nietzsche, p. 63.

[9] Citazioni di Foà rispettivamente in: Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, Rai Tre, 1986; R. Barbolini, Fratelli di carta, 1994; E. Ferrero, Il signore degli Adelphi, 1990.

[10] S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Giulio Einaudi editore, Torino 2018, 3ª ed., pp. 201-202. La prima edizione per i tipi di Theoria risale al 1991.

[11] G. Lukács, La distruzione della ragione, trad. di Eraldo Arnaud, Einaudi, Torino 1959. La proposta dell’opera del filosofo ungherese, in cui si evidenziava la forte correlazione tra la filosofia nietzschiana e l’ideologia dei fascismi europei, era stata avanzata nella riunione editoriale del 1° settembre 1954: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 124.

[12] F. Nietzsche, Considerazioni sulla storia, a cura di L. Pintor, Einaudi, Torino 1943; F. Nietzsche, Ecce Homo, a cura di S. Romagnoli, Einaudi, Torino 1950. Negli anni ’40 era prevista inoltre una traduzione, poi non portata a termine, di Enzo Paci della Volontà di potenza: cfr. A. Banfi, Nietzsche, Colli, Foà: l’azzardo di un’edizione critica e di una nuova casa editrice, Leo S. Olschki editore, Firenze 2015, p. 278.

[13] Intervista a Claudio Rugafiori, «tra i fondatori dell’Adelphi», in P. Di Stefano, L’invisibile maestro dei libri, in “Corriere della Sera”, 9 luglio 2023.

[14] Tratto dal Colloquio con Giulio Bollati, in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, a cura di P. Di Stefano, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2001, pp. 107-133. L’intervista a Bollati è apparsa nel fascicolo D del semestrale di letteratura “Idra”, il Melangolo, dicembre 1991. Per illustrare «il lato più grottesco della faccenda», Bollati ricordava: «Negli stessi mesi in cui ci trovammo a discutere delle opere complete di Nietzsche, arrivò sui nostri tavoli, da un altro consulente, la proposta di pubblicare tutto Nenni…Era stravagante discutere contemporaneamente di Nenni e di Nietzsche, che finimmo per rifiutare entrambi. La coincidenza mi sembra significativa, perché dà un’idea del clima italiano, del clima in cui lavoravamo…». In un’intervista rilasciata lo stesso anno, Bollati riportava alla memoria la riunione in cui era stata avanzata la proposta di Colli: «C’erano Bobbio, Mila, Calvino, Panzieri: uomini che sarebbero dovuti essere accaniti avversari di Nietzsche. Ma non ci fu nessuna battaglia, nessuno si accalorò […]. La verità è che restammo perplessi non tanto perché temessimo di compiere un sacrilegio nei confronti dell’ideologia marxista, quanto perché la cultura torinese era piuttosto restia a considerare Nietzsche un grande pensatore. L’avevamo letto in edizioni secondarie, da bancarella, per noi non era quel che si dice un autore di serie A. Figuriamoci: il vecchio Piemonte, con la sua solida cultura, magari un po’ provinciale, non si metteva certo a tremare come una foglia all’idea di pubblicare Nietzsche». Cfr. intervento di Bollati in M. Assalto, Nietzsche fa ancora paura, in “La Stampa”, 3 novembre 1991.

[15] Nel servizio di Rai Tre Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, rispetto all’edizione proposta da Colli, Norberto Bobbio avrebbe confessato: «Io stesso allora non ero molto favorevole. Nonostante l’importanza storica della filosofia di Nietzsche, [non pot-] avevamo dimenticato che Nietzsche era considerato l’ispiratore di Hitler, del nazismo, a torto o a ragione, diciamo a torto o a ragione: sotto certi aspetti, anche con qualche ragione. So che dicendo questo io suscito un vespaio, ma credo anche in parte a ragione. Non bisogna dimenticare che quando Mussolini fu liberato da Campo Imperatore dove era stato messo in prigione da Badoglio, dal nuovo regime instauratosi in Italia, Hitler lo accolse regalandogli le opere di Nietzsche: insomma, Nietzsche era un simbolo, bisogna riconoscere che era un simbolo. Probabilmente è stato un errore. Oggi possiamo dirlo: è stato un errore». E concludeva il suo intervento commentando l’edizione poi pubblicata da Adelphi: «È uscita questa magnifica edizione, una delle maggiori imprese dell’editoria italiana di questi ultimi anni, questa stupenda edizione di Adelphi, curata da Giorgio Colli».

[16] F. Nietzsche, Epistolario (1865-1900), a cura di B. Allason, Einaudi, Torino 1962. Le Lettere rientrano nell’elenco dei libri decisi durante la riunione del 15 febbraio 1961. La pubblicazione sarebbe avvenuta poco dopo l’uscita di Foà dalla casa editrice e la rottura con Colli: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 479.

[17] G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Giulio Einaudi editore, Torino 2004, p. 146.

[18] Intervento inedito di Luciano Foà in Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo, intervista radiofonica di Elisabetta Mondello a Giulio Einaudi in occasione dei sessant’anni della casa editrice torinese, trasmessa su Rai Radio Tre il 26 settembre 1993 (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).

[19] Sulla scelta “ideologica” di abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi Foà si era espresso in diverse occasioni: «Fondai l’Adelphi, con i consigli di Bobi Bazlen, per rompere la monotonia dell’ideologismo editoriale di sinistra, per scegliere autori che uscissero fuori dai binari codificati di una visione del mondo esosa in senso deteriore. Qui pubblichiamo i libri che più ci piacciono, solo quelli, con rischi e soddisfazioni»: Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi, in “La Stampa”, 20 dicembre 1972; «Intendevamo reagire all’aria del tempo, che era tutta politicizzata e ideologica: naturalmente, altri ci vennero dietro, ci tolsero l’esclusiva. […] Nietzsche, un pensatore così asistematico, così mistificato, si confaceva a noi»: Foà in L. Mondo, Libro come avventura. Uomini rappresentativi dell’editoria, in “La Stampa”, 7 aprile 1976; «Il nostro programma si basava su autori, correnti di pensiero, temi che la cultura italiana di allora, estremamente politicizzata, lasciava deliberatamente al margine». Dall’intervento di Foà trascritto negli atti del convegno Gli anni ’60. Intellettuali e editoria (Milano 7 e 8 maggio 1984), a cura di F. Brioschi, con la prefazione di C. Segre, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1987, pp. 135-138: cfr. A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria in Italia dall’Unità a oggi, Editrice bibliografica, Milano 2018, p. 113; «Mi pare superfluo ricordare qual era non solo il clima culturale italiano negli anni ’50, ma anche le particolari caratteristiche della casa editrice Einaudi, che, pur non essendo strettamente legata ad un’ideologia, pure gli era molto vicino»: Foà in Lo specchio del cielo. Autoritratti segreti raccolti da Maurizio Ciampa prima di un altro lunedì, puntata n. 47 trasmessa su Rai Radio Due nel 1987. Fonte: <https://hubhopper.com/episode/lo-specchio-del-cielo-puntata-47-luciano-foa-e-gianfranco-menotti-1581105906>; «Vorrei tornare un momento sul progetto Nietzsche. Questo progetto rientrava molto bene in un programma generale della Casa Editrice Adelphi che intendeva far conoscere in Italia opere e scrittori che ne erano stati tenuti lontano per vari motivi politici, ideologici, o che pure ci erano pervenuti in modo deformato»: dalla trascrizione integrale dell’intervento di Foà in Modi di vivere: Giorgio Colli. Una conoscenza per cambiare la vita, documentario realizzato nel 1980 per Rai Due da Mauro Misul, regia di Marco Colli (<https://www.youtube.com/watch?v=giPb42wCy3E>). Fonte: FAAM, Giorgio Colli, b. 36, fasc. 001 (Modi di vivere).

[20] Intervista a Luciano Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi. Si riporta di seguito il punto «in cui l’amico Enzo Siciliano ha involontariamente frainteso quel che gli dissi»: «[All’Einaudi] il lavoro non si mescolò più per Foà con gli interessi culturali diretti. La “passione fisica” per i libri restò un fatto privato».

[21] L. Foà, Lettera al Direttore, in “La Stampa”, 29 dicembre 1972.

[22] Intervista a Luciano Foà in S. Giacomoni, Il piacere dell’intelligenza, in “Prima Comunicazione”, novembre 1975. I possibili fraintendimenti potevano sorgere alla lettura del seguente passo: «Oggi forse è più facile capire cosa intenda dire Foà quando parla del “malinconico ideologismo” dei consulenti della casa editrice Einaudi: il passare degli anni ci rende possibile vedere i pregi, e i limiti, di un atteggiamento culturale nato dal sommarsi della politica culturale del PCI, dell’arretratezza di un paese che usciva da vent’anni di fascismo, dell’emarginazione – durante la guerra fredda – della élite che aveva fatto la resistenza. Forse oggi riusciamo a capire meglio come alcune persone (e pensiamo a Bazlen) sapessero, già allora, porsi di fronte ai problemi della cultura e della politica con un’ottica più libera, forse più rischiosa, che non aveva come punti di riferimento obbligatori i “valori” della resistenza, l’antifascismo, gli schieramenti internazionali».

[23] L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate, in “Prima Comunicazione”, dicembre 1975. La lettera di Foà iniziava così: «Cara Giacomoni, la ringrazio molto per il profilo “storico” che ha voluto dedicare all’Adelphi – la cui storia è così breve – sull’ultimo numero di Prima. La ringrazio soprattutto per la sostanziale esattezza delle notizie che vi sono contenute, fatto ormai molto raro e che merita di essere segnalato. Mi preme, tuttavia, chiarire due punti del suo articolo che nella loro formulazione un po’ drastica (dovuta certamente a esigenze di spazio), possono essere fraintese. Sono due punti che riguardano i miei rapporti, e quelli del mio carissimo amico Roberto Bazlen, con la casa editrice Einaudi, ma che hanno forse un interesse più generale»: cfr. A. Ferrando, Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), Carocci editore, Roma 2023, p. 325: in questo volume recentemente pubblicato da Anna Ferrando si evidenziano le fasi cruciali che hanno portato alla fondazione della casa editrice milanese, individuando «le premesse di lungo periodo sin dal ventennio fascista» e i protagonisti di una realtà editoriale che fino a quel momento non era «mai stata fatta oggetto di uno studio storiografico ad hoc».

[24] La difficoltà avvertita da Luciano Foà di esprimersi apertamente sul proprio orientamento politico e culturale fu dettata indubbiamente dalla sua discrezione e dal suo riserbo: una ritrosia che rende difficile, oggi, dare conto dei pensieri effettivi che l’editore aveva elaborato nel corso della sua vita. Si può ricordare, a titolo esemplificativo, che Foà sottoscrisse un appello insieme a «un ampio e qualificato gruppo di esponenti del mondo della cultura milanese, molti dei quali impegnati nel settore dell’editoria, […] contro l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, “riconoscendo nell’istituto del divorzio una conquista democratica intesa alla tutela di inalienabili diritti dei cittadini italiani”» (Più ampio il movimento per respingere l’attacco ad una conquista di civiltà, in “L’Unità”, 5 maggio 1974); aderì all’appello lanciato dalla realtà intellettuale milanese e romana «al mondo della cultura per un voto di rinnovamento, per il voto al PCI» (Nuove importanti prese di posizione di intellettuali per il voto al PCI, in “L’Unità”, 8 giugno 1975); insieme ad altri intellettuali, sottoscrisse l’appello per chiedere quali fossero «le proposte degli economisti per la sopravvivenza ecologica e alimentare dell’Italia», per sottolineare «l’urgenza» che aveva assunto «la questione dell’agricoltura in Italia» e affermare «la necessità di trovare un rapporto diverso, per una nuova condizione di vita, tra città, mondo agricolo e mondo industriale» (R. Stefanelli, Fra alimentazione e agricoltura molto spesso non tornano i conti, in “L’Unita”, 20 dicembre 1977).

[25] Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi

[26] In merito all’interruzione del rapporto con la Einaudi, Foà avrebbe anche affermato: «Su questa scelta sono state scritte spesso inesattezze. Nel ’61, sia per problemi di famiglia legati alla salute di mia moglie che per l’insoddisfazione di non poter sviluppare meglio le intuizioni editoriali di Bazlen, decisi di dimettermi e tornai a Milano»: cfr. R. Barbolini, Fratelli di carta, p. 94. Rispetto alla “questione Nietzsche” come motivazione dell’uscita dall’Einaudi, in un’intervista a Domenico Porzio Foà confessava: «Non è che per me questa sia stata una cosa decisiva, era una delle tante»: FAAM, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio [s.d.]: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2013, p. 304. Nell’intervista rilasciata a E. Ferrero in Il signore degli Adelphi, la «leggenda editoriale» (così definita da Ferrero) che adduceva come ragioni della separazione dall’Einaudi i «contrasti sull’opportunità di pubblicare le opere di Nietzsche» sarebbe stata screditata da Foà. Ciononostante, è interessante notare come lo stesso Ferrero, in un successivo articolo in memoria dell’editore scomparso, avrebbe posto ancora il rifiuto di Nietzsche come «innesco per la nuova impresa dell’Adelphi»: cfr. E. Ferrero, Foà l’editore al futuro, in “La Stampa”, 26 gennaio 2005.

[27] Dal Colloquio con Giulio Bollati, in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, pp. 114-115.

[28] Ibidem. Si presume che «la proposta Nietzsche» – avanzata ufficialmente da Giorgio Colli nel 1958 e tuttavia ascritta da Bollati a un momento successivo rispetto all’uscita di Foà dalla Einaudi nel luglio 1961 – si riferisse alla discussione della riunione editoriale del 24 gennaio 1962 in cui si decise unanimamente di non pubblicare le opere complete del filosofo tedesco (così come ricordato dallo stesso Foà in Biografia di un catalogo).

[29] Foà intervistato da G. Ziani in Scrisse sempre. Ma non finì mai…, in “Il Piccolo”, 14 aprile 1993: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 54. Nell’intervento in Bobi Bazlen: uno special di Tuttilibri, regia di Aldo Grasso, trasmesso su Rai TV Rete Uno il 1° giugno 1983, Foà aveva ricordato come le lunghe passeggiate per le vie del centro durante il soggiorno milanese di Bazlen prima del suo trasferimento definitivo a Roma avessero rappresentato «un’opera pedagogica che lui esercitò su di me in quel periodo, facendomi riconoscere come più veramente mie molte idee e concezioni generali della vita che erano in realtà sue. Ad ogni incontro io scoprivo sempre di più il tesoro sconfinato delle sue letture, e anche il modo nuovo che lui aveva di parlare di libri». Alla fine degli anni trenta il primo autore indicatogli dall’amico triestino era stato Kafka. Tra i consigli di libri da leggere e da proporre agli editori italiani che Bazlen gli aveva segnalato nell’ambito del proprio lavoro per l’ALI – l’Agenzia Letteraria Internazionale, fondata dal padre di Luciano, Augusto Foà, nel 1898 – l’editore aveva ancora impressi in mente i nomi di Broch, Traven, Powys, Güiraldes, Ortega e Keyserling, alcuni poi confluiti nel repertorio adelphiano. Il documentario è stato gentilmente fornito dalla famiglia di Luciano Foà.

[30] Con riferimento agli interventi di Foà in: L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate: «L’altro punto che volevo precisare riguarda i rapporti di Bazlen, nella veste di consulente – e direi “morganatico” – con la Einaudi, rapporti tenuti soprattutto da me e, dopo la mia uscita dalla casa, per breve tempo da Daniele Ponchiroli»; Bobi Bazlen: uno special di Tuttilibri: «Rapporto consulenziale […] un po’ morganatico, in quanto i rapporti passavano attraverso di me, e poi attraverso quella carissima persona che era Daniele Ponchiroli»; Lo specchio del cielo: «Voglio dire che questa consulenza di Bazlen presso la Einaudi fu una consulenza morganatica direi».

[31] «Lontane da ogni forma di anonima compilazione di giudizio redazionale-editoriale, queste lettere, nel loro peculiare stile epistolare, riflettono piuttosto quel suo completo disancoraggio dalle incasellature teoriche, dalle mode culturali». Si tratta di valutazioni che passavano da «una percezione istintiva dell’esatto valore di un testo, giudicato, dapprima, mediante il metro elusivo della propria sensibilità […] e misurato, poi, secondo un preciso parametro critico che inserisce il testo letto all’interno di un’ampia prospettiva culturale». Data «la tendenza a ricercare d’intravedere sempre l’uomo nello scrittore», a rintracciare in ogni singolo libro «una correlazione, intimamente avvertita come autentica, tra espressione letteraria e realtà umana corrispondente», risulta facile «comprendere il perché della sua contrarietà all’opera omnia in quanto tale. E, di contro, il suo favore verso quei testi» in cui intuiva, «dietro una valida espressione letteraria, un’autentica verità interiore»: M. La Ferla, Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, Sellerio, Palermo 1994, pp. 63-64. Cfr. R. Bazlen, Lettere editoriali, a cura di R. Calasso e L. Foà, Adelphi, Milano 1968; ora in R. Bazlen, Scritti, Adelphi, Milano 1984.

[32] Si pensi a I sonnambuli di Broch, Ferdydurke di Gombrowicz, Olivia di Olivia, Le canzoni di Narayama di Fukazawa, Il Sosia di Mattioni, Lo spazio letterario di Blanchot, e ad autori come Henry Miller, Bruno Schulz, W.C. Williams, Ramón Sender. Cfr. L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate; M. La Ferla, Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, pp. 68-72.

[33] Foà avrebbe citato più volte la lettera inviatagli da Bazlen il 12 giugno 1951 dedicata a R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, 3 voll., Rowohlt, Berlin 1930-1943 (trad. it. L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1964): cfr. R. Bazlen, Scritti, pp. 273-279. «Non era certo un parere senza i pro e senza i contro, ma era talmente diverso dai pareri che venivano dati normalmente e così fondamentalmente convincente che fu decisa la pubblicazione di questo libro» (Foà in Lo specchio del cielo).

[34] Conversazione inedita tra Einaudi e Foà in Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo. Oltre a Bobbio, a nutrire dubbi sull’opportunità di una pubblicazione dell’opera (soprattutto per la sua mole) vi erano stati anche altri consulenti; è interessante notare come alla fine degli anni ottanta Einaudi avesse ricordato L’uomo senza qualità soltanto attraverso il giudizio negativo di Cantimori, che «con stizza annotava, nel ’52, che l’aveva già letto nel 1936, e che allora gli “sembrò pesante e noioso”»: cfr. G. Einaudi, Frammenti di memoria, Rizzoli, Milano 1988, p. 155.

[35] Rispettivamente, Foà in: R. Barbolini, Fratelli di carta, p. 94; Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo. A essere «inattuale» sarebbe stato anche il programma della casa editrice Adelphi (Cfr. Gli anni ’60. Intellettuali e editoria, p. 137).

[36] Non si può dimenticare come il sodalizio tra Bazlen e Foà avesse affondato le sue radici nelle Nuove Edizioni Ivrea, il progetto editoriale in cui entrambi erano stati coinvolti negli anni quaranta da Adriano Olivetti: un’iniziativa che allora non era riuscita a concretizzarsi, ma dal cui intento sarebbe partita l’Adelphi: «Bisognava superare il blocco culturale provocato dal provincialismo italiano e consolidato dal fascismo, rotto appena, negli anni trenta, dalla “scoperta” degli Americani»: Foà in L. Mondo, Libro come avventura. Uomini rappresentativi dell’editoria.

[37] Informazioni tratte dall’intervista di Vittorio Graziani ad Anna Foà, figlia di Luciano Foà, in Tre libri. A casa di Anna Foà, “Libreria Centofiori”, 20 giugno 2023 in: <https://www.youtube.com/watch?v=xKD1NLhl44A> (ultima consultazione: 1° marzo 2024).

[38] «Caro Bobi, se fossi vissuto anche solo fino al 1966 avresti visto […] una cultura spontanea cosmopolita, come sarebbe piaciuto a te, che non amavi i provincialismi e tutti quegli eccessi delle identità nazionali. E che l’Oriente, e soprattutto l’India sarebbe diventata una meta necessaria, l’I Ching un oracolo di massa, e dal Tao alla Baghavad Gita a Siddharta, Lo Zen e il tiro con l’arco e 101 storie Zen, libri di culto per una generazione»: A. Foà, Lettere a Bobi in Bazleniana, Acquario, Torino 2022, p. 219. Bazleniana raccoglie una serie di scritti di vari autori dedicati alla figura di Bazlen, nonchè i disegni tratti dal diario che l’intellettuale aveva redatto durante il percorso psicanalitico intrapreso con l’amico Bernhard. La casa editrice Acquario (uno dei nomi favoriti prima che si optasse per “Adelphi”) è stata fondata da Anna Foà e da Marco Sodano nel 2019, sotto il nume tutelare di Bazlen.

[39] La situazione dei piccoli editori, intervista radiofonica inedita a Luciano Foà per Piccolo Pianeta. Rassegna di vita culturale, trasmessa il 19 marzo 1971. Canale di trasmissione Rai non definito (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano). Premesso un divario sempre più profondo e «grave» tra le grosse-medie case editrici e le piccole, l’editore individuava, sostanzialmente, due punti in cui i piccoli editori si trovavano svantaggiati nei confronti dei grossi, ovvero le possibilità in termini di «distribuzione» e di «pubblicità». Dal punto di vista della distribuzione, le grandi case editrici disponevano quasi sempre di organizzazioni proprie oppure si valevano di distribuzioni esterne sostenute da gruppi di promotori alle loro dirette dipendenze; per i piccoli editori, invece, non esistevano che le piccole organizzazioni, quasi sempre famigliari, presenti sul territorio italiano, che – aggiungeva Foà – «geograficamente è molto difficile da raggiungere, anche per un certo frazionamento dei centri maggiori, dei centri cittadini». Nell’evidenziare la rilevante differenza di possibilità di raggiungere il pubblico, l’editore si mostrava sorpreso della mancata costituzione, in Italia, di «un’organizzazione di distribuzione che faccia questo lavoro per un numero notevole di piccoli editori». L’elemento pubblicitario, a cui le grandi case editrici potevano adire con maggiore profusione in virtù delle proprie disponibilità finanziarie, si rivelava naturalmente precluso ai piccoli editori. Non agevolava, in tal senso, l’assenza di un organo stampa esclusivamente dedicato alle recensioni di libri e all’informazione su tutte le novità librarie, come alcune riviste esistenti all’estero: un veicolo che, rivolto a un «pubblico che desidera e vuole essere informato», avrebbe rappresentato sicuramente un luogo più adatto ed economico per la pubblicità dei piccoli editori.

[40] Cfr. S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 6. Su questa affinità di “funzione-editore” conviene anche A. Ferrando in Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), p. 92. È interessante osservare come all’inizio degli anni ottanta Foà riscontrasse «uno stato di incertezza» nel mercato librario, che prendeva forma «in quel tipo di editoria che fa libri fungibili, dove un libro può sostituire l’altro per un pubblico indifferenziato, senza faccia, che vien fuori dalle indagini di mercato»; aggiungeva infine che «l’editoria “in grande” pubblica certi libri non perché piacciano a chi li sceglie, ma perché si crede che piaceranno al pubblico senza faccia»: dall’intervista di Foà in G. Dossena, L’editoria è in crisi, ma si fanno troppi piagnistei, in “Tuttolibri”-“La Stampa”, 18 luglio 1981.

[41] «Scittori di romanzi di contenuto […] in cui prevale un interesse per le idee, per il mondo futuro, per lo sviluppo del mondo nell’avvenire, che porta poi a romanzi come Il mondo nuovo di Huxley, di fanta-ideologia»: intervista inedita a Luciano Foà per il programma televisivo Tuttilibri condotto da Giulio Nascimbeni, puntatata trasmessa su Rai Uno il 29 maggio 1978 (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).

[42] Foà riteneva che la qualità maggiormente rilevabile mostrata dallo scrittore fosse, infatti, la sua «facoltà mimetica»: una mimesi che, nel caso in questione, si riduceva «allo sforzo d’immaginazione» adoperato da Morselli di «immedesimarsi» col protagonista, al punto da arrivare a una vera e propria «identificazione del protagonista con l’autore». Altra caratteristica annessa era l’«elemento dello scavo psicologico», ovvero l’«autoanalisi che il protagonista conduce su sé stesso e che è in fondo un’autoanalisi di Morselli», con «tutte le sue complicazioni, i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi interessi, che vanno anche ben al di là della letteratura». «Un vero autoritratto, che può costituire in un certo senso l’antefatto dell’ultimo libro di Morselli, che pure con altra risonanza e altri accenti è fortemente autobiografico, Dissipatio». Cfr. G. Morselli, Un dramma borghese, Adelphi, Milano 1978; id., Dissipatio, Adelphi, Milano 1977.

[43] R. Calasso, Bobi, Adelphi, Milano 2021, p. 78.

[44] B. Grasso, A reflection about my great-grandfather Augusto Foà and his son (my grandfather) Luciano Foà, in “Hook Literary Magazine”: <https://www.hookliterarymagazine.com/lessico-familiare> (ultima consultazione: 29 febbraio 2024).

[45] V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 2.

[46] Dichiarazione di Foà nella già citata intervista di Domenico Porzio.

[47] FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, 24 maggio 1961.

[48] «Capisco le tue ragioni, d’altra parte ogni prospettiva che cercassi di porti d’innanzi potrebbe in queste condizioni essere soltanto un palliativo, obbligandoci a ritrovarci in altrettanto drammatica situazione fra un anno o due. Per quanto riguarda il tuo lavoro a Milano, comprendo il tuo desiderio di un lavoro editoriale autonomo. Non so – lo dico francamente – come questo possa inserirsi nel quadro del programma editoriale della Casa editrice, avendo questa, come ben sai, una nota gelosia di mestiere. […] Comunque, ogni proposta tua concreta nel senso di un tuo lavoro esterno ci troverà tutti pronti a discuterla per trovare una formula di intesa di comune soddisfazione. […] Mi auguro solo che questo lungo periodo lasci in te un buon ricordo, se non altro di amicizia e di esperienza umana e di lavoro. Per me e per la Casa editrice è stata una collaborazione preziosa. Ti abbraccio»: FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Giulio Einaudi a Luciano Foà, Torino, 7 giugno 1961.

[49] Intervista a Foà in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi.

[50] Foà in Lo specchio del cielo: «Devo dire che su questa questione dei classici io avevo già spezzato una lancia ai tempi in cui ero in Einaudi, ma la cosa non ebbe esito».

[51] Sulla passione di Foà per la memorialistica, che avrebbe poi trovato spazio nell’Adelphi: «Mi piacciono le autobiografie, gli epistolari, libri che in Italia non hanno pubblico» (in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi).

[52] Foà in Lo specchio del cielo.

[53] Cfr. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 842.

[54] Einaudi in S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 66.

[55] È rilevante notare come lo stesso Giulio Einaudi associasse espressamente il ruolo del segretario generale a quello di «direttore editoriale» in S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 126.

[56] FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, 13 giugno 1961.

[57] Intervista a Foà in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi.

[58] Nel delineare la storia della casa editrice Adelphi è interessante osservare come per Foà questa fosse stata concepita idealmente come un «luogo in cui i rapporti tra coloro che vi lavoravano tendessero il più possibile a essere orizzontali anziché verticali, dove l’aria che circolasse fosse decente. Doveva essere e rimanere una casa editrice di modeste proporzioni per evitare le scelte meno felici che un aumento dei titoli fatalmente comporta»: cfr. Gli anni ’60. Intellettuali e editoria, p. 137. Ci si chiede quanto queste dichiarazioni non fossero legate all’esperienza decennale in Einaudi. Si veda, a tal proposito, uno scambio Foà-Einaudi di appunti manoscritti in testa al verbale sommario delle riunioni, di poco precedenti le dimissioni, del 19 e 26 aprile 1961, e del 10 e 19 maggio 1961: Foà: «Prego approvare, o no, queste decisioni»; Einaudi: «Le decisioni sono sempre valide». Cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 486.

[59] Con queste parole Italo Calvino suggeriva prudenza a Giulio Einaudi in merito alle proposte editoriali di Bazlen: lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi, New York, 22 novembre 1959, in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Arnoldo Mondadori, Milano 2000, p. 617: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 246. Va ricordato come Calvino avesse contribuito, sul finire degli anni cinquanta, al rifiuto della “Collezione dell’Io”, formulazione finale di una serie di proposte di Bazlen per una nuova collana einaudiana: il nome della collezione “bocciata” è attestato per la prima volta in una lettera di Foà a Bazlen del 1° aprile 1960. Fonte: Archivio storico Giulio Einaudi Editore presso Archivio di Stato, Torino (d’ora in poi, AE), incart. Bazlen. Sulla storia delle collezioni “grande”, “piccola” e “dell’io”: V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, pp. 222-273.

[60] Le nostre speranze, intervista di Paolo Di Stefano a Giulio Einaudi in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, p. 99 (uscita originariamente sul “Corriere della Sera” il 6 agosto 1994 e poi riscritta ad hoc seguendo la successione originaria delle domande).

[61] La «rivista internazionale immaginata alla fine degli anni cinquanta da tre gruppi di scrittori appartenenti a tre diverse nazioni», da considerarsi «l’unica rivista europea del secondo dopoguerra» in quanto «interamente progettata, scritta e redatta da una redazione francese, una italiana e una tedesca»: cfr. M. Belpoliti, E. Grazioli, Gulliver, in “doppiozero”, 21 maggio 2012 in: <https://www.doppiozero.com/gulliver> (ultima consultazione: 22 febbraio 2024). Sulla storia della rivista si segnala Gulliver. Progetto di una rivista internazionale, a cura di A. Panicali, Marcos y Marcos, Milano 2003.

[62] Lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, Milano, 16 aprile 1962, copia dattiloscritta, AE, sezione dell’archivio dedicata alla corrispondenza in ordine alla collana “I gettoni”, cartella 12, fascicolo 760 (Luciano Foà). È interessante osservare come nella primavera del ’62, a pochi mesi dall’abbandono della casa editrice torinese, Giulio Einaudi prediligesse affidarsi ancora a Luciano Foà per le sue capacità di consulenza aziendale e di gestione contabile in merito a un’iniziativa dalla portata culturale come “Gulliver”. Un impianto, quello della rivista, che era ancora a uno stadio iniziale e al quale Foà si accostava fornendo a Vittorini – con cui, negli anni cinquanta, aveva collaborato alla collana dei “Gettoni” – il proprio aiuto, su esplicita richiesta dell’editore.

[63] Intervento inedito di Luciano Foà in Paesaggio con figure.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Un libro-itinerario tra sedi e protagonisti delle case editrici

Per il volume di Roberto Cicala pubblicato dal Mulino anteprima in Università Cattolica a Milano prima di un tour di presentazioni per l’Italia: tra storia, personaggi, curiosità e architettura in Andare per i luoghi dell’editoria le vicende culturali delle città italiana dei libri

Vita e Pensiero - Università cattolica - i luoghi dell'editoria

Andare per i luoghi dell’editoria è un libro-itinerario di Roberto Cicala sulle sedi delle maggiori case dei libri, molte milanesi, in uscita per Il Mulino: anteprima mercoledì 8 maggio a Milano, alla libreria Vita e Pensiero, in largo Gemelli 1, alle ore 17,45, con lo storico del libro Edoardo Barbieri e il direttore editoriale Aurelio Mottola in dialogo con l’autore, editore e docente universitario. L’evento è promosso da Laboratorio di editoria dell’Università Cattolica e Creleb. A seguire presentazioni in vari sedi italiane, dal salone del libro di Torino al Gabinetto Vieusseux di Firenze, dall’Antico Caffè San Marco di Trieste al parco Villa Filippina di Palermo.

QUI UNA PAGINA CON SCHEDA, SELEZIONE DELLE RECENSIONI E BIBLIOGRAFIA DEL LIBRO

Un capitolo del volume è dedicato alla Milano tra ’800 e ’900 quando scrittori ed editori scoprono fama e guadagno con i libri: tra Scala e Monte Napoleone gli editori di Leopardi e Manzoni, tra molte edizioni pirata) aprono all’Italia letteraria accolta in casa Treves, a cominciare da Verga, senza dimenticare i manuali Hoepli per una Milano industriale in crescita. Una sezione è poi dedicata a Mondadori, Rizzoli e Feltrinelli, «il presidente, il commendatore e il rivoluzionario» con aneddoti sulla battaglia a tre sul fronte dei tascabili economici durante il boom economico. Un altro capitolo segue le strade di una Milano divenuta capitale della lettura: s’ inizia dal periodo tra le guerre con Bompiani, Garzanti e i libri per ripartire, quindi il mondo degli studi nella capitale delle university press, prima di tutte Vita e Pensiero, con piccoli e grandi sigle tra letteratura e mercato, tra Scheiwiller, Il Saggiatore, Adelphi e gruppo GeMS, con uno spazio ai piccoli lettori nella grande città e uno sguarda dagli anni ’60 al Duemila in una «BookCity» da Adelphi alla Nave di Teseo.

Le case editrici sono luoghi dove non sono previste visite guidate, che è possibile fare in queste pagine per scoprire dove nascono i libri che amiamo grazie all’incontro di persone, idee, storie ed emozioni. Dai sestieri lagunari di Manuzio alle gallerie del centro storico di Milano, dalla Mole di libri torinesi tra Gobetti, Einaudi e don Bosco alla Bologna di Zanichelli e del Mulino (che nel 2024 compie 70 anni) e fino alla Firenze dei caffè scelti dai poeti per le riunioni di redazione, e ancora dalla Roma di politica e santità alla Napoli delle bancarelle, alla Bari laterziana e alla Palermo della “Memoria” è un itinerario dietro le quinte delle fabbriche dei best seller tra uffici, ville, open space e librerie. Un volume che mancava con una mappa del come e perché si produca tanto sapere in tutta la penisola: è una bibliodiversità che rispecchia la variegata identità dell’Italia di oggi, di cui le case editrici sono uno specchio veritiero tra carta e digitale.

Roberto Cicala è docente all’Università Cattolica di Milano ed editore di Interlinea. Collaboratore di riviste e quotidiani, ha pubblicato per il Mulino I meccanismi dell’editoria. Ha curato inediti di Rodari, Rebora e Vassalli e saggi sulla storia di Einaudi, Mondadori, De Agostini, Vita e Pensiero e altri editori.

«Il fatto che si chiamino “case” la dice lunga sull’importanza dei luoghi in cui si cucinano le parole per renderle le più appetibili e gustose al palato degli ospiti, cioè i lettori, dentro il piatto dei libri. In gergo è detto davvero “cucina” il lavoro di redazione: è ciò che capita dietro le quinte dei libri per farli nascere. A partire dalle sedi più rappresentative questo viaggio in Italia tenta di tracciare una piccola storia dell’editoria italiana attraverso alcuni marchi consolidati la cui aura permea molti luoghi. È il racconto di un campione di sigle che hanno plasmato l’identità culturale della nostra nazione mediante i gusti e le scelte di editori protagonisti o di letterati editori, due categorie che non sono del tutto tramontate», scrive l’autore nell’introduzione.

Dopo l’anteprima milanese le prime presentazioni di Andare per i luoghi dell’editoria di Roberto Cicala saranno sabato 11 maggio alle 10,30 al Salone del libro di Torino con Irene Enriques, Giovanni Hoepli e Giuseppe Laterza e venerdì 17 maggio ore 17,30 a Firenze al Gabinetto Vieusseux di palazzo Strozzi con Franco Contorbia e Cristina Nesi.

Il libro: Roberto Cicala, Andare per i luoghi dell’editoria (Il Mulino), pp. 192, con fotografie, euro 14
https://www.mulino.it/isbn/9788815388735

 La scheda del libro in pdf: CICALA_Luoghi-editoria_RITROVARE L’ITALIA_Mulino


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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ChatGPT e l’editoria: l’algoritmo ha un’anima? https://editoria.letteratura.it/chatgpt-e-leditoria-lalgoritmo-ha-unanima/ https://editoria.letteratura.it/chatgpt-e-leditoria-lalgoritmo-ha-unanima/#respond Mon, 01 May 2023 09:43:32 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8822 Torna disponibile in Italia ChatGPT, il più popolare chatbot, un software che grazie all’intelligenza artificiale elabora conversazioni scritte o parlate permettendo di interagire con ogni dispositivo digitale come quando si comunica con persone reale, ma in più aiuta a scrivere articoli o testi in uno stile corretto, fare ricerche complesse, risolvere problemi matematici e programmare […]

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Torna disponibile in Italia ChatGPT, il più popolare chatbot, un software che grazie all’intelligenza artificiale elabora conversazioni scritte o parlate permettendo di interagire con ogni dispositivo digitale come quando si comunica con persone reale, ma in più aiuta a scrivere articoli o testi in uno stile corretto, fare ricerche complesse, risolvere problemi matematici e programmare tramite l’utilizzo di un potentissimo motore di AI che elabora miliardi di dati e fonti in pochi secondi. Per capire che cosa comporta l’Intelligenza artificiale alla portata di tutti rispetto all’editoria e alla cultura abbiamo raccolto alcune risposte di Roberto Cicala, docente di editoria libraria e multimediale in Università Cattolica, editore e autore di I meccanismi dell’editoria edito dal Mulino in cui si accenna all’impatto della digitalizzazione nella comunicazione editoriale. 

La tecnologia dell’Intelligenza Artificiale con ChatGPT riuscirà a coprire ogni ricerca e gestione delle informazioni che ci servono?
Siamo di fronte a un’innovazione che crea fascino: pensiamo al milione di utenti nei primi dieci giorni e al gran dibattito in corso. È uno strumento che utilizza algoritmi avanzati di apprendimento automatico per generare risposte simili a quelle umane, con ricerche complessissime di contenuti in pochi secondi: è in qualche modo un generatore di linguaggio, che accorpa informazioni con un’operazione di cultura formidabile ma meccanica, diversa dalla conoscenza umana profonda, dal sapere dell’esperienza e della tradizione.
Come ha scritto Alessandro Carrera in uno stimolante pamphlet pubblicato da poco, Sapere, è la dimostrazione che oggi si può essere informati di tutto senza sapere nulla. Potremmo dire però che è una forma di democratizzazione della cultura, quindi con molti punti positivi.

Ci sono aspetti del lavoro editoriale che non potranno mai essere sostituiti dalla tecnologia oppure tutto sarà asservito all’AI?
Se pensiamo al lavoro editoriale, che è una mediazione culturale tra autori e lettori, non basta avere uno stile corretto e far ricerche di tipo nozionistico.
Per esempio: la letteratura è scarto dalla norma, è cambiare direzioni, partire da una cosa per arrivare a un’altra, sulla base di informazioni della vita interiore e non solo presenti sul web. La persona umana è fatta di mente e cuore e inconscio, la macchina è fatta di algoritmi.
La sfida è allora connettere le diverse competenze per arrivare a comprenderle non secondo una logica univoca.
Non serve avere più informazioni ma interpretarle per vivere meglio.

Ormai l’Intelligenza Artificiale è necessaria, soprattutto nella gestione dei contenuti e della comunicazione editoriale. Quindi che cosa sta cambiando e ci sono dei pericoli?
Ogni attività si sta smaterializzando ma non da oggi (e probabilmente in futuro, come è stato detto, non dovremo neppure toccare lo schermo dei nostri dispositivi per interagire con loro) ma non possiamo farci nulla.
Sono d’accordo con chi dice che l’immutabile legge della tecnologia impone che i suoi doni non si possano rifiutare: possiamo scappare ma ci rincorrono. E non è sempre un male. Come non è così negativo che ChatGTP decreti la fine dei temini scolastici facendoci comprendere che la formazione e l’e-learning deve attraversare nuove frontiere, spingendoci a capire che più dell’algoritmo e dell’informazione nozionistica conta la riflessione legata all’esperienza. Credo che la nuova app sarà utile per spunti, brain storming e revisioni, perché non potrà fare tutta la mediazione intellettuale necessaria per un contenuto editoriale o formativo complesso.
Però pericoli ce ne possono essere se non c’è un filtro critico, come nei vari massmedia d’un tempo e nei social di oggi, perché anche il web ha un lato oscuro, non dimentichiamolo.
Comunque l’algoritmo non ha un’anima e neppure un inconscio. L’editoria e i libri, di carta o di bit, sì, e perché ogni tecnologia ci può migliorare e cambiare, senza essere succubi delle macchine.

 

Tratto da dichiarazioni su Linkedin

 


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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La casa editrice Tallone: una “bottega rinascimentale” del libro https://editoria.letteratura.it/la-casa-editrice-tallone-una-bottega-rinascimentale-del-libro/ https://editoria.letteratura.it/la-casa-editrice-tallone-una-bottega-rinascimentale-del-libro/#respond Mon, 12 Sep 2022 16:20:48 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8715 La storia della casa editrice Tallone, un unicum nel panorama italiano, in cui ancora oggi ogni libro viene composto interamente in caratteri mobili. La casa editrice Tallone si presenta come un mondo a sé stante. La cura e la speciale dedizione che accompagnano la nascita di ogni singolo libro vanno a trasformarlo in qualcosa di […]

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La storia della casa editrice Tallone, un unicum nel panorama italiano, in cui ancora oggi ogni libro viene composto interamente in caratteri mobili.

La casa editrice Tallone si presenta come un mondo a sé stante. La cura e la speciale dedizione che accompagnano la nascita di ogni singolo libro vanno a trasformarlo in qualcosa di più di un semplice oggetto a stampa: usando le parole di Gianfranco Contini, esso è un «individuo nuovo»,[1] un essere quasi dotato di vita propria, che vibra della stessa energia e passione che anima la famiglia Tallone da più di mezzo secolo. Quello che rende particolarmente interessante e privilegiata la testimonianza talloniana è la volontà di rimanere fedeli non solo alle proprie origini, con un occhio di riguardo a quanto il fondatore Alberto ha voluto trasmettere fin dagli anni di apprendistato a Parigi.[2] Quelle che i Tallone hanno a cuore sono le origini dell’editoria stessa. La scelta di un’impostazione che privilegia la manualità e la totale assenza di industrializzazione del processo tipografico sono prove di grande ricchezza interpretativa e profondità. In questo modo i classici della letteratura europea vengono dotati di «bellezza formale, leggibilità e grande forza espressiva»[3] e brillano all’interno del panorama dell’editoria contemporanea, legata «allo standard industriale della composizione meccanica e alle font elettroniche».[4]

Il fondatore Alberto Tallone: da «più felice  degli operai» a «grande stampatore»

Si può parlare della casa editrice Tallone come di una rappresentazione di quella che era l’antica bottega rinascimentale, dove il libro veniva progettato, stampato e venduto. Tenendo in considerazione ciò, non stupisce che il fondatore Alberto venga definito come personalità che ha riunito in sé le figure di editore, stampatore e libraio, esattamente come accadeva secoli fa. La sua storia è esemplificatrice di un percorso di vita all’insegna della cultura e della passione per l’oggetto-libro, dove la volontà di raggiungere i propri obiettivi si allinea alla necessità umana di seguire e realizzare i propri sogni.

Alberto Tallone nasce il 12 febbraio 1898 a Bergamo, all’interno di una famiglia numerosa (sarebbe arrivato a contare quattro fratelli e ben sei sorelle). I natali sono quanto più favorevoli per l’elevatezza culturale che caratterizza i genitori: il padre, Cesare, è un pittore, fregiato di numerosi riconoscimenti e apprezzato per le sue qualità di ritrattista e paesaggista. L’Esposizione Nazionale delle Belle Arti, svoltasi a Roma nel 1883, segna una svolta nella sua vita, sia per l’acquisizione per tremila lire del suo Trionfo del Cristianesimo da parte del principe Marcantonio Borghese, sia per l’incontro fortuito con Eleonora Tango. Di dieci anni più giovane di Cesare, la donna, di nobile origine partenopea, nota per la sua sensibilità e cultura, con particolare predisposizione per la poesia, rimane affascinata dal pittore, tanto che i due di lì a qualche anno convolano a nozze e si trasferiscono a Bergamo (dove Cesare aveva ottenuto il ruolo di Direttore presso l’Accademia Carrara[5]).

Nonostante l’assenza relativamente costante del marito – l’attività della pittura unita all’insegnamento tengono Cesare lontano da casa – Eleonora riesce a combinare l’amore per la poesia con il suo pressoché perenne stato interessante (dieci figli su undici vengono messi al mondo tra il 1889 e il 1898) e con una famiglia che di anno in anno si fa sempre più numerosa e bisognosa di cure e attenzioni. I suoi sforzi saranno ricompensati dal profondo affetto filiale e addirittura da una “consacrazione letteraria” ad opera di Alberto stesso: egli infatti ritroverà, anni dopo la scomparsa di Eleonora, due sacchetti di iuta pieni di foglietti volanti, dove la madre era solita appuntare pensieri e versi. Ammirato dalla straordinaria serenità con cui ella aveva affrontato una quotidianità non facile, sia dal punto di vista economico che affettivo (infatti perse quattro figlie in età precoce, con Cesare non ebbe mai un rapporto facile e anzi dovette sopportare la scoperta di una relazione extraconiugale del marito e della presenza di due figli, accolti poi in casa da Eleonora stessa), Alberto deciderà di realizzare due poesie con i foglietti della madre e di stamparli. Sulla plaquette datata 1946 comparirà anche un ricordo toccante della figura di Eleonora, da sempre fondamentale per la formazione culturale e umana dei figli:

Questi [i figli], nei versi della Madre rivivono una vita familiare che, governata dall’arte, spesso contraria alle realtà quotidiane, fu ardua e ineguale. Mamma Tallone visse i suoi sacrifizi, educò i figli nelle asprezze e nelle gentilezze della vita, assorta in un rapimento lirico. Versava amore e dolore in parole di poesia schietta. L’instabilità di un’esistenza pellegrinante disperse le carte della sua confessione.[6] Queste poesie si sono salvate: la Mamma pensava di affinarne ancora l’espressione. Quali sono, i figli vi ascoltano un messaggio benedicente. Uno di questi, il tipografo, piamente le stampa.[7]

È interessante come all’interno di questa citazione Alberto si autodefinisca con tranquillità «tipografo», senza sentire il bisogno di sottolineare o motivare questa denominazione. In effetti sin dall’infanzia egli coltiva la sua passione per la letteratura e per il mondo della cultura, senza nessun tipo di freno; e non è il solo. Tutti i figli Tallone dimostrano una particolare propensione per questo o quell’aspetto del mondo artistico e più genericamente legato alle scienze umane: tre sorelle sposano giovani intellettuali molto attivi durante gli anni venti del Novecento, letterati, critici d’arte e docenti di filosofia – e non si può trascurare l’aneddoto della storia d’amore “mancata” tra Ponina Tallone e Cesare Pavese, incantato dalla bravura al piano della giovane e dalla sua intelligenza, ma amaramente rifiutato da lei –. I quattro figli maschi seguono la strada artistica a loro più affine: da Ermanno, detto Chicco, che sceglie l’antiquariato, a Cesare Augusto, che porta la passione per il pianoforte a livelli tali da arrivare a costruirli e ad accordarli, al più celebre Guido, che segue le linee paterne affermandosi come pittore celebre a livello europeo (si sa di contatti con Kokoschka e Paul Klee), fino ad Alberto.

Egli sperimenta la strada del teatro, debuttando nel 1916 accanto a Paola Borboni con Il fior della vita, ma ha nel cuore i libri. La sua passione da bibliofilo lo porta ad aprire la biblioteca antiquaria di via Borgonuovo a Milano, dove ha come socio Walter Toscanini, figlio del celebre direttore d’orchestra Arturo. Nonostante il favore con cui il panorama culturale milanese lo accoglie (grazie al nome celebre del padre ma anche alle prospettive positive offerte dal cognato e critico d’arte Enrico Somaré), gli introiti della libreria a malapena coprono le uscite, a causa della tendenza smodata all’acquisto di Alberto: in lui, più che il commerciante, prevale il collezionista. Inoltre si sente sempre più oppresso in quella volontà di fare, di intervenire in prima linea nella creazione dei libri; fare da intermediario tra essi e i compratori non gli basta. Per questo motivo, dopo una quindicina di anni di attività, decide di abbandonare la sicurezza milanese e «di avviare i primi passi, con l’umiltà di un garzone di bottega, lungo la strada per cui si sentiva portato»[8]: arriva nel 1932 a Parigi, più precisamente a Châtenay Malabry, per apprendere l’arte della stampa presso la tipografia di Maurice Darantiere.[9]

Gli esordi sono promettenti: il vecchio maestro tipografo non si pente di aver accolto sotto la sua ala un apprendista ormai non più giovane (Alberto ha già trentuno anni quando arriva in Francia), e d’altronde il fatto che egli si sia presentato presso di lui con una lettera di presentazione firmata dalla celebre Sibilla Aleramo ha sicuramente contribuito. Lo stesso Alberto dimostra di non essere mai stato più felice in vita sua, come si può capire dalla sua prima opera tipografica: si tratta di una lettera, esemplare unico, inviata alla madre Eleonora il 9 settembre 1932, pochi mesi dopo l’inizio del suo apprendistato.

Cara mamma,
il Signor Darantiere è molto buono, le ore passano nella sua stamperia velocissimamente.
I compagni di lavoro sono dei pazienti maestri. Darantiere mi farà comporre un volumetto che sarà tirato a soli sei esemplari; nell’achevé d’imprimer sarà scritto: «M. Tallone a composé le texte». Questa lettera è stata da me composta con caratteri Caslon corpo 20.
Scrivi spesso al più felice degli operai: il tuo figlio
Madino[10]

Il «volumetto» di cui Alberto parla alla madre è effettivamente minuscolo, di appena tredici pagine di testo; si tratta di La vie de Sainte Thays pénitente escrite par un ancient auteur grec; ogni esemplare della ridottissima tiratura è dedicato ad personam e, nonostante manchi la data (anche se dalle fonti che abbiamo il 1932 sembra l’anno da prendere in considerazione), è interessante come invece sia presente nel colophon la dicitura «Ce livre a été composé aux ateliers de la Vallée aux Loups[11] chez Maurice Darantiere par Alberto Tallone»: insomma, anche se non proprio con lo stesso rilievo auspicato, Madino mantiene la promessa fatta a Mamma Tallone.

La prima esperienza significativa, da considerare come il primo progetto editoriale di ampio respiro, arriva nel 1933 quando, grazie alla collaborazione di Léon Pichon,[12] Alberto inaugura la collana “Maestri delle Umane Lettere editi da tipografi artisti”: è chiara in questa idea la volontà di esaltare ogni nazione europea con opere edite in maniera accurata e precisa nel dettaglio, con la collaborazione dei professionisti più celebrati. Non a caso Alberto sceglie la Vita Nuova dantesca come primo esemplare della collana, un’opera dove si possono già riscontrare «l’eleganza architettonica dell’impaginazione, l’equilibrio tra spazi e pieni, l’estrosa armonia dei rapporti tra prosa e versi, tra tondi e corsivi; la generosa libertà distributiva dei margini»[13] che ancora adesso caratterizzano la produzione talloniana. Alberto riconferma la sua passione per la letteratura italiana presentando come secondogenito della collana i Canti di Giacomo Leopardi,[14] edito stavolta in collaborazione con il maestro Darantiere. È dopo qualche anno, nel 1938, che quest’ultimo capisce di aver trovato nel «più felice degli operai» il suo degno erede: l’officina passa nelle mani di Alberto, nella nuova sede parigina dell’Hôtel de Sagonne.[15]

La collana nel frattempo si amplia: Alberto dedica le sue attenzioni oltre che ad autori italiani come Foscolo e Parini[16] anche a Keats, del quale stampa le Odi, e a Racine e alla sua Phèdre. È soprattutto grazie a quest’ultima opera che il quasi quarantenne Alberto viene proiettato nel panorama culturale ed editoriale della Parigi contemporanea. Il responsabile di questo salto di qualità è un grande poeta francese, Paul Valéry:[17] egli stesso racconta di essersi fermato, mentre si incamminava verso l’Accademia di Francia, davanti a una libreria sulla Senna, pieno di stupore e incanto. «Era esposta, in grande formato e stampata a caratteri molto belli, una pagina intera di versi. Si produsse allora, tra me stesso e quel nobile frammento di architettura, uno scambio singolare».[18] Il poeta sentì in quel momento il bisogno di conoscere chi fosse il fautore di tanta perfezione stilistica, tale da essere definita «architettura»: è così che entra in contatto per la prima volta con Alberto, con il quale si complimenta per l’ottima edizione del testo in vetrina (per l’appunto la Phèdre) e al quale chiede di collaborare. «Dopo qualche anno i nomi del maestro di pensieri e del maestro di segni […] apparivano congiunti in un libro di nivale bellezza, degno del nome che portava in fronte: L’Ange».[19]

La fama raggiunge Alberto come un fulmine: viene apprezzato non solo come valido membro della società letteraria parigina, ma anche come solido punto di raccordo tra due diverse culture, da sempre sorelle: quella italiana e quella d’oltralpe. Purtroppo, allo stesso modo, il fulmine colpisce l’editore-tipografo in un modo che non avrebbe mai potuto prevedere: il 10 giugno 1940 le truppe fasciste invadono Parigi. Alberto, essendo italiano in terra francese, con lo svantaggio di essere conosciuto pubblicamente, viene prelevato con facilità e rinchiuso nel campo di concentramento per “stranieri indesiderabili” a Le Vernet, vicino ai monti Pirenei.[20]

La fortuna gli arride, dopo tre mesi di detenzione Alberto viene rilasciato e può riprendere a pieno ritmo la sua attività tipografica a Parigi,[21] nonostante le restrizioni e le difficoltà legate al regime nazista. La passione per il suo lavoro e per quanto aveva lasciato a Parigi, assieme a una forte empatia, lo avevano accompagnato anche all’interno del campo di prigionia; Pallante riporta un aneddoto legato a quel momento.

Nei pochi minuti che gli furono concessi per radunare un po’ di effetti personali [prima di essere trasferito a Le Vernet], per deformazione professionale mise nella valigia alcuni ritagli della carta che si era fatta appositamente confezionare per La Divina Commedia, di cui aveva appena finito di stampare l’Inferno. Quei ritagli di carta, che recavano impresso in filigrana il nome di Dante, si rivelarono di un’utilità insperata, poiché servirono per ricavare delle cartoline postali con cui i prigionieri italiani del Vernet riuscirono a far avere notizie di sé alle loro famiglie in patria.[22]

Alberto non si era curato del costo o del prestigio della carta, aveva fatto ciò che da sempre gli veniva spontaneo: aiutare il prossimo, con generosità e altruismo.

La guerra colpisce duramente anche i fratelli dell’editore-tipografo: addirittura una sorella, Emilia detta Milini, viene uccisa assieme alla figlia Allegra sotto le macerie di un’ala della casa di Alpignano, distrutta da un bombardamento.[23] Questo avvenimento, unito ad altre perdite familiari (prima fra tutti Eleonora),[24] non impedisce però ad Alberto di continuare il lavoro intrapreso, la missione che si è prefisso. Il contatto con Valery prima e con la società letteraria parigina poi raffinano il suo gusto, lo portano a cercare una precisione e una eleganza differente da quella degli altri editori. L’obiettivo si fa sempre più chiaro: si deve raggiungere una perfezione formale mai vista prima.

Si parte dalla carta: deve essere sempre di puro straccio, con un pH neutro, resistente all’usura; l’assenza della pasta di legno e di additivi chimici avrebbe prevenuto l’ingiallimento delle pagine. Alberto richiede solo carte realizzate artigianalmente, quasi dotate di anima e voce, in grado di conservare la parola scritta e sopravvivere al proprio autore – e al proprio editore –.[25] Dalla carta di Rives alla Fabriano, dalla Imperiale giapponese alla carta impalpabile proveniente dalla Cina: le carte vengono scelte come se si avesse a che fare con delle stoffe.

L’inchiostro, categoricamente nero (rarissime e discrete le eccezioni colorate), è denso, pieno, senza riflessi lucidi; si adatta con naturalezza ai caratteri voluti dall’editore-tipografo, anch’essi eleganti e sobri, precisi al dettaglio. I preferiti di Alberto sono il Caslon e il Garamond, che saranno di grande ispirazione per il carattere disegnato e voluto in esclusiva per sé, il Tallone o Palladio.[26]

«Che il bello potesse convogliare il vero, fu un’idea che nacque in lui spontaneamente, e al limite inconsciamente»:[27] così Gianfranco Contini definirà quanto era accaduto in Alberto, quale era stata la sua volontà da quell’istante e per tutto il resto della sua vita (commemorata in Un saluto ai Tallone). Il critico entra in contatto con l’editore-tipografo grazie all’Ange valeriano (di cui ammira «la bellezza formosa», come scrive in una lettera del 1946)[28] e rimane al suo fianco per un progetto dai presupposti monumentali: il Canzoniere di Petrarca, pensato nel 1948 (in vista del sesto centenario della morte di Laura) e edito l’anno successivo. La scelta di contenere l’intera opera in un volume unico in 4° e di comporla in carattere Garamond su carta filigranata con il nome del poeta[29] ben si adegua alla cospicua Nota al testo di Contini, curatore dell’edizione. L’accoglienza del progetto è delle migliori: Giuseppe Ungaretti, scelto per presentare l’opera presso la Galleria dell’Obelisco a Roma, la descrive in una recensione come «Petrarca monumentale» e la eleva al livello di «miracolo»,[30] mentre Hernest Hatch Wilkins[31] scrive ad Alberto: «The volume reminds me of the finest of early Petrarch incunabula».[32]

L’anno successivo, il 1950, è anch’esso molto propizio, non solo da un punto di vista prettamente editoriale. Volendo realizzare un volume su Leonardo da Vinci architetto, Alberto approfitta dell’amicizia tra il fratello Cesare Augusto e il custode del Castello leonardesco per chiedere di esaminare, nel mese di giugno, la documentazione qui conservata. Non può ovviamente sospettare quello che gli sta per accadere.

Il giovane curatore ha una sorella, Bianca. Una ragazza semplice: ha appena concluso le scuole, sta iniziando a insegnare. Una quinta elementare. Quando entra nel museo manca poco a mezzogiorno. Per le due Alberto le ha già chiesto di sposarla. Per convincerla, la invita a Firenze, dove ha organizzato una mostra. Bianca come Alice, si muove fiabesca con gli occhi grandi tra i personaggi che hanno fatto la storia e la cultura: Sibilla Aleramo, Giorgio La Pira, Montale e la Mosca… Due mesi dopo, è sposata a Parigi.[33]

La novella sposa Bianca Bianconi in Tallone si dimostra sin da subito anima affine ad Alberto: sarà sua compagna di vita e di lavoro negli anni a venire. È sotto i migliori auspici che vengono messi al mondo, di lì a qualche anno, Aldo e Enrico;[34] quest’ultimo riceve una particolare benedizione da Mario Bergamo:[35] «se tu seguirai la stella sotto la quale sei nato, i tuoi invidiabili genitori, non fallirai a glorioso porto, lungo il mare di questa vita che impazza in cecità e nell’assurdo».[36]

Bergamo è in realtà solo uno dei numerosi frequentatori della stamperia parigina di Alberto, divenuta nel corso degli anni punto di ritrovo per intellettuali e politici, artisti e personaggi di spicco non solo nel panorama francese, ma anche a livello internazionale. La coppia di neosposi riceve le visite assidue dei già citati Giuseppe Ungaretti e Gianfranco Contini, di Eugenio Montale, di registi come Luchino Visconti e Vittorio De Sica, di artisti come Giorgio De Chirico, Gino Severini, Filippo De Pisis. Il filosofo Jean Zafiropulo cura l’edizione di molti classici greci; il Cardinale Giuseppe Angelo Roncalli, in questo momento nunzio apostolico a Parigi,[37] ama esaminare e collezionare i libri che escono dalle mani di Alberto e Bianca, che si fa sempre più esperta del mestiere del marito.

Il futuro papa Giovanni XXIII apprezza molto il lavoro di Alberto e l’immagine dell’Italia che viene trasmessa ai francesi, e non è il solo: nel 1954 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi trova il tempo, durante una visita di Stato, di recarsi dall’editore-tipografo e di visitare la tanto rinomata stamperia. È in questa occasione che viene conferita ad Alberto l’onorificenza di Grande Ufficiale al merito della Repubblica italiana, in virtù dell’opera di riconciliazione tra la Francia e l’Italia, dopo le lacerazioni della guerra, attraverso la cultura.[38]

A questo punto però Alberto prende una decisione all’apparenza insensata, ma in realtà animata da principi umanistici e intimi: l’uomo, ormai sessantenne, sente il bisogno di ritornare in patria, di allontanarsi dal chiassoso successo parigino e di tornare ancora una volta alle origini della stampa e dell’editoria. Nella mente e nel cuore ha Alpignano, una casa padronale di proprietà di Mamma Tallone, una tra le più antiche rimaste in città.[39] Vuole trasformarla, renderla perfetta fino al più piccolo dettaglio: come un editore-tipografo rinascimentale che si rispetti, anche Alberto vuole la sua “casa-bottega”.

Per far ciò chiama l’architetto Amedeo Albertini, al quale chiede di mantenere intatta la base settecentesca della casa, ma di rivoluzionarla al suo interno. Così accade: al piano terreno, in un ampio locale arioso e illuminato da vetrate, viene installata la stamperia, mentre il piano superiore è riservato agli alloggi della famiglia. Albertini realizza una vera e propria casa-atelier, con un salto all’indietro di quasi trecento anni.[40]

Il 15 ottobre del 1960 i Tallone inaugurano la nuova officina tipografica: Alpignano si riempie di volti prestigiosi appartenenti all’élite italiana. Luigi Einaudi, accompagnato questa volta dalla moglie Ida e dal figlio Giulio, porta come presente una bottiglia di Dolcetto di Dogliani,[41] non più in veste di Presidente della Repubblica, bensì come amico e ammiratore. Le personalità presenti, intellettuali, giornalisti, librai, apprezzano molto la nuova “casa-bottega” e non pochi paragonano il suo proprietario al grande padre dell’editoria, Manuzio.[42]

È proprio su un altro celebre antesignano della stampa, Gutenberg, il primo volume ufficialmente licenziato dalla nuova officina alpignanese e presentato in questa occasione da Ernesto Lama e Jean Zafiropulo, Gutenberg, inventeur de l’imprimerie di Alphonse de Lamartine.

Questo volume è l’esito e l’espressione di una serie di dati di fatto che hanno avuto particolare significato nella attività tipografica e nella vita stessa di Tallone: egli scelse il testo di Lamartine, tra i tanti che poteva scegliere, e volle pubblicare il volume nella lingua originale francese, persino nelle diciture fuori testo (come il colophon), perché alla Francia doveva gli inizi della sua attività tipografica; e volle che la prima opera ufficialmente stampata nella nuova officina, richiamandosi alle fonti primigenie, rendesse omaggio a Gutenberg, al capostipite della gloriosa famiglia cui Tallone si onorava di appartenere; ha infine voluto che questo testo uscisse il 15 ottobre 1960, in perfetta coincidenza con la data della inaugurazione del nuovo stabilimento in Italia.[43]

L’idea molto originale di servire il rinfresco – una rustica merenda piemontese – tra i banconi e le casse dei caratteri contribuisce all’effetto di straniamento che provano un po’ tutti gli invitati: un vero e proprio ritorno al Rinascimento.

La tranquillità della nuova officina in realtà viene presto turbata dal grande boom economico che colpisce il Piemonte negli anni sessanta: anche la piccola Alpignano vede sorgere in tempi record cantieri, palazzi, negozi che modificano per sempre l’assetto della città e richiamano lavoratori da tutte le parti d’Italia. Ne soffre molto la famiglia Tallone, in particolar modo il fratello pittore di Alberto, Guido, così ispirato e innamorato del panorama alpignanese, ora ostruito dalla modernità; lui è ora in preda alla nostalgia per «il suo, il nostro Alpignano com’era a quei tempi, prima che l’immigrazione in massa e la brutale ottusità dei geometri lo profanassero, lo deturpassero, lo distruggessero».[44] Il parco che circonda ancora oggi la tenuta dei Tallone è un ostacolo per l’espansione edilizia: ai fratelli vengono presentate molte offerte per abbattere il boschetto e mantenere l’abitazione. Ovviamente tutto questo viene rifiutato da Alberto e Guido, che decidono prima di posizionare a fianco della casa una molazza e due locomotive,[45] simbolo della passione per i treni che accomuna i fratelli e metafora della loro irremovibilità; solo l’intervento di autorità sovracomunali, come il prefetto e addirittura il Presidente della Repubblica, permettono di mantenere quella che ancora oggi è una anomalia toponomastica carica di significato.

Il prestigio di Alberto, ormai considerato all’unanimità il più grande tipografo del secolo, lo accompagna anche negli ultimi anni della sua vita: la “casa-bottega” riceve spesso le visite di personalità eccezionali: tra le tante si può citare Pablo Neruda (di cui si parlerà nel capitolo II) e Miguel Ángel Asturias, il quale approfitta della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Venezia nel 1964 per visitare Alpignano e la stamperia.[46]

Sono numerose anche le mostre che vengono organizzate: nel 1963 la mostra Alberto Tallone – Maître Imprimeur all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi[47] ; nel 1965, settimo centenario della nascita di Dante Alighieri, Alberto espone le proprie edizioni dantesche a Roma, Parigi, Londra e, l’anno successivo, a Madrid.[48] Nello stesso anno, Alberto Tallone riceve il Premio Italia tipografica a Bolzano, istituito in occasione del quinto centenario dell’introduzione della stampa in Italia. È il primo di una serie di prestigiose onorificenze: la Medaglia d’Oro al Merito della Cultura e dell’Arte nel 1966, la nomina a Cancelliere dell’Ordine Europeo di Gutenberg nel 1967.

Alberto Tallone muore all’improvviso, a causa di complicazioni insorte dopo un intervento chirurgico, il 25 marzo 1968, sei mesi dopo il fratello Guido, da lui molto amato. Bianca, giovane vedova, non permette però che il lutto e la sofferenza fermino ciò che il marito aveva da sempre nel cuore: la stampa, i caratteri, i libri. Assieme a Aldo e Enrico, ancora piccoli ma tanto volenterosi, riesce a dimostrare la tempra di cui Alberto si era innamorato e l’esperienza che negli anni di officina aveva accumulato; la stamperia e casa editrice Tallone non finisce con Alberto, ma anzi prosegue con prestigio e onore – come dimostra il riconoscimento per il libro più bello del mondo[49] e il Premio del Circolo della Stampa di Torino, entrambi assegnati a Bianca nel 1987 –.

Bianca in realtà non si trova da sola dopo la morte di Alberto: ha al suo fianco collaboratori anziani ma affidabili[50] e gli amici di sempre, i grandi intellettuali che tanto amavano il lavoro del marito e che ora non vogliono che svanisca assieme a lui. È il caso di Pablo Neruda, che invia a Bianca La Copa de Sangre, una raccolta di prose inedite, cui aggiunge in conclusione il commovente Adiós a Tallone in ricordo dell’amico scomparso. Il poeta cileno porge così i suoi omaggi a quello che lui definisce un «grande stampatore»,[51] quella che in fin dei conti è la descrizione migliore della persona che fu Alberto Tallone.

L’attività odierna della casa editrice

Persino la collocazione fisica della stamperia Tallone contribuisce alla magia che avvolge le loro creazioni. In uno spaccato cittadino quotidiano, come può essere la via Diaz ad Alpignano (in provincia di Torino, all’imbocco della Val di Susa), ecco che al numero 9 si presenta all’improvviso un boschetto, messo quasi a difesa delle inconsuete locomotive che troneggiano al fianco dell’edificio, proprietà di campagna dove Eleonora Tango,[52] consorte di Cesare Tallone,[53] era solita portare i figli. Un’ambientazione quasi surreale, che dà l’impressione che un mondo, proprio quello frenetico e rigoroso dell’editoria, abbia voluto prendere una pausa, recuperare quell’aspetto sacrale che circondava l’idea del libro, il quale un tempo aveva caratteristiche tali da elevarlo al rango di oggetto di prestigio e di lusso.

Proprio queste caratteristiche sono rimaste sostanzialmente invariate all’interno della pratica della famiglia Tallone, ad oggi composta dagli eredi di Alberto, il figlio Enrico, la nuora Maria Rosa e i nipoti Elisa, Lorenzo e Eleonora. Una grande perizia tecnica è ciò che caratterizza il lavoro della stamperia, una cura quasi maniacale che riesce a portare in vita esseri unici.

Ogni volume è realizzato a mano, mediante l’utilizzo di caratteri pescati dalle casse tipografiche, come facevano i primi editori tipografi nelle botteghe rinascimentali; un preziosismo che non può e non deve essere considerato simbolo di narcisismo né di arretratezza, bensì si rivela l’elemento di forza di questi testi, elevati grazie alla bellezza del carattere, che porta con sé eleganza e precisione calligrafica. Punzoni disegnati da grandi artisti, passando da Kis a Caslon, ai più recenti Parmentier e Malin, rientrano nella scuderia di caratteri utilizzati, arricchita dal carattere originale Tallone o Palladio.[54]

Il lavoro della composizione richiede grandissima attenzione e cura: lettera affiancata a lettera, parola a parola, riga a riga, con pazienza e tranquillità. Da ciò deriva un fatto all’apparenza banale, ma potente nella sua semplicità: ogni pagina composta è irripetibile, non ne verrà mai realizzata una uguale.

Comporre a mano significa anche essere consapevoli dell’attenzione a tratti folle da rivolgere a certi aspetti. I margini della pagina ad esempio risultano sempre ariosi e ampi senza creare problemi particolari, mentre altri elementi, come gli spazi bianchi tra le parole o l’interlinea, se non calibrati con puntigliosità rischiano di rovinare l’equilibrio armonico della composizione: un lavoro che si riesce a portare a termine solo dopo anni di esperienza e professionalità. Certo è che si cerca di facilitare il processo come si può: si ottiene chiarezza di impaginazione evitando, per quanto possibile, la divisione e il rimando a capo delle parole a fine riga. È sicuramente qualcosa di fuori dalla norma, e «il fatto che ne siano scaturite alcune opere senza un a capo aggiunge soltanto un pizzico di follia che non guasta».[55]

A conferire più prestigio all’oggetto libro che si ha la fortuna di avere tra le mani è la scelta di carta pregiata, proveniente non solo dall’Italia e dall’Europa ma anche da parti del mondo molto più esotiche, come la Cina e il Giappone.[56]

Per quanto riguarda la tipologia del formato, essa normalmente resta su misure perlopiù oblunghe,[57] che quasi ricalcano i caratteri, scelti appositamente per la loro snellezza. Dall’in-quarto grande, quasi in-folio, fino al ventiquattresimo, non si scarta neppure la soluzione intermedia e la sperimentazione, sempre fine all’esaltazione del contenuto dei testi.

Una volta terminato quello che è l’unico passaggio che richiede necessariamente l’aiuto della tecnologia, cioè l’operazione di stampa (che comunque, essendo realizzata mediante una macchina platina Phoenix del 1910, «presuppone sempre un accurato lavoro [manuale] preparatorio e un controllo costante dell’esecuzione»,[58] richiedendo persino l’inserimento dei fogli singoli a mano), si passa alla legatura in brossura a filo refe. Il volume così realizzato viene infatti incollato a una copertina che porta su di sé i dati essenziali dell’opera; scegliere un materiale non rigido è molto funzionale nel consentire un’esperienza di lettura maneggevole, senza però sacrificare la piacevolezza alla vista e al tatto. Ad accogliere definitivamente l’opera è poi la camicia, o chemise, di cartone rigido, a sua volta contenuta in un cofanetto della medesima materia, normalmente carta Ingres (ottima per difendere dalla luce – mortale nemica dei testi – e dalla polvere). Per finire, sul dorso dell’astuccio viene impresso tipograficamente il titolo dell’opera ed eventualmente il nome dell’autore, in verticale o in orizzontale. Non sbaglia affatto Pallante quando definisce i volumi Tallone come dotati della «bellezza biologica delle ostriche».[59]

Ogni esemplare viene numerato ed entra a far parte di tirature limitate: ecco di nuovo l’unicità che denota ogni singolo componente del progetto editoriale talloniano, da sempre caratterizzato da una scelta accurata di classici della poesia mondiale, in lingua originale e in traduzione italiana, i cui autori spaziano dai grandi filosofi greci presocratici agli autori moderni e contemporanei – le cure della famiglia Tallone sono state richieste da personalità come Sibilla Aleramo, Cesare Pavese, Primo Levi, i premi Nobel Pablo Neruda e Miguel Ángel Asturias, i contemporanei Márcia Theóphilo e Alda Merini.[60]

Il risultato ottenuto negli anni tramite queste edizioni a stampa è sempre all’insegna dell’ordine, della misura, si potrebbe dire della pace. La decisione, semplice quanto significativa, di riportare il testo per quello che è, senza adornarlo di fregi, colori e illustrazioni (se non in casi particolarmente eccezionali, si veda l’ultima meravigliosa edizione di Le avventure di Pinocchio di Collodi illustrata da Carlo Chiostri),[61] mette il lettore davanti a opere incisive, da scoprire. Sta a lui presentarsi a questi testi con attenzione, pazienza e amore, non a caso le medesime qualità che ogni singolo testo edito Tallone trasmette da ogni singola lettera stampata.

[1] Gianfranco Contini ad Alberto Tallone, Domodossola, 9 settembre 1946, copia dattiloscritta, Archivio Tallone; da Il bello e il vero: Petrarca, Contini e Tallone tra filologia e arte della stampa, catalogo della mostra con antologia di testi e iconografia, a cura di Roberto Cicala e Maria Villano, EDUCatt, Milano 2012, p. 35.

[2] Cfr. Maurizio Pallante, I Tallone, Libri Scheiwiller, Milano 1989.

[3] Presentazione sul sito della casa editrice Tallone: <http://www.talloneeditore.com> (ultima consultazione 7 dicembre 2015).

[4] Ibidem.

[5] È da ricordare tra gli allievi di Cesare anche Pelizza da Volpedo (1868-1907); prima divisionista, poi esponente principale della corrente sociale, è autore del celebre quadro Il quarto stato (1901).

[6] In origine i sacchetti di iuta di Eleonora erano tre, ma durante un trasloco uno di essi andò smarrito, nonostante l’attenzione della donna.

[7] Eleonora Tallone Tango, Due poesia della mamma, Tallone Editore, Parigi 1957; si noti che nel colophon a piè di pagina compare Madino Tallone, il soprannome dato dai familiari ad Alberto.llllllllldcejbncj

[8] Maurizio Pallante, I Tallone, p. 16.

[9] In realtà, prima di approdare alla bottega di Darantiere, è da ricordare una breve esperienza presso la tipografia di Léon Pichon. Entrambi i professionisti erano stati conosciuti in precedenza da Alberto per le sue frequenti visite parigine con lo scopo di scovare libri antichi per la libreria di Milano. Maurice Darantiere (1882-1962) è passato alla storia per aver stampato nel 1922 l’Ulisse di James Joyce per l’editrice e libraia Sylvia Beach, fondatrice della celebre libreria parigina Shakespeare and Company.

[10] Maurizio Pallante, I Tallone, pp. 16-18.

[11] Vallée aux Loups è il nome della residenza dove aveva sede la tipografia di Darantiere, nota anche per aver ospitato dal 1807 al 1818 il fondatore del Romanticismo francese Chateaubriand.

[12] Editore, stampatore e incisore, nasce nel 1872 e muore nel 1945.

[13] Piero Pellizzari, L’opera tipografica di Alberto Tallone, Tallone Editore, Alpignano 1975, p. 18.

[14] L’edizione, in due tomi nel formato in-folio, composta a mano con i caratteri Didot fusi dalla Fonderie Typographique Française, procura a Tallone l’encomio dell’Accademia d’Italia per l’iniziativa editoriale “Maestri delle Umane Lettere editi da tipografi artisti”, in quanto veicolo d’integrazione tra le nazioni europee. Cfr. < http://www.talloneeditore.com> (ultima consultazione 7 dicembre 2015).

[15] Ancora adesso lo stemma dell’Hôtel è adoperato, anche se in maniera con gli anni sempre più saltuaria, come marca editoriale dai Tallone.

[16] Rientrano nella collana le Poesie del Foscolo, edite nel 1938, e Il Giorno del Parini, edito l’anno seguente.

[17] Nato nel 1871 e morto nel 1945, Valéry è noto come scrittore, poeta e aforista. Divenuto una sorta di “poeta nazionale” dopo la prima guerra mondiale, riceve onori di ogni sorta, tra cui l’ammissione all’Accademia di Francia (celebre per gli scopi di vegliare sulla lingua francese e compiere atti di mecenatismo e per la severissima selezione dei quaranta membri) e la presidenza della commissione di sintesi per la cooperazione culturale per l’Esposizione Universale del 1936.

[18] Paul Valéry, «Phèdre» come donna, in “Varietà”, a cura di Stefano Agosti, Rizzoli, Milano 1971, p. 134.

[19] Ettore Serra, Leggenda del santo tipografo, in Piero Pellizzari, L’opera tipografica…, p. XXXI.

[20] Assieme a Tallone, molti celebri antifascisti italiani furono internati a Le Vernet, come Giorgio Braccialarghe e Francesco Leone.

[21] Sono di questi anni la prima delle tre edizioni della Commedia di Dante Alighieri, i Triumphi di Petrarca e una grande quantità di opere della letteratura francese.

[22] Maurizio Pallante, I Tallone, p. 43 e p. 49.

[23] Era il 4 febbraio 1943. Milini era dotata di grande talento musicale, come Ponina: aveva sposato Oreste Ferrari, letterato e poeta.

[24] Mamma Tallone era in realtà già morta da qualche anno, nel 1938.

[25] Cfr. Carlo Magnani, Ricordanze di un cartaio, Tallone Editore, Alpignano 1961.

[26] Il carattere inglese Caslon fu inciso tra il 1722 e il 1734 a Londra. La sua forma solida e aperta permette di ottenere una esemplare e armonica efficacia d’insieme. È il carattere con cui Alberto realizza le prime composizioni durante l’apprendistato a Châtenay-Malabry. Il Garamond, francese, molto più antico (risale al 1532), è rappresentante al massimo grado di chiarezza latina e umanistica. Alberto Tallone lo adopera per la prima volta nel 1949, iniziando un sodalizio che prosegue ininterrotto ancora oggi. Cfr. Alberto Tallone, Manuale tipografico dedicato all’estetica dei caratteri da testo, dei formati e dell’impaginazione, Tallone Editore, Alpignano 2008. Per il carattere Tallone o Palladio si veda il capitolo III.

[27] Gianfranco Contini, Un saluto ai Tallone, in Maurizio Pallante, I Tallone, p. 10.

[28] Gianfranco Contini ad Alberto Tallone, Domodossola, 9 settembre 1946, copia dattiloscritta, Archivio Tallone; da Il bello e il vero…, p. 35.

[29] Tallone scrive a Contini di «aver comandato una carta bellissima, la migliore che si possa fabbricare, una carta bianca velina con la filigrana p e t r a r c a»; in Alberto Tallone a Gianfranco Contini, 26 gennaio 1948, copia dattiloscritta, Fondo Contini presso Fondazione Ezio Franceschini, Certosa del Galluzzo.

[30] «Nella stampa del Canzoniere del Petrarca, vigilata da un critico dell’acuità di un Contini, Tallone ha superato se stesso»; in Giuseppe Ungaretti, Il Canzoniere di F. Petrarca a cura di G. Contini, in “Il Popolo”, Roma, 4 maggio 1950; ora con il titolo Un’edizione monumentale in Id., Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Mondadori, Milano 1974.

[31] Docente alla Harvard University dal 1906 al 1912, Wilkins (1880-1966) è autore di consistenti studi su Francesco Petrarca (Petrarch’s eight years in Milan, Mediaeval Academy of America, Cambridge, Mass. 1958; Petrarchʼs later years, ivi, 1959) e di The invention of the sonnet and the other studies in italian literature, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1959.

[32] Ernest Hatch Wilkins a Alberto Tallone, 18 aprile 1950, copia dattiloscritta, Archivio Tallone; da Il bello e il vero…, p. 51.

[33] Andrea Kerbaker, Bianca Tallone, in “Il Foglio”, 30 novembre 1999.

[34] Aldo Tallone nasce nel 1951 e muore, stroncato da un aneurisma, ad appena 39 anni. Enrico, nato nel 1953, si occupa ancora adesso in prima persona della stamperia ad Alpignano assieme a moglie e figli.

[35] Mario Bergamo (1892-1963), ex-deputato del Parlamento italiano, si avvicina molto alla stamperia dell’Hôtel de Sagonne e ad Alberto condividendo la medesima sorte di emigrato in Francia (Bergamo però, a differenza di Alberto, si rifugia a Parigi per motivazioni antifasciste).

[36] Maurizio Pallante, I Tallone, p. 59.

[37] La famiglia Tallone conserva ancora un biglietto autografo del futuro papa Giovanni XXIII, risalente alla prima visita dell’allora Cardinale in rue des Tournelles nell’agosto del 1947. Esso riporta: «Mgr Ange-Joseph Roncalli Archeveque tit. de Mesembria. Nunce Apostolique. Al nobilissimo e caro Alberto Tallone, già stampatore fuoriclasse, rinnovo il mio vivo compiacimento per i successi finora ottenuti e l’augurio cordiale di sempre più copiose e nobili affermazioni di buon gusto italico in terra di Francia». In occasione della stampa dell’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis nel 1953, Alberto adopera il nuovo carattere Tallone con la benedizione del beato che, secondo la testimonianza di Bianca, «talora assisteva alla stampa e leggeva le bozze con molta attenzione e fu felice quando ebbe in mano quest’opera a lui tanto cara». Anche durante il pontificato Roncalli rimane in contatto con la famiglia Tallone: l’ultimo incontro, mancato a causa della improvvisa scomparsa del papa, si sarebbe dovuto tenere in occasione del concerto in Vaticano del pianista Arturo Benedetti Michelangeli, di cui Cesare Augusto Tallone, fratello di Alberto, era accordatore. Cfr. Piero Scapecchi, Un beato correttore. Giovanni XXIII e i Tallone, in “Biblioteche oggi”, 4 (2001), pp. 42-44.

[38] Si tramanda un curioso aneddoto: il Presidente si immedesima a tal punto nell’osservare le novità librarie presenti in stamperia che dimentica su un tavolo, congedandosi, gli occhiali, assolutamente indispensabili a Einaudi per leggere i discorsi ufficiali che avrebbe tenuto di lì a poco all’Eliseo. La situazione viene risolta dall’intervento di un pronto gendarme che, a bordo di una motocicletta, si precipita da Alberto per recuperare i preziosi occhiali.

[39] Si narra che, nel corso della campagna d’Italia (1796-1797), Napoleone Bonaparte abbia riposato per una notte proprio in questa casa, all’epoca appartenente al sotto-prefetto del distretto di Susa Antonio Jaquet.

[40] Si potrebbe dire che Alberto ha tagliato i ponti con la Francia, quasi letteralmente: infatti il treno merci su cui è posto il carico di materiale tipografico e libraio, quaranta tonnellate di peso, che doveva arrivare ad Alpignano riesce giusto in tempo ad attraversare il Ponte di San Luigi alla frontiera tra Mentone e Ventimiglia; immediatamente dopo i piloni del ponte crollano a causa delle infiltrazioni d’acqua provocate dalle piogge ininterrotte dei due mesi precedenti.

[41] Cfr. Armando Torno, La tipografia dei Tallone, un carattere per il futuro, in “Corriere della Sera”, 10 ottobre 2010.

[42] Può bastare come esempio il telegramma inviato ad Alberto da Giovanni Ansaldo, direttore di “Il Mattino” di Napoli, che non è presente all’inaugurazione: «Vostro maestro Manuzio, aprendo sua stamperia at Venezia, mentre stava per calare Carlo VIII scriveva at amico dubitoso per barbarie tempi: “Uomo non est nato per piaceri indegni, ma per pratiche che lo onorino” Stop Voi, tempi nuova barbarie, inaugurate nuova stamperia Stop Che la parola di Aldo sia augurale per voi».

[43] Piero Pellizzari, L’opera tipografica…, pp. 133-134.

[44] Testo inedito del 1976 del musicista Carlo Pinelli. Per Guido Tallone cfr. Fernando Rea, Guido Tallone, 1894-1967, Galleria d’arte, Bergamo 1987.

[45] Detta anche mola, questo pesante arnese è adoperato per fare la carta di stracci; l’esemplare presente ad Alpignano è omaggio della cartiera Burgo di Maslianico. Per le locomotive si veda il capitolo II.

[46] Anche Asturias, come Neruda, aiuta Bianca dopo la morte di Alberto dandole da stampare i suoi Sonetti veneziani. Poeta, scrittore, giornalista e drammaturgo originario del Guatemala, vince il premio Nobel nel 1967.

[47] Tra le novità esposte, i Vangeli, nella nuova traduzione di Claudio Zedda e, in anteprima mondiale, Sumario di Pablo Neruda, pubblicato in lingua spagnola.

[48] In particolare, la mostra a Roma, presso la Libreria Antiquaria Querzola, apre con una conferenza di Giorgio Petrocchi sulla storia delle edizioni dantesche attraverso i secoli. La mostra Special Editions of Dante’s Works published by Alberto Tallone presso l’Institute of Italian Culture di Londra vede la partecipazione di Pablo Neruda in persona.

[49] L’esposizione Schönste Bücher aus aller Welt (I libri più belli del mondo), svoltasi nel mese di settembre a Lipsia, vede la presenza delle Poesie di Foscolo edite da Tallone, a cui viene assegnato il premio d’onore della giuria.

[50] Lavorano ad Alpignano in questo periodo il proto Mario De Nicola e lo stampatore Domenico Abaclat.

[51] Pablo Neruda, Addio a Tallone, in La Coppa di Sangue, traduzione italiana di Giuseppe Bellini, Tallone Editore, Alpignano 1997.

[52] Eleonora Tango in Tallone, madre di Alberto, nasce a Torino nel 1864 e muore a Milano nel 1938.

[53] Il padre di Alberto, Cesare Tallone, nasce a Savona nel 1853 e muore a Milano nel 1919.

[54] Cfr. “Tipo Italia”, 2 (2009), pp. 10-23.

[55] Maurizio Pallante, I Tallone, p. 109.

[56] Negli annali della casa editrice Tallone si possono annoverare la carta di Rives, la Mont-val à la cuve e la Van Gelder Zonen di Olanda (adoperate da Alberto nel periodo parigino); e ancora, la Magnani di Pescia, la Fabriano, la Ventura di Cernobbio, la Amatruda di Amalfi. Dal Giappone arriva la carta Imperiale, dalla Cina esemplari noti per l’impalpabilità. Cfr. ibi, p. 57.

[57] Dal formato più grande al più piccolo: 4° grande (circa cm 25×35); 4° (circa cm 22×34); 8° (circa 19×30); 8° oblungo (circa cm 16×28); 8° album (circa cm 26×19); 16° (circa cm 12×19); 24° (circa cm 10×17); 32° (circa cm 9×15). Cfr. <http://www.talloneeditore.com> (ultima consultazione 7 dicembre 2015).

[58] Maurizio Pallante, I Tallone, p. 111.

[59] Ibidem.

[60] La Aleramo, Pavese e Levi non sono presenti nel catalogo della casa editrice Tallone (disponibile on line), mentre degli altri autori si ritrova: Miguel Ángel Asturias, Sonetti veneziani, Tallone Editore, Alpignano 1973; Márcia Theóphilo, Kupahúba, Albero dello Spirito Santo – Il canto della foresta Amazzonica, ivi, 2000; Ead., Boto, il delfino rosa, ivi, 2012; Alda Merini, Un segreto andare, ivi, 2006. Per il caso di Neruda si veda il capitolo II.

[61] Si fa riferimento a Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Tallone Editore, Alpignano 2014; si tenga presente che la prima edizione fu edita a Parigi nel 1951, senza illustrazioni.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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«Caro Munari, molto belle le copertine per la nuova collana». Munari e la casa editrice Einaudi https://editoria.letteratura.it/8685-2/ https://editoria.letteratura.it/8685-2/#respond Thu, 30 Jun 2022 10:20:50 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8685 La collaborazione tra la casa editrice Einaudi e il designer Bruno Munari raccontata attraverso le copertine dello Struzzo. Gli anni del dopoguerra sono quelli in cui la casa editrice Einaudi consolida la sua presenza all’interno del mercato del libro e lo fa senza perdere quell’indole avanguardistica che ne aveva contraddistinto le origini. La figura, che […]

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La collaborazione tra la casa editrice Einaudi e il designer Bruno Munari raccontata attraverso le copertine dello Struzzo.

Gli anni del dopoguerra sono quelli in cui la casa editrice Einaudi consolida la sua presenza all’interno del mercato del libro e lo fa senza perdere quell’indole avanguardistica che ne aveva contraddistinto le origini. La figura, che potremmo definire come “intellettuale di servizio”, su cui Giulio Einaudi aveva fondato il lavoro della casa editrice viene rinnovata con l’assunzione di nuovi collaboratori: non solo il già citato Vittorini, ma anche Italo Calvino, Natalia Ginzburg – che gravitava già attorno allo Struzzo ma che da qui in poi assumerà maggiori poteri decisionali – e Giulio Bollati, che proprio in fatto di copertine sarà una figura importante per la casa, poiché molte delle scelte grafiche attuate negli anni cinquanta passeranno proprio attraverso di lui (proprio Einaudi ha detto: «c’è stato un periodo in cui le copertine venivano scelte da me, poi la scelta delle copertine divenne prerogativa di Giulio Bollati»[1]).

Un fattore di cui bisogna tenere però conto quando si parla del lavoro editoriale all’interno della Einaudi è l’atmosfera di democraticità in cui questo avveniva, un’atmosfera la cui massima espressione si realizzava all’interno di quel «cervello collettivo»[2] che era il Consiglio editoriale “del mercoledì”. Le riunioni di tale organo vennero istituzionalizzate proprio alla fine degli anni quaranta e sono sempre state oggetto di estrema curiosità per via dell’atmosfera di sacralità che sembrava circondare queste sedute di brainstorming ante litteram. Esse si svolgevano attorno ad un tavolo ovale, all’interno di una stanza con alle pareti intorno tutti i libri Einaudi, e sono state l’officina da cui gli «gnomi»[3] dello Struzzo facevano uscire, con cadenza implacabile, i volumi che costituiscono la storia della casa editrice. Al centro del tavolo potremmo idealmente immaginare un libro – o più libri – mentre ai suoi lati vi erano non solo i consulenti massimi della casa editrice, ma anche i redattori fino ai dirigenti editoriali, amministrativi e commerciali, che erano tenuti a partecipare per dare un giudizio di mercato e di convenienza economica sulle varie proposte editoriali, questo giudizio però non doveva mai scavalcare i meriti rispetto al contenuto (sempre dalle parole di Einaudi: «Questo autore è buono? Non si vende: se è buono, facciamolo lo stesso»[4]). Tutti quanti lavoravano con la consapevolezza di fare qualcosa di importante, in una tensione culturale irripetibile, discutendo di idee e trasformandole in libri: erano queste le occasioni in cui si manifestava l’anima profonda della casa editrice, nonché le occasioni in cui Giulio portava «a un alto grado di produttività il suo equilibrio tra mediazione e fermezza, tra comunanza ideale e dispotismo illuminato».[5]

Questa tendenza al lavoro a più voci si rifletteva anche sulle scelte grafiche, che non erano quasi mai espressione di una singola personalità e anche quando si trattava di personalità affermate nel loro campo e con una forte linea progettuale erano comunque inseriti all’interno di «confronti molto vivaci»[6], da cui usciva fuori poi la forma del libro Einaudi. Capitava dunque che sulle copertine si ascoltassero i pareri anche di chi non era strettamente preposto ad esse, come lo storico direttore commerciale Roberto Cerati oppure, ancora più spesso, vi era un confronto tra grafici esterni e l’ufficio tecnico della casa editrice, rappresentato dall’indispensabile Oreste Molina, l’«orologiaio»[7] di casa Einaudi: grafico interno nonché direttore dell’ufficio tecnico, nato in tipografa e talmente rispettoso del libro da essere attento a tutti i dettagli che potessero minarne in qualche modo la perfezione grafica, talmente scrupoloso da passare le notti a controllare le bozze dei lavori più delicati, poiché non aveva un’alta opinione dei redattori.[8] Di lui Einaudi dice questo: «Un grafico interno lo devi avere, e questo di fatto è stato Oreste Molina, il direttore tecnico: un grande grafico. Però gli innestavo Munari».[9]

Non costituiscono sicuramente un’eccezione a questo metodo di lavoro i grafici dello Studio Boggeri Albe Steiner e Max Huber, approdati ad Einaudi attraverso il filo conduttore di Vittorini. Abbiamo già parlato diffusamente del lavoro di Albe Steiner con “Il Politecnico” nel ‘45, ma vale la pena sottolineare nuovamente come questa esperienza costituì un vero e proprio spartiacque nei confronti di una grafica che con la casa editrice condivideva, oltre a un certo afflato militante, l’idea del libro come strumento di interpretazione del mondo non circoscritto ad un élite; si trattò inoltre di un vero e proprio unicum alla regola di sopra, poiché il disegno della rivista fu frutto esclusivo di Steiner.[10]

Copertine di Lenin di Vladimir Majakovskij e Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed

Copertine di Lenin di Vladimir Majakovskij e Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed nella collana “Politecnico Biblioteca”, progetto grafico di Albe Steiner e Max Huber, Einaudi, Torino 1945.

Il dopoguerra, del resto, vide in questo senso un sensibile avvicinamento tra la casa torinese e il PCI, un rapporto sicuramente non privo di contrasti[11] (“Il Politecnico” anche di questo fu un caso emblematico) ma anche di felici convergenze quali la pubblicazione, nel ’47, delle Lettere dal carcere e, successivamente, dei Quaderni di Gramsci, una conquista per la casa editrice torinese che fu possibile solo grazie alla fiducia di Togliatti: l’esponente comunista trovava infatti la Einaudi degna di interesse per quanto «di non partitico essa poteva fornire, e per la tradizione di libri e lettori che poteva offrire, ma […] non mancava di far percepire anche una vigile attenzione sulla sua produzione».[12]

Insieme al “Politecnico” nacque, distanza di qualche mese, la collana “Politecnico Biblioteca”, che pubblicò una serie di saggi collaterali che completavano l’esperienza della rivista. Uscirono in questa collana titoli come la biografia di Lenin scritta da Vladimir Majakoskij e Dieci giorni che sconvolsero il mondo, il reportage giornalistico di John Reed sulla rivoluzione d’ottobre. Questi volumi, realizzati in collaborazione tra Steiner e Huber, riprendevano lo stile fortemente influenzato dalla grafica della Russia rivoluzionaria che già caratterizzava il “Politecnico”: in sovraccoperta i colori del rosso, utilizzato al limite del virtuosismo, del bianco e del nero si incastravano tra i fotomontaggi e le sperimentazioni tipografiche, mentre per la copertina l’approccio era più essenziale, sfondo bianco e titolo e autore di colore rosso in un corpo piccolissimo.

Copertina di Lavoro per tutti di Henry A. Wallace nella collana “Problemi contemporanei – Nuova serie”, progetto grafico di Albe Steiner e Max Huber, Einaudi, Torno 1946

Sulla stessa scia militante e d’impatto era la sperimentazione dei due grafici con la collana “Problemi contemporanei – Nuova serie”, come nel saggio Lavoro per tutti, ancora una volta di Henry Wallace, dove in copertina appare la fotografia, filtrata di rosso, di una protesta per i diritti del proletariato. Il titolo e il nome dell’autore, di colore blu e in carattere graziato, sono inseriti all’interno della sagoma di un cartellone da manifestante, sovrapposto al resto dell’immagine. Come si vede, vi è per entrambe le collane un largo uso della manipolazione fotografica.

Occorre invece aprire una breve parentesi per quanto riguarda invece “I Gettoni”, collana di narrativa in cui apparvero talenti fino ad allora sconosciuti come Lalla Romano, Beppe Fenoglio e Mario Tobino, diretta da Elio Vittorini dal 1951 al 1958. Testimonianze spesso incerte hanno lasciato intendere che ad occuparsi dell’impianto grafico fosse stato ancora una volta Steiner.[13] Tale confusione è imputabile proprio a quello scambio di idee e competenze che, come abbiamo detto, caratterizzava il metodo di lavoro della casa editrice. In realtà è proprio Giulio Einaudi ad affermare nell’intervista con Severino Cesari che «I Gettoni hanno la grafica di Giulio Einaudi. Posso assicurartelo»,[14] mentre per quanto riguarda l’apporto di Steiner la testimonianza di Massimo Romano lo declassa ad una semplice raccomandazione: «Il nome dell’autore e il titolo in copertina sono collocati sulla stessa linea e non disposti in verticale, come nell’impostazione grafica più diffusa, e stampata in caratteri forti, come raccomandava da Milano Albe Steiner, il disegnatore del “Politecnico”: l’autore in nero, il titolo in colori diversi, per creare un contrasto cromatico con la copertina».[15]

Copertina di La Malora di Beppe Fenoglio nella collana “I Gettoni”, progetto grafico dell’Ufficio Grafico Interno, Einaudi, Torino 1954.

Un consiglio che è stato decisamente accolto e che ha reso i “Gettoni” non solo «la collana sperimentale per eccellenza di casa Einaudi»[16] – nota anche per i risvolti nei quali Vittorini stesso presenta il libro al lettore e instaura con lui un dialogo editorial-letterario – ma anche, con la sua veste grafica disadorna, un capolavoro grafico di agile minimalismo.

Tornando invece brevemente alla collana “Scrittori contemporanei”, indubbio è che durante il suo ultimo periodo di vita essa sarà oggetto delle sperimentazioni di diversi grafici e pittori, con veri e propri slanci d’avanguardia: Guttuso, Cassinari, Morlotti, Hettner e Max Huber. Proprio quest’ultimo, per mezzo dell’ultimo numero della collana, il ventitreesimo, Pierrot amico mio di Queneau, riuscirà a trovare una forma capace di coniugare libera interpretazione artistica e una progettualità che rimandasse a un disegno più ampio e caratteristico. Questa forma traghetterà la collana nelle nuove vesti dei “Coralli”, diventandone il primo dei quattro storici impianti grafici.[17]

Infine, per completare il quadro, è necessario presentare un’altra personalità che ha reso grande la Einaudi, ovvero il sopracitato Roberto Cerati, approdato per caso in casa editrice nel ’45 accompagnando Vittorini, Huber e Steiner, che conosceva anche per aver fatto da strillone del “Politecnico” in Piazza Duomo,[18] diverrà il direttore commerciale storico della casa editrice per poi succederà a Giulio Einaudi come Presidente dopo la morte del fondatore.

Anche dal punto di vista commerciale e promozionale la Einaudi è sempre stata all’avanguardia, distinguendosi con trovate innovative in grado di dar vita a un lettore fatto a immagine e somiglianza dei propri libri: prima degli anni cinquanta e dell’arrivo di Cerati vi era, ad esempio, la vendita rateale, che consentiva al pubblico Einaudi, in parte formato anche da giovani studenti, di seguire le nuove uscite della casa editrice sottoscrivendo un abbonamento, secondo un’idea che cercava di fidelizzare il cliente rendendolo una sorta di “amico” e, allo stesso tempo, costruendo un introito fisso per le casse della casa editrice. Si trattava, ancora una volta, di un’operazione assolutamente nuova per l’editoria dell’epoca.[19]

Gli anni cinquanta, poi, furono un proliferare di nuove grandi idee in questo senso – il “Notiziario Einaudi”, “autolibri Einaudi”, “scooterlibri Einaudi” “Settimana del Libro Einaudi” oppure lanci spettacolari come quello per L’orologio di Carlo Levi, per la quale le librerie vennero riempite di orologi di forma e dimensioni diverse. In questo momento arriva Roberto Cerati, nelle parole di Giulio «un monaco che va in giro a predicare il libro».[20] Cerati credeva nel catalogo e faceva in modo che le librerie non fossero mai sprovviste di una sezione dedicata alle collane Einaudi: era una teoria oculata la sua, diversa dal consumo e ricambio veloce di titoli sul bancone delle novità che caratterizza spesso la diffusione di altre case editrici. Cerati era un uomo che odiava la promozione fine a sé stessa (evitava di prendere parte a presentazioni e cene con l’autore ogni volta che poteva farne a meno) viveva a contatto col suo stesso mercato, con i librai («Persino la domenica frequenta le librerie di Milano aperte: lo trovi da Feltrinelli fin dalle otto del mattino. Offre il caffè al commesso e comincia il suo lavoro di persuasore»[21]), conosceva ovviamente i titoli e in quale collana avrebbero avuto maggior risalto (come nel caso della Storia di Elsa Morante, che avrebbe preferito vedere nei “Supercoralli” piuttosto che negli “Struzzi”), aveva delle opinioni forti e degli autori preferiti con cui si teneva costantemente in contatto, alcuni dei quali lanciati da lui stesso, come nel caso del libro di Corrado Stajano Il sovversivo, presenziava a tutte le riunioni, da quelle del mercoledì, dove si dice che non proferisse parola appostandosi in fondo alla sala, alle riunioni del Consiglio editoriale del giovedì, dove si trattava di tirare le somme del lavoro del giorno precedente e in questo caso non mancava di dire la sua sui prezzi, i titoli, le collane e le copertine. Controllava ogni ingranaggio della produzione, ma soprattutto era un matematico abile per quanto inusuale: conosceva le esigenze del lettore e su questo calibrava il numero di copie, faceva in modo che i titoli Einaudi fossero sempre disponibili in libreria, mandando rifornimenti ogni volta che se ne registrava la mancanza dopo un controllo sul campo.

Avete immaginato i libri, li avete disegnati e resi inimitabili e unici, e spesso tecnicamente perfetti, di una perfezione artigianale dentro la produzione di massa; e li avete fatti trovare in libreria, li avete distribuiti, diffusi, fatti conoscere; intorno a ogni libro avete sollevato discussioni polvere e gloria.[22]

 

L’incontro tra le macchine inutili e lo Struzzo

Le macchine di Munari

Copertina di Le Macchine di Munari di Bruno Munari nella collana “Libri per l’infanzia e per la gioventù”, progetto grafico di Bruno Munari, Torino 1942.

In questo contesto va inserito il lavoro di Munari, che spesso quando si parla di grafica Einaudi è il nome che ricorre più spesso. Ciò avviene per un motivo preciso e va evidenziato senza comunque minimizzare il contributo degli altri grafici che si sono succeduti a firmare le copertine della casa: se è vero che «Steiner e Huber hanno dato forma a delle “isole” visive»[23], Munari ha creato un vero e proprio “arcipelago” nella quale volumi e collane si rimandano vicendevolmente all’interno di un modello che ha reso i volumi Einaudi immediatamente riconoscibili pur nella loro diversità, un modello che più che forte bisognerebbe definire fortissimo.[24] In questo lavoro risiede la costruzione di un’immagine coordinata per la casa editrice, ovvero il segno, più profondo di qualsiasi schizzo di copertina, impresso dal grafico milanese nella casa editrice dello Struzzo.

Munari approda ad Einaudi innanzitutto come autore nel ’42 con il libro per bambini Le macchine di Munari, apparso nella collana “Libri per l’infanzia e per la gioventù”, inaugurata dal volume scritto e illustrato da Elsa Morante, Bellissime avventure di Catarì dalla trecciolina. Con questa lettera un collaboratore della casa editrice prende contatto con Munari dopo che era stato segnalato da Cesare Zavattini e gli dà il benvenuto nella scuderia degli autori Einaudi:

Caro Munari, Zavattini mi ha dato la buona notizia che avete accettato la proposta che è stato così gentile di farvi pervenire. Da quando preparo per la nostra Casa una nuova collezione alla quale saranno impegnati i migliori scrittori e disegnatori italiani, io penso a un vostro libro, anzi al vostro libro, posso dire di averlo in mente da quando Zavattini ricostruì ai miei occhi ammirati davanti alla “macchina” che prende il vento sul suo tavolo da lavoro, la vostra figura di mago moderno. Dunque studiatevi da voi questo libro sulle “Macchine del nostro tempo” da presentare ai ragazzi nella loro metamorfosi più favoloso e ironica: studiatevelo con libertà, dal principio alla fine, dalla sua impostazione tipografica alle impostazioni e al testo.[25]

Munari non si farà ripetere questo invito due volte e dal seguente scambio epistolare tra lui e la casa editrice possiamo notare come l’estro creativo dell’artista designer non manchi di manifestarsi anche in questa nuova sfida, non senza lasciar intravedere un’ottima conoscenza della prassi editoriale, del lavoro di redazione e dei suoi costi, evidentemente acquisita attraverso le numerose esperienze precedenti. Il lavoro viene dichiarato concluso già in una lettera del 6 Maggio 1942, accompagnato da una considerazione tipicamente munariana: «sono soddisfatto del mio lavoro e anche mio figlio si è divertito molto».[26] Nel frattempo Munari ha già iniziato a lavorare ad un altro volume per Einaudi, l’Abecedario che alla lettera S presentava proprio uno struzzo, piccolo omaggio dell’artista al suo editore.

Per entrambi questi lavori Munari non è parco di proposte, a partire dal titolo de Le macchine in cui suggerisce di inserire il proprio nome per ragioni commerciali, al formato del volume, sul quale Einaudi ha qualcosa da ridire poiché il 12×34 proposto inizialmente dall’autore non lo convinceva, ai singoli dettagli circa la fattura del libro («mi raccomando molto il colore della copertina che dovrebbe essere come il campione allegato. La copertina la vorrei tranciata assieme alle pagine (è più moderno), la costa nera, se è possibile. […] La carta mi piace poco perché non è bianca, ma credo che non ci sia niente da fare oggi […] Ultima raccomandazione, forse inutile, che la stampa sia bene a registro e buonanotte»[27]) fino a proposte molto creative per il lancio in libreria («Se avete intenzione di “lanciare” il libro, eccovi qualche suggerimento intonato al “prodotto” […] mettere nella vetrina del librario un oggetto delle mie macchine (o un animale) con un cartellino che dica: questa lumaca è la zia della lumaca Maria che fa parte della macchina per cuocere le uova. […] Se credete opportuno potrei studiarne alcune vetrine apposta facili economiche e suggestive. Anche un ombrello aperto con dentro i volumi ecc. in una vetrina esclusivamente di libri un oggetto insolito desta molta curiosità»[28]). Einaudi, pur evidenziando il costo di alcune delle proposte, sembra accogliere favorevolmente la creatività di Munari («Quanto agli ombrelli fatevi dare tutti quelli dei vostri amici e pensate voi a farli esporre a Milano»[29]).

Le macchine arriveranno in libreria a fine dicembre e rappresenteranno una parentesi fanciullesca e colorata all’interno di un clima turbato dai miasmi del conflitto bellico. Proprio la devastazione e i disagi portati dalla guerra però non permetteranno al libro di debuttare con il lancio previsto, tanto che perfino le copie promesse a Munari dall’editore tarderanno ad arrivare al destinatario, come risulta da una lettera non datata spedita al ritorno dal suo viaggio di nozze. In una lettera successiva Munari lamenterà il fatto che nelle librerie di Milano il suo libro non è esposto in vetrina («Perbacco. È vero che in molte librerie non è esposto perché esaurito ma mi pare che quello che si chiama pubblicitariamente il “lancio di un prodotto” sia venuto completamente a mancare. Tuttavia da quanto ho saputo dai librai pare che “vada”»[30]). A questa lettera Einaudi risponderà con un’altra del 23 febbraio tranquillizzando l’autore e informandolo che l’esaurimento dei volumi costituiva a tutti gli effetti una buona notizia.[31] Il libro viene esaurito ma la prima ristampa dovrà attendere il 1974 probabilmente per l’alto costo che volumi come quelli delle Macchine e dell’Abecedario costituivano per una casa editrice con un mercato ancora non ben definito.

 

Bruno Munari e le copertine Einaudi

Le mirabolanti macchine, però, hanno, più di ogni altro, il merito particolare di aver costituito l’inizio di quel rapporto cinquantennale tra Munari e la casa editrice torinese. I progetti editoriali sui quali Munari metterà le mani nel corso degli anni, o comunque eserciterà una certa influenza, sono tali e tanti da sfuggire ad una facile catalogazione, anche per via del metodo di lavoro a più mani. Inoltre, un mero elenco di questi risulterebbe sterile e poco proficuo: si cercherà, dunque, da qui in avanti di riportare quelli, a nostro avviso, più iconici e in grado di restituirci la piccola rivoluzione avviata silenziosamente da Munari, armato solo di matita e righello, nell’immagine grafica della casa editrice, ricostruendo in questo modo i momenti salienti della sua esperienza tra gli operai dello Struzzo.

Caro Munari, ti ringrazio per la sovraccoperta per il Diolé, che mi pare riuscitissima. S’intende che ricorreremo a te anche per gli altri volumi della collana.[32]

Sono queste le parole che Giulio Einaudi rivolge in una lettera datata 12 novembre 1953 a Bruno Munari. Siamo agli albori del lavoro di Munari per la casa editrice, eppure Einaudi appare soddisfatto, tanto da promettergli successive commissioni e rivolgendosi spesso alla sua esperienza nel campo delle arti visive per sciogliere dubbi riguardo il lavoro della casa editrice, come si evince anche dalla continuazione della stessa lettera:

Vorrei ora affidarti un altro problema illustrativo, che spero riuscirai a risolvere altrettanto egregiamente. Si tratta della sovraccoperta di un volume della P.B.S.L. (Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria, n.d.r.) che parla di terremoti, eruzioni vulcaniche e di catastrofi naturali in genere. Bollati ti darà maggiori spiegazioni in proposito.[33]

La collaborazione con Munari, pur non essendo in questo periodo ancora diversa dal resto dei lavori che il grafico portava avanti sin dagli anni trenta, assume già in questi primi momenti quel carattere di apertura al confronto che come abbiamo visto caratterizzava tutte le fasi della produzione libraia nel “laboratorio Einaudi”. Nel caso riportato di seguito Einaudi chiede al grafico di rivedere una copertina realizzata per un volume in uscita nella collana “Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria”

Le ritorniamo il progetto di sovraccoperta per la Breve storia della Resistenza italiana di Garritano e Battaglia. L’idea sarebbe ottima ma rischia di dare al libro (che vuol essere un libro di storia) un significato di troppa immediata propaganda politica. Si liberi pure, anzi dimentichi senza altro lo schema tradizione della P.B.S.L., mettendo il titolo dove preferisce e della grandezza che preferisce. [34]

Anna Frank

Copertina del Diario di Anna Frank nella collana “Saggi”, progetto grafico di Bruno Munari, Einaudi, Torino 1956.

Durante gli anni cinquanta saranno varie le consulenze di Munari alla casa editrice di Torino, tra cui alcune per la collana dei “Saggi”: da sempre caratterizzata da copertine con una griglia molto rigida, l’impronta di Munari sulle sovraccoperte di alcuni volumi della collana è immediatamente riconoscibile tra fotomontaggi, illustrazioni libere e collage astratti. Tra i “Saggi” da lui vestiti vi è Il futuro è già arrivato di Robert Jungk del 1954, in cui la foto di un uomo con una tuta di sicurezza, di quelle usate per proteggersi dai materiali radioattivi, è inserita su uno sfondo bianco e le uniche tracce di colore sono dei pois rossi e blu sparsi su tutta la copertina; a carattere più astratto sono invece Il diario di Anna Frank che, a dispetto del contenuto drammatico, si presenta con una copertina che è una sovrapposizione di forme e colori che vanno dal rosa al giallo; lo stesso carattere presentano le copertine di Se questo è un uomo di Primo Levi e Hiroshima, il giorno dopo del già citato Robert Jungk.

Alla fine degli anni cinquanta Munari si occuperà del progetto grafico e dell’impaginazione della rivista letteraria di Vittorini e Calvino, “Il Menabò”, che dopo la chiusura dei “Gettoni” diventerà la nuova sede di quella politica della casa editrice che intendeva il rinnovamento letterario in termini fortemente sperimentali. Il “Menabò di letteratura” era una «rivista in forma di libri»,[35] un vero e proprio cantiere aperto in cui i due editor, nonché autori, aprivano la discussione sullo stato della letteratura; lo facevano attraverso pezzi sulle tendenze della poesia e della prosa, ma specialmente attraverso i testi di autori scoperti da loro stessi come Lucio Mastronardi.

La rivoluzione francese

Copertina della Rivoluzione francese di Albert Mathiez e Georges Lefevre, nella collana “Piccola Biblioteca Einaudi”, progetto grafico di Bruno Munari, Torino 1960.

L’impostazione della collana ideata da Munari riporta già a quel lavoro di semplificazione dei segni, chiarezza e pulizia costruttiviste, elementi che vengono resi in maniera quasi matetica ma senza mai omettere l’innesto di una certa qual dose di casualità: in questo caso la rigidità della copertina viene ammorbidita dai diversi colori dei rettangoli su fondo bianco di cui è composta. Tutti questi elementi costituiranno il filo rosso della produzione di Munari negli anni sessanta, periodo in cui la sua presenza affianco della casa editrice si fa decisamente più costante, dando vita ad alcune delle collane destinate a rimanere impresse nell’immaginario culturale del Paese.

Questo è sicuramente il caso della “Piccola Biblioteca Einaudi”, nata nel 1960 nella sua prima serie. In anni in cui si assisteva al boom del romanzo italiano, la Einaudi «dispiega la sua forza saggistica»[36] con una collana che ospiterà alcuni degli studiosi più importanti del Novecento come Adorno, Auerbach ma anche l’italiano Rodari. Nella “Piccola Biblioteca” il gioco di modulazioni di Munari si fonde con un altro elemento che abbiamo visto essere particolarmente presente nella sua carriera, la forma quadra. Difatti l’impostazione standard della collana prevede due quadrati posti nella parte alta, uno nero e uno colorato, nel primo vengono inseriti titolo e nome dell’autore, mentre il resto della copertina assume quel fondo bianco, che in questi anni inizia a diventare sempre più presente come marchio di fabbrica della casa, e all’interno di esso, nella parte bassa, vi inserisce il nome della collana, posizionato centralmente in verticale così da conferirgli una riconoscibilità silenziosa. Il gioco di forme viene in alcuni casi rotto, magari moltiplicando i quadrati fino a sei ed inserendoci un’illustrazione afferente al contenuto, come nel caso di Geografia economica dell’Unione Sovietica di Pierre George nel quale quattro quadrati rossi racchiudono uno schizzo dell’URSS. Assistiamo ancora una volta all’applicazione di quella frase giapponese tanto cara a Munari che dice “la perfezione è bella ma stupida” e, aggiungeva lui spiegando il lavoro fatto sulla collana, «perché l’armonia sia vera ogni tanto va rotta. È il principio della trasgressione. Come in musica. L’armonia è la matematica debbono esserci ma non bisogna sentirle troppo […] La “gabbia” della copertina [della P.B.E., n.d.r.] è divisa in sei quadrati e l’uso alternato di questi crea variazioni percettibili. Ne deriva un’immagine unitaria ma non noiosa».[37]

Sullo stesso principio si basa anche la collana saggistica “Nuovo Politecnico”, rivisitazione di quella che era stata la storica “Politecnico Biblioteca”. Il cambiamento rispetto alla grafica firmata da Steiner e Huber è radicale: sparisce ogni carattere iconografico, la copertina diventa un campo bianco “macchiato” solo da un quadrato rosso fluttuante al centro del campo visivo.

La maggioranza deviante

Copertina della Maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro, nella collana “Nuovo Politecnico Einaudi”, progetto grafico di Bruno Munari, Einaudi, Torno 1971.

Ad una prima occhiata le copertine di questa collana, nella loro rigida impostazione, potrebbero sembrare uguali. In realtà la posizione del quadrato rosso varia in rapporto alle dimensioni del font utilizzato per il titolo e gli altri dati. Così Giorgio Maffei descrive questo lavoro di spiazzante semplicità: «Il quadrato rosso e il campo bianco, il pieno e il vuoto, la forma e il suo fondale, assumono a pari titolo un valore ed un ruolo: il rosso ha il compito di attrarre lo sguardo sulla copertina, mentre il bianco isola l’immagine».[38] La stessa impostazione segue la collana “Paperbacks”, varata nel 1969 nel clima delle contestazioni studentesche per racchiudere una collezione di saggistica internazionale di alto livello su vari terreni disciplinari con tioli importanti come Logica della scoperta scientifica di Karl R. Popper e La logica del vivente di François Jacob.[39]

Come si intuisce, è questo il momento storico in cui il libro Einaudi diventa, tra le altre cose, anche oggetto seriale e le collane «sintagmi di identità editoriale»:[40] in questo periodo l’immagine coordinata editoriale, di cui abbiamo tessuto le lodi fino ad ora, diventa un’ambizione molto ben definita da parte dello Struzzo e possibile solo grazie al carattere “aperto” del lavoro di Munari, che segna indubbiamente delle linee guida ma si lascia poi modificare, correggere, consigliare dai vari Giulio Einaudi, Oreste Molina, Giulio Bollati, Roberto Cerati. Sembra qualcosa di scontato, eppure è sintomo, da parte del grande artista e grafico, di un’intelligenza priva di superbia o altezzosità, propensa al lavoro di gruppo ed è proprio questo ciò che ha consentito alla grafica di Munari di rimanere ben salda nell’immagine della casa editrice,[41] facendo sentire la sua influenza anche quando non è Munari in prima persona a disegnare le copertine di una collana. Va da sé che questo metodo di lavoro rende in alcuni casi molto difficile tracciare i confini tra le diverse mani che hanno lavorato sui libri Einaudi. Su questo modus operandi, molto limpida è la ricostruzione fatta da Giulio Einaudi:

C’era questo rapporto diretto con il grafico, al quale si chiedeva un certo tipo di copertina, in base alla collana e al pubblico a cui si rivolgeva. In partenza qualche bozzetto schizzato a mano, su cui Munari lavorava in casa editrice. Gli dicevo: vorrei una copertina così. Facevo uno schizzo e lui diceva: no, vorrei in questo modo, e io: no, così non mi piace, vediamo cosa ne dice il commerciale. I titoli van sempre in alto, non vanno in mezzo o in basso, perché bisogna pensare che in libreria i libri spesso vengono coperti da altri libri nella parte inferiore. Bisogna che il titolo sia in evidenza. Alla fine, nel giro di minuti, nasceva una proposta di copertina, che poi passava a Molina: adesso, dico, fai la prova grafica subito, perché un bozzetto non è la stessa cosa; porta un campionario di caratteri per il titolo, dei colori per i fregi. Nella stessa mattina lui veniva su con la copertina già realizzata.[42]

Le cose in casa Einaudi sono andate avanti così per anni, almeno fino alla crisi dell’83 quando Einaudi venne retrocesso a consulente della casa editrice che aveva fondato e portava il suo nome.[43] Da metà degli anni sessanta e per tutti gli anni settanta Munari arrivava ogni quindici giorni da Torino in treno alle 11, si fermava a lavorare in casa editrice fino alle 13, poi faceva colazione e ripartiva per Milano. Nel mezzo, «“sorrideva, tirava linee, faceva volteggiare una matita sottilissima con la grazia di un étoile del balletto” e così creava una copertina e una collana».[44]

Poema senza eroe

Copertina di Poema senza eroe di Anna Achmàtova nella collana “Collezione di Poesia”, progetto grafico di Bruno Munari, Einaudi, Torino 1966.

Basterebbe quello che si è detto fin qui per comprendere il valore della figura di Munari in casa Einaudi ma citeremo, almeno per completezza, qualche altra celebre collana che porta la sua impronta. Nel 1964 nasce, in collaborazione con Max Huber, “Collezione di Poesia”, che da allora fino ad oggi non ha cambiato la sua grafica: piccoli volumetti rettangolari dove in copertina il nome dell’autore e il titolo della raccolta, ben dosati nel corpo dei caratteri e inseriti nella parte alta insieme al logo e al nome della casa editrice, sono separati attraverso una sottile linea nera da alcuni versi tratti dal testo che occupano meno di due terzi dello spazio rimanente. Questa, ancora una volta, semplice invenzione fa a tutti gli effetti iniziare la lettura del testo dalla copertina e ha permesso a questa collana di essere conosciuta al grande pubblico come “la Bianca”, che nel 2014 ha celebrato il cinquantesimo anniversario con la pubblicazione del volume 50 anni di Bianca. Poesie inedite. Nella collana sono apparsi autori di poesia eterogenei come Samuel Beckett, Cesare Pavese, François Villon, Chandra Livia Candiani ecc.

Un cambiamento radicale, a cui abbiamo già accennato, è quello della “Universale”: la copertina colorata viene sostituita dal 1962 con una copertina bianca attraversata da cinque linee rosse tra le quali sono inserite le informazioni sul libro, mentre centrata in alto vi è una fotografia in bianco e nero dell’autore. L’effetto che si crea accostando i volumi è particolarmente suggestivo poiché le linee rosse diventano un simbolico fil rouge che collega le varie uscite. Afferente a questa estetica è la collana dei “Millenni” che nel 1984 adotta una copertina bianca con al centro un’illustrazione d’autore racchiusa in una cornice quadrata dai bordi rossi.

La «collana d’autore»[45] “Centopagine” viene varata nel 1971 e diretta da Italo Calvino, al suo interno appaiono autori classici particolarmente amati come Tolstoj e Dostojevski, ma anche scoperte e riscoperte come la Fosca di Iginio Ugo Tarchetti o Ricordi di un telegrafista di Clotilde Scanabissi Samaritani, scelte ispirate sia dal gusto per il romanzesco che dalla volontà di proporre testi che siano anche documenti della storia italiana.[46] La collana celebra la forma del romanzo breve o racconto lungo, «il criterio di scelta si basa sull’intensità di una lettura sostanziosa che possa trovare il proprio spazio anche nelle giornate meno distese della nostra vita quotidiana»[47] e riprende quella tradizione inaugurata da Vittorini con “I gettoni” del dialogo con i lettori attraverso l’introduzione e le quarte di copertina: Calvino firma otto delle prime e una quindicina delle seconde. La collana procede fino al 1985 con la morte dello stesso Calvino. Einaudi propone a Cerati, che aveva consigliato a Calvino titoli come La sonata Kreutzer di Tolstoj e Pierre e Jean di Maupassant, di continuarla con la direzione di Giorgio Manganelli, ma il direttore commerciale non mostra un particolare interesse nell’impresa e la collana viene lasciata morire. Secondo le parole di Federico Novaro, fondatore dell’omonimo blog di critica editoriale e curatore di una mostra dedicata alla collana nel 2017, «è stata una delle ultime collane in cui la direzione editoriale è stata l’elemento unificante delle 77 uscite […] è un’opera di Calvino a tutti gli effetti: un saggio in 77 stanze».[48] Da una lettera datata 20 dicembre 1971 ricaviamo questa dichiarazione di Bruno Munari:

Caro Munari, ti mando una nota per dieci copertine per la collana “Centopagine”. Come vedi il prezzo per ogni copertina è molto basso e spero che ti vada bene. Questa collana mi piace molto, visivamente parlando.[49]

 Le copertine di questi agili volumetti in brossura sono create utilizzando un catalogo di passamanerie e ancora una volta si assiste a un perfetto bilanciamento tra programmazione costruttivista e irrompere dell’elemento casuale:[50] la copertina bianca è suddivisa, nella parte alta, in tre rettangoli calibrati matematicamente per ospitare al meglio sia il titolo che il nome dell’autore e, posto fra di essi, una particolare decorazione afferente, seppur lontanamente, al contenuto del testo. I rettangoli del titolo e dell’autore sono di colori diversi e anche il titolo stesso è caratterizzato da un font vistoso che non è mai uguale al precedente o al successivo.

Centopagine

Volumi della collana “Centopagine”, progetto grafico di Bruno Munari, Einaudi.

In “Centopagine”, la collana di Calvino, ogni libro aveva un’impostazione diversa, di caratteri e di ornamenti, e allora si studiavano le copertine di quelle quattro o tre novità che dovevano uscire nei mesi successivi, e Munari chiedeva: questo romanzo di cosa parla? Come si svolge? È passionale, sentimentale? Insomma, faceva domande magari banali, si informava sulla trama, se c’è un personaggio centrale, e in rapidi circuiti mentali sceglieva in base a queste informazioni i fregi, i caratteri che rendessero meglio.[51]

Stando ad alcuni scambi di lettere Munari dovette avere un qualche ruolo anche sull’impostazione grafica della collana “Gli struzzi”, seppur sia assente qualsiasi riferimenti in merito nei volumi citati in bibliografia:

Caro Munari, molto belle le copertine per la nuova collana, ma le trasferiremo ad una serie successiva (probabilmente di classici letterari per l’università), perché è giudizio degli “spettatori” che per i nostri “Oscar” (che chiameremo forse “Struzzi”) ci vogliano elementi figurativi e caratteri più vistosi, anche se non volgari. Può fare qualche altro tentativo? Questa collana è per noi molto importante.[52]

Si evince quindi come la nascente collana prendesse ispirazione dal fenomeno dei tascabili avviato dagli “Oscar” e si proponeva di ristampare, ad un prezzo relativamente economico, i libri «essenziali»[53] della casa editrice. Un caso particolare sarà quello sopracitato de La Storia di Elsa Morante, che debutterà per volere della stessa autrice in questa edizione economica. Anche in questo grafico la grafica gioca per sottrazione: copertina con la consueta “mano di bianco”, autore e titolo centrati in alto e un’illustrazione al centro. Nella parte bassa compariva uno strillo che presentasse in breve l’opera.

Influenzata dalla nuova estetica introdotta in casa editrice grazie a Munari è l’impostazione grafica dei “Coralli” che va dal 1961 al 1976, la quarta in ordine cronologico, nonché la più longeva.[54] Questa versione si discosta molto dalle precedenti, innanzitutto per il formato, non più una rilegatura all’americana ma una copertina rigida con sovraccoperta, inoltre si passa ad un volume di 120 x 192 mm. Il colore bianco di fondo ospita un’illustrazione che può spaziare in tutti i campi dell’espressione artistica, mentre per titolo e autore si sceglie un elegante e discreto Egizio.

Summa Leonzio

[1] Giulio Einaudi, in Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 48.

[2] Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, p. 34.

[3] Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 50.

[4] Giulio Einaudi, in ibidem.

[5] Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, p. 35.

[6] Giulio Einaudi: il rispetto per il lettore, p. 79.

[7] Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita. Feltrinelli, Milano 2005, p. 87.

[8] Cfr. Id., Addio a Oreste Molina, anima discreta dello Struzzo, in “La Stampa”, 27 agosto 2017: <http://www.lastampa.it/2017/08/27/cultura/addio-a-oreste-molina-lanima-discreta-dello-struzzo-TyuipSUj0GnCgNk10J7kUN/pagina.html>.

[9] Giulio Einaudi in Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 67.

[10] Cfr. Giulio Einaudi: il rispetto per il lettore, p. 79.

[11] Cfr. Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, 35-57.

[12] Velania La Mendola, La felicità di fare editoria di cultura, p. 12.

[13] Cfr. Marzio Zanantoni, Albe Steiner, pp. 114-116.

[14] Giulio Einaudi, in Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 43.

[15] Massimo Romano, I gettoni di Einaudi citato in Marzio Zanantoni, Albe Steiner, pp. 115-116.

[16] Gian Carlo Ferretti, Giulia Iannuzzi, Storie di uomini e libri, p. 146.

[17] Cfr. Giulio Einaudi. L’arte di pubblicare.

[18] Cfr. Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, Milano 2005, p. 83.

[19] Cfr. Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 67.

[20] Giulio Einaudi in ibidem.

[21] Giulio Einaudi in ibi, p. 78.

[22] Ibi, p. 73.

[23] Mario Piazza, Il libro al centro: l’Einaudi e la grafica editoriale.

[24] Cfr. Cristiano De Majo, Benedette copertine!, in “Rivista Studio”, 1 maggio 2012: <http://www.rivistastudio.com/standard/benedette-copertine/>.

[25] AE, in cart. Munari, lettera datata 9 marzo 1942, inviata da un collaboratore della casa editrice a Bruno Munari.

[26] Ibi, lettera datata 6 maggio 1942, inviata da Bruno Munari a Giulio Einaudi.

[27] Ibi, lettera datata 24 settembre 1942, inviata da Bruno Munari a Giulio Einaudi.

[28] Ibi, lettera datata 21 ottobre 1942, inviata da Bruno Munari a Giulio Einaudi.

[29] Ibi, lettera datata 22 ottobre 1942, inviata da Giulio Einaudi a Bruno Munari.

[30] Ibi, lettera non datata, inviata da Bruno Munari a Giulio Einaudi.

[31] Cfr. Giulio Einaudi, Munaria. Abitare festeggia i 90 anni di Bruno Munari, in “Abitare”, 366 (1977), p. 3.

[32] AE, in cart. Munari, letterata datata 12 novembre 1953, inviata da Giulio Einaudi a Bruno Munari.

[33] Ibidem.

[34] Ibi, lettera datata 12 aprile 1955, inviata da Giulio Einaudi Editore S.p.A. a Bruno Munari.

[35] Velania La Mendola, La felicità di fare editoria di cultura, p. 15.

[36] Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Einaudi, Torino 2004, p. 184.

[37] In compagnia di Munari, intervista a Bruno Munari a cura di Andrea Rauch, in Disegnare un libro, p. 85.

[38] Giorgio Maffei, Munari. I libri, p. 39.

[39] Cfr. Velania La Mendola, La felicità di fare editoria di cultura, p. 15.

[40] Marco Belpoliti, Einaudi, 80 candeline.

[41] Cfr. ibidem.

[42] Giulio Einaudi, in Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 50.

[43] Cfr. Velania La Mendola, La felicità di fare editoria di cultura, pp. 19-26.

[44] Roberto Cicala, Copertine, da Pacioli a Munari l’arte di dare carattere ai libri, in “la Repubblica”, 28 aprile 2010: <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/04/28/copertine-da-pacioli-munari-arte-di.html>.

[45] Gian Carlo Ferretti, Giulia Iannuzzi, Storie di uomini e libri. L’editoria letteraria italiana attraverso le sue collane, p. 243.

[46] Cfr. ibi, p. 245.

[47] Ibidem.

[48] Federico Novaro, Centopagine Einaudi, in “FN”, 6 ottobre 2017: < http://federiconovaro.eu/categorie/materiali/centopagine-einaudi/>.

[49] AE, in cart. Munari, lettera datata 20 dicembre 1971, inviata da Bruno Munari a Giulio Einaudi.

[50] Cfr. Federica Orsi, Complicare è facile, semplificare è difficile, in Storie in copertina, pp. 24-25.

[51] Severino Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 56.

[52] AE, in cart. Munari, lettera datata 5 febbraio 1970, inviata da Giulio Einaudi a Bruno Munari.

[53] Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, p. 273.

[54] Cfr. Giulio Einaudi. L’arte di pubblicare, pp. 30-31.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Un omaggio alla libraia Helga Weyhe https://editoria.letteratura.it/helgaweyhe/ https://editoria.letteratura.it/helgaweyhe/#respond Mon, 14 Jun 2021 12:59:28 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8564 Chi varcava la soglia – cliente o visitatore – della libreria di Helga Weyhe a Salzwedel udiva sulle prime soltanto uno scampanellio. L’ambiente, gremito di scaffali e tavoli coperti di libri e carte, sembrava deserto. Ma di lì a poco veniva dalla stanza accanto il rumore di una sedia che si scosta dalla scrivania, e subito si affacciava alla porta, sempre aperta, lo sguardo curioso di Helga Weyhe – a scrutare il nuovo arrivato.

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Helga Weyhe (11 dicembre 1922 – 4 gennaio 2021) alla porta della sua libreria.

Chi varcava la soglia – cliente o visitatore – della libreria di Helga Weyhe a Salzwedel udiva sulle prime soltanto uno scampanellio. L’ambiente, gremito di scaffali e tavoli coperti di libri e carte, sembrava deserto. Ma di lì a poco veniva dalla stanza accanto il rumore di una sedia che si scosta dalla scrivania, e subito si affacciava alla porta, sempre aperta, lo sguardo curioso di Helga Weyhe – a scrutare il nuovo arrivato. Negli ultimi anni, era bene accompagnare il saluto scandendo a voce alta il proprio nome: l’udito si era fatto sempre più difficoltoso, anche la vista andava declinando e il cuore si era indebolito. Il “raggio” si era, insomma, sensibilmente ridotto.

«Sempre più si stringono / poco per volta / i cerchi della vita»: Helga amava molto sentir citare i versi del vecchio Fontane, poeta da lei prediletto, e ammiccava sorridendo. Certo è che, sorretta dalla disciplina prussiana con cui era stata educata, non intendeva abbandonare la postazione. Si soffermava tra gli scaffali con l’uno o l’altro ospite oppure lo invitava a scambiare quattro chiacchiere nell’ufficio sul retro, dedicando a ciascuno tutta la sua attenzione: «Che cosa legge in questo momento? E che ne pensa dell’autore? Quali nuovi libri le interessano? Qualche titolo?».

Gli anni erano ormai tanti, ma l’attenzione rimaneva quanto mai vigile: curiosa, leggeva di tutto e spesso ti sorprendeva con quella sua voglia improvvisa di metterla in burla.

Euforia, entusiasmo, tripudio non erano nelle sue corde. Nel 2017, quando le fu conferito il titolo di “Grande Dame delle librerie di Germania” dalla Ministra della cultura, Monika Grütters, centinaia di librai presenti in sala accolsero la nomina con una lunghissima standing ovation. Senza scomporsi, Helga commentò l’alta onorificenza con un sobrio: «Però… non è cosa da poco!».

Una testimonianza insostituibile

La premiazione non era avvenuta per caso. A prima vista, la vita di Helga Weyhe, ora spentasi quietamente, poteva dirsi quasi monotona in quel suo scorrere piana, senza sbalzi spettacolari. Ha testimoniato, invece, un’esistenza unica, irripetibile, nel vorticoso altalenare della storia tedesca specie lungo i confini, modificati di continuo a separare le province di Prussia e di Hannover, come pure i distretti creati dal nazismo a delimitare Magdeburg-Anhalt da Ost-Hannover; da ultimo, le zone di occupazione istituite nelle due Germanie, DDR e Repubblica federale. La felice conclusione in un Paese finalmente riunificato ha concesso a Helga Weyhe di trascorrere libera e sicura nella sua casa gli ultimi trent’anni. I precedenti erano stati, invece, molto aspri, quali lei sicuramente non aveva previsto.

Nel 1871, il nonno aveva acquistato la libreria, che da allora rimase sempre nelle mani della famiglia. Helga è nata e cresciuta nell’appartamento al primo piano, sopra al negozio, trasferito nel 1880 al numero 11 della Altperverstrasse. Farà lunghi viaggi in Francia e sarà per tre volte in Italia, dove sosta con ammirato stupore al Foro romano: «Come Cesare!». Visita Firenze, Venezia, Capri, Napoli. Poi, gli studi di germanistica a Breslau, Königsberg e Vienna. Una «cultura solida, ma rimasta a metà del guado»: la famiglia aveva bisogno di lei e nel 1945 la richiama a casa. Obbedisce senza esitare e, dal 1965 in avanti, condurrà la libreria. Sarebbero trascorsi vent’anni prima che, nel 1985, potesse finalmente volare a New York, dallo zio: il celebre gallerista Erhard Weyhe. Soltanto allora le sarà infatti riconosciuto di essere “matura” abbastanza per varcare il Muro, come ebbe a dire una volta con amarezza.

Chi si guardava intorno nella libreria ritrovava i ricordi di quel viaggio e della vita trascorsa: una targa titolata 794 Lexington Avenue e la mappa di New York; in vetrina, le foto di famiglia in bianco e nero, mentre il negozio avrebbe sempre conservato il sapore di un pezzo d’antiquariato, rimasto tal quale dal 1880 con i suoi scaffali di legno tinteggiati di un bel marrone chiaro. Solamente la facciata si arricchisce di un’insegna in rame recante il simbolo della civetta. Da ultimo, una lastra a mosaico installata sul marciapiede – con l’iniziale “W” in bella vista – per invitare il passante a varcare la soglia e immergersi nel mondo dei libri.

Anni di magra

La vita è stata molto severa con Helga Weyhe. Pur rifugiandosi ai margini, ha dovuto reggere il carico della grande storia. Per dirla senza infingimenti: dapprima, quand’erano al potere i “neri”, poi i “rossi” – diversi, sì, ma entrambi ben poco amici dei libri, della lettura, della libera parola. Con amarezza, Helga parlava dei lunghi “anni di magra” attraversati da una libreria rimasta in mano privata. Eppure, le è riuscito di tenersi a galla anche nella Germania divisa, scegliendo di orientare l’offerta sui classici della letteratura e i testi scientifici oltre che sull’antiquariato minuto. A partire dal 1972, Helga ha infatti trovato una fonte di guadagno nel cosiddetto “piccolo traffico frontaliero”, che consentiva ai visitatori occidentali – provenienti dal territorio limitrofo, il Wendland – di passare il confine, così aprendo un piccolo varco nel Muro anche per Helga: il cambio forzato portava i “giornalieri” a investire proficuamente nell’acquisto dei sorprendenti tesori offerti dal suo negozio. Sorta di anteprima in loco della futura riunificazione.

A partire dal 1989, inizia finalmente l’ascesa che, poco per volta, porterà la piccola libreria di Salzwedel nel Pantheon immaginario del regno dei libri. Con la “svolta” mutano volto la strada, il quartiere, la città, la piccola patria locale e l’intero Paese, ma così anche la clientela e i libri in vendita. Helga rimane sempre uguale a se stessa. Se intorno a lei si accendono luci e luminarie d’ogni sorta, e le innovazioni della tecnica cambiano faccia al mondo, la libreria sembra rimanere immersa nel sonno della Bella addormentata, serenamente disdegnando accessori modaioli e fronzoli vari.

Helga Weyhe tra i suoi amati volumi.

Impossibile non vedere la coerenza, la caparbietà e fedeltà a certi valori di questa donna coraggiosa, sempre fedele a se stessa. Segnata dagli anni bui, ma ben salda e decisa, lo sguardo mai rivolto al passato, saprà muovere incontro anche alla nuova ondata dei libri prodotti per l’attualità immediata e il consumo. Chi frequentava la libreria sapeva che non vi avrebbe trovato né bestseller né romanzi gialli, e ben pochi tascabili: sì, invece, i classici della letteratura in ottime edizioni, sostanziosi saggi di storia della cultura e libri per l’infanzia. Sul banco accanto alla cassa, i prediletti: una bella scelta! Il romanzo per bambini scritto da Erika MannStoffel fliegt übers Meer –, le opere di molte autrici “sfrontate” d’inizio secolo – Irmgard Keun, Alice Bernd, Gabriele Tergit, e così anche i libri di Erich Kästner.

Il successo non si fa attendere. I clienti si passano parola, e poco per volta la fama della libreria varca i confini cittadini e provinciali finché arrivano anche i politici di spicco: non soltanto ministri della cultura, ma addirittura il presidente dei ministri del Land Sachsen-Anhalt, che un giorno carica sull’auto di servizio un’intera catasta di volumi; arrivano romanzieri famosi e i colleghi di città vicine.

Una vita piena

A poco a poco, anche i media cominciano a interessarsi della nostra libraria, ormai la più anziana ancora in attività. Ne parlano con grande rilievo le pagine culturali di tutte le maggiori testate e così pure i più famosi canali televisivi, ARTE e YouTube, oltre che le principali emittenti radiofoniche. Helga prende tutto con molta calma – ma in cuor suo rallegrandosi non poco, specie quando nel 2012, per festeggiarne il novantesimo compleanno, la città di Salzwedel le conferisce la cittadinanza onoraria. Motivo: «la capacità di essere fonte d’ispirazione». Per l’occasione, sarà piantato in suo onore anche un albero di ginkgo. Anno dopo anno, Helga aveva sempre dedicato le sue cure alla letteratura: di qui, l’ispirazione.

Da allora, alla libreria è finalmente garantito un sostegno economico, che consente a Helga di finanziare letture, conferenze e occasioni di incontro nel nome della cultura. Si moltiplicano le occasioni di viaggio, in particolare gli inviti a partecipare alle fiere del libro, ai grandi premi letterari, agli eventi organizzati da grandi e piccoli editori. È invitata ovunque fioriscano attività culturali, in gran numero nei pressi di Salzwedel. Insomma, una vita finalmente appagante, piena e ricca.

Al suo sapere e alla sua testimonianza hanno attinto storici, studiosi di cultura del territorio, archivisti e storici della famiglia. Da tutti considerata “cronista” della comunità ebraica cittadina, a lei si sono rivolti anche ricercatori di storia ecclesiastica locale e così pure delle istituzioni scolastiche. Una volta, le ho sentito dire che le dispiaceva – quando se ne fosse andata – di lasciare un così grande vuoto nella storia cittadina. E per qualche tempo è comparso in vetrina un memo: «Io pure mancherò molto a me stessa quando non ci sarò più». Non a caso, aveva maturato e messo a punto il progetto (poi reso impraticabile dalla pandemia) di invitare a Salzwedel nel 2020 lo scrittore Ingo Schulze, il cui ultimo romanzo racconta sventure e traversie capitate a un libraio in conseguenza dei tanti errori dovuti alla riunificazione. Helga Weyhe sapeva quel che faceva.

Oggi, la “memoria” della cittadina di Salzwedel non ha più voce, e nella libreria silenziosa e ormai buia è rimasta solamente la sedia lasciata vuota da Helga. Recita un proverbio giapponese: «Quando muore un essere umano, è come se andasse a fuoco una biblioteca».

Axel Kahrs, scrittore e storico della letteratura

9 gennaio 2021, Lüchow e Salzwedel

Traduzione di Maria Gregorio


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Un libro di riferimento sui meccanismi dell’editoria https://editoria.letteratura.it/meccanismi-editoria/ https://editoria.letteratura.it/meccanismi-editoria/#respond Sat, 20 Feb 2021 15:47:43 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8475 Un viaggio nella produzione editoriale per interpretare i cambiamenti della società attuale: casi attuali e una prospettiva sulle nuove frontiere dopo il Covid-19 in "I meccanismi dell’editoria" di Roberto Cicala edito dal Mulino.

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Un viaggio nella f
iliera editoriale per interpretare i cambiamenti della società attuale: un volume di aggiornamento per chi vuole entrare nel mondo dei libri e per gli addetti ai lavori, con casi attuali e una prospettiva sulle nuove frontiere tecnologiche e organizzative dopo il Covid-19 e grazie all’intelligenza artificiale. Tutto questo in I meccanismi dell’editoria di Roberto Cicala edito dal Mulino.

«L’editoria sta cambiando ma è difficile capire quale sarà la dimensione nuova e soprattutto quella futura. Tutti pensiamo di conoscere questo oggetto, apparentemente semplice nel suo manifestarsi, in un parallelepipedo di carta e inchiostro più o meno tascabile oppure in uno schermo più o meno portatile; tuttavia questo prodotto culturale, vecchio di oltre cinque secoli e sempre nuovo anche nelle sue forme digitali, ha una complessità insita nei meccanismi della sua filiera, dall’autore al lettore». Le quasi 400 pagine del volume di Roberto Cicala sono il punto di partenza per un viaggio dietro le quinte di un best seller, di un’edizione di studio, di un testo scolastico o di un e-book o ancora un audiolibro, alla scoperta di professioni, processi, tecnologie, azioni comunicative e tipologie di ricezione che stanno attraversando trasformazioni, ma che possono essere conosciute, interpretate e vissute al meglio soltanto a patto di non disattendere l’esperienza maturata fin qui, soprattutto nel Novecento.

DENTRO IL LIBRO

Il libro edito dal Mulino nella collana “Itinerari” intende offrire un’introduzione aggiornata all’universo librario attuale, ai mestieri culturali dentro e fuori le case editrici, fino alle più diverse consuetudini di lettura, collocandosi all’interno della vasta bibliografia di settore, tra le indagini più storiografiche e gli strumenti più tecnici. Il metodo privilegia l’esperienza e l’esemplificazione, fondendo la teoria di un manuale sui meccanismi della filiera con la pratica di oltre sessanta case study legati alla contemporaneità dell’editoria italiana, con una profondità storica che va dai primi «Gialli» Mondadori a Harry Potter, da Calvino a Eco, dal self publishing alle piattaforme social di crowdfunding.

LA VOCE DEI PROTAGONISTI

Il taglio saggistico, con molte citazioni che fanno ascoltare la voce degli addetti ai lavori, lascia il posto nella parte centrale ad approfondimenti più formativi, anche sulla terminologia di settore, con un glossario italiano e inglese di riepilogo e con contenuti extra nello spazio web Pandoracampus, dove sono presenti indici di ricerca aggiuntivi (di case editrici, collane, periodici, opere letterarie citate), aggiornamenti e materiali ulteriori, anche multimediali e video.

Come scrive l’autore, docente universitario ed editore di riferimento nel campo della poesia e della saggistica letteraria, «è un diario di viaggio esteriore e interiore, materiale e mentale, che ricostruisce e ricompone il complesso delle parti che costituiscono la macchina editoriale e che sono tra loro collegate in modo da ottenere gli effetti sperati: lo stupore di una storia che commuove in un romanzo, l’emozione di un pensiero suscitato in un saggio, l’entusiasmo di poter conoscere un mondo inesplorato in un manuale, le parole che non si trovavano rivelatesi d’un tratto in una poesia, i fenomeni emergenti che traghettano le nostre narrazioni in un mondo liquido e interattivo».

UNA PROSPETTIVA ATTUALE E FUTURA

Alla base sta una grande fiducia nelle parole perché, afferma ancora Cicala, «esiste un ruolo partecipato e responsabile di gestire ogni testo, non soltanto da parte di chi lavora direttamente all’allestimento di un libro, alla cui pratica queste pagine sono un approccio, ma anche da parte di chi desidera informarsi e aggiornarsi per vivere più pienamente l’uso delle parole nella propria funzione professionale e nel ruolo comune di lettori: insegnanti e formatori, operatori della comunicazione, addetti alle relazioni pubbliche in diversi contesti, anche in ambiti scientifici e tecnici. E non va dimenticata una lezione fondamentale dell’editoria utile per tutti: l’importanza di saper valutare l’apporto delle diverse competenze in un’ottica di équipe. Un libro è sempre un’opera collettiva e la conoscenza della filiera giova a una lettura più consapevole».

Significativa è poi la dedica del volume: «ai giovani che da vent’anni accompagno in questo viaggio di conoscenza dentro i meccanismi del mondo dell’editoria e che continuano ad accompagnarmi in una consapevolezza sempre nuova sul futuro dei libri nelle loro mani».

Alcuni dei casi editoriali trattati nel volume

L’officina delle streghe, dal Nome della rosa alla Chimera; Gli incipit di Pavese (e i finali di un romanzo); Le tre teste di Erich Linder; Il caso Harry Potter e il nome di Albus Silente; Il Signore degli Anelli: traduzioni con polemiche e denunce; I giudizi di Bobi Bazlen , suggeritore da Montale ad Adelphi; Sciascia ispiratore di Sellerio; Contini curatore filologo dello Struzzo; Le storie delle bambine ribelli progettate tra social e crowdfunding; La solitudine dei numeri primi: un successo di squadra; L’«editore protagonista» e altri tipi secondo Bompiani; L’«editore ideale» di Piero Gobetti; Il decalogo di Arnoldo Mondadori; Esempio di un contratto di edizione; Il caso Dottor Živago con diritti su scala mondiale; Categorie di lettori di… copertine; «Gialli» Mondadori: la collana che dà il nome a un genere; Ungaretti diventa un classico inaugurando «I Meridiani»; Emme di Rosellina Archinto: come svecchiare i libri per l’infanzia; Il nuovo tascabile italiano: 1/«Bur; Il nuovo tascabile italiano: 2/«Gli Oscar»; I risvolti critici dei «Gettoni» e lo strappo di Fenoglio; Le «riunioni del mercoledì» dell’Einaudi; Il gattopardo postumo, rifiutato ma non del tutto; Le scritture «servili» di Calvino per «i libri degli altri»; Sereni, il direttore editoriale con la passione per la poesia; Quando cambia lo statuto del testo: l’editing pesante di Vittorini; La donna che corregge gli scrittori da casa: Grazia Cherchi; Uniformare: esemplificazione di norme redazionali; I «castelli di carte» di Zanichelli: un lavoro collettivo da 150 anni; Il balletto dei titoli: tra Elsa Morante e Mario Rigoni Stern; L’importanza delle illustrazioni nella storia di Salani; La grafica Penguin dell’italiano Facetti; I simboli Uni di correzione; I formati di stampa e il caso Iperborea; L’ecologia al quadrato della carta con le alghe della laguna di Venezia; Il mito del Garamond dal Rinascimento a Steve Jobs; Stampare a caratteri mobili oggi: Tallone, Casiraghy e gli altri; Come leggere le cifre dell’Isbn; Ipertesto, bit e compressione: le basi dell’editoria multimediale; Dalla pietra alla rete: l’internazionalizzazione digitale di De Agostini; Soldati e Mondadori, il grande anticipo e la coda di paglia; La logistica di Messaggerie: un gigante editoriale; L’amica geniale tra ufficio stampa e passaparola; 1974: grande pubblicità e piccolo prezzo per La storia di Elsa Morante; 1975: l’attesa e il lancio internazionale di Horcynus Orca; Il valore delle code in fiera per avere una dedica di Zerocalcare; Quali premi contano di più? Lo Strega e gli altri; Una storia estera: le edizioni Gallimard; Camilleri nel mondo e fuori dal libro; Il Mulino: da amici lettori a editori; I diritti dei lettori di Rodari e Pennac; La fatwa ai versetti di Salman Rushdie; Per una lettura accessibile ai disabili: il progetto Lia; Il primo archivio letterario italiano: Il Fondo Manoscritti di Maria Corti; Cataloghi storici: il caso della prima university press, Vita e Pensiero; Gomorra di Saviano: un made in Italy transmediale; Audible e la voce delle parole: una tendenza; e altri casi nel testo.

La scheda del volume:
Roberto Cicala, I meccanismi dell’editoria. Il mondo dei libri dall’autore al lettore. IL MULINO, collana “Itinerari, pp. 272, euro 24, ISBN 978-88-15-29220-9



Booktrailer su YouTube: clicca qui.
Webinar di presentazione dei contenuti del libro e della piattaforma Pandoracampus: clicca qui.

I capitoli. Premessa. – INTRODUZIONE. UN LIBRO OGGI. – I. Quale prodotto culturale?. – II. Quale paradigma?. – LA STO­RIA DI UN LIBRO: DALL’AUTORE AL LETTORE. – I. Alle origini dei testi: la scrittura. – II. Fuori dalla casa editrice: consulenze e collaborazioni. – III. Dentro la casa editrice: organizzazione, editori, contratti. – IV. Collane tra generi e paratesto. – V. I testi in redazione: tra editing e grafica. – VI. La produzione del supporto: carta e caratteri in tipografia, legatoria e digitale. – VII. La promozione: il lancio del libro. – VIII. La lettura: spazi, rice­zione e nuove forme. – CONCLUSIONE. I LIBRI DOMANI? – I. Aria di pessimismo sulla situazione attuale. – II. Perché essere ottimisti sul futuro. – Libri sui libri. Bibliografia essenziale ragionata. – Indici dei nomi e dei termini editoriali italiani e inglesi.

L’autore. Roberto Cicala (1963) insegna presso l’Università Cattolica a Milano, dove dirige il Laboratorio di editoria, e l’Università di Pavia, è editore di Interlinea e scrive su “la Repubblica” e “Avvenire“. Ha pubblicato, tra l’altro: I libri di Carlo Dionisotti (All’insegna del Pesce d’Oro, 1998) e Bibliografia reboriana (Olschki, 2002) con Valerio Rossi; Inchiostri indelebili (Educatt, 2012). Ha curato antologie di poesia, opere di Clemente Rebora e Improvvisi di Sebastiano Vassalli (Fondazione Corriere della Sera, 2016). Vive tra Novara e Milano.

Selezione della rassegna stampa

-Gian Carlo Ferretti, Un vecchio malato sempre arzillo, in “L’Indice dei libri del mese”, 4 (2021), aprile, p. 2
-Andrea Kerbaker, I cento mestieri messi in campo dall’editore, in “Domenica”-“Sole 24 Ore”, 4 aprile 2021.
-Alessandro Zaccuri, Dentro l’editoria, una fabbrica di soli prototipi, in “Avvenire“, 7 marzo 2021.
-Luigi Mascheroni, Ma pubblicarli paga ancora, in “Il giornale”, 9 marzo 2021.
-Mario Baudino, Così Albus Silente non diventò un calabrone, in “La Stampa”-“TopNews”, 16 marzo 2021.
-Giuliano Vigini, Una storia ancora da scrivere, in “La Lettura”-“Corriere della Sera”, 16 maggio 2021.
-Alberto Riva, Digitale, carte e delivery. L’editoria volta pagina, in “Venerdì”-“la Repubblica”, 7 maggio 2021, pp. 56-57.
-Gian Luca Favetto, Cicala “Il libro soffre ma vivrà benissimo cambiando aspetto”, in “la Repubblica”, Torino, 12 marzo 2021.
–Oliviero Ponte di Pino, Come funziona l’editoria, in “Doppiozero”, 2 aprile 2021
–Giuseppe Marcenaro, Cicala e Piazzoni, storie e prospettive del fare libri al tempo della bulimia, in “Alias”-“Il manifesto”, 20 giugno 2021

–Dario Campione, La mutazione antropologica che cambia il futuro del libro, in “Corriere del Ticino”, 12 marzo 2021.
L’editoria che smaterializza i libri, in “Leggere Tutti”, marzo 2021, p. 56
-Paolo Di Stefano, E dopo il design il Museo dle Libro?, in “Corriere della Sera”, 16 giugno 2021
-Valentina Giusti, Come cambiano i meccanismi dell’editoria, in “Cattolica Library”, 3 marzo 2021.

-Marcello Giordani, Ogni libro è un’opera collettiva che oggi pensa anche in digitale, in “La Stampa”, Novara, 25 febbraio 2021.
-Eleonora Groppetti, Il mosaico della macchina editoriale, in “Corriere di Novara”, 18 marzo 2021.
Roberto Cicala: in un libro i meccanismi dell’editoria stravolti dal Coronavirus, “in “L’Azione”, 26 maro 2021.
Altri:
Dentro i meccanismi dell’editoria in evoluzione: una guida, in “Il Libraio”, 14 marzo 2021.
I meccanismi dell’editoria che smaterializza i libri. Tre casi, in “Nuova informazione bibliografica”, 1 (2021), gennaio-febbraio, pp. 157-160.
-Martina Marzi, I meccanismi dell’editoria, Il mondo dei libri dall’autore al lettore di Roberto Cicala, in “Professione editoria”, Università Cattolica.
Walter Fochesato, Tutto sui libri, in “Andersen”, ottobre 2021.
Barbara Sghiavetta, recensione a I meccanismi dell’editoria, in “Teca”, XII (2021), 4, pp. 173-176.
“I meccanismi dell’editoria. Il mondo dei libri dall’autore al lettore” di Roberto Cicala, in “Letture.org”, dicembre 2021.
Francesco Montonati, recensione a I meccanismi dell’editoria, in “FMontanati.com”, 19 aprile 2021.
Come cambiano i “meccanismi dell’editoria”: le nuove frontiere in un volume fra attualità e innovazione, “PremiocittadiComo.it”, novembre 2021.
Intervento su I meccanismi dell’editoria a “Fahrenheit”-Rai Radio3, 16 febbraio 2021.

Intervento su I meccanismi dell’editoria a “Fahrenheit”-Rai Radio3, 16 febbraio 2021


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Quel vizio di leggere che resiste (anche a dispetto del Covid-19) https://editoria.letteratura.it/quel-vizio-di-leggere-che-resiste/ https://editoria.letteratura.it/quel-vizio-di-leggere-che-resiste/#respond Sat, 19 Dec 2020 10:40:13 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8243 «Ciondolare per casa e guardare la tv» fotografa il lockdown che ha ridotto la lettura nel 2020, però finalmente in ripresa verso la fine dell’anno. Considerazioni sullo stato del libro e della lettura alla fine dell'anno di pandemia. Di Roberto Cicala.

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«Ciondolare per casa e guardare la tv» fotografa il lockdown che ha ridotto la lettura nel 2020, però finalmente in ripresa verso la fine dell’anno, ed è quanto i genitori chiedono alla Matilde di Roald Dahl. La passione della bambina per i libri sta nella domanda che fa, andando di nascosto in biblioteca, e che ogni bibliotecario vorrebbe ricevere: «Questo Dickens ha scritto altri libri?»

Matilde è uno dei 45 italiani su 100 che leggono almeno un libro l’anno; i suoi genitori gli altri 55 che non ne leggono neppure uno. Gli ultimi dati diffusi dall’Associazione editori fanno sperare sull’assorbimento del calo drammatico di vendita dei mesi centrali della pandemia ma non c’entrano con la crisi vera, che è cronica e coinvolge l’intera filiera, perché i contributi anti-Covid sono occasionali e da sempre manca una politica strutturata del libro (si pensi al sito per l’internazionalizzazione BooksinItaly.it: dal 2014 non è ancora partito, sostituito da un altro portale in avvio).

La morte annunciata del libro è così rinviata zittendo le banalità di chi giustifica la crisi con l’e-book (che ha una quota di mercato minima) perché la questione è la lettura, non i supporti fisici o liquidi, che funzionano se c’è una mediazione editoriale. E i tentativi di saltare la mediazione, tra self publishing e app virtuali, non pagano: lo sanno i lettori consapevoli che hanno bisogno di prodotti fatti bene grazie alle professionalità intellettuali coinvolte. È il segreto della tenuta del libro come prodotto necessario, non un surplus.

Il libro resiste perché il digitale pensato come avversario è invece la nuova anima della sua materialità così funzionate per contenere l’immaterialità della parola e delle storie. Dentro l’apparente debolezza di questo parallelepipedo di carta e inchiostro sta una forza ostinata di un settore che comunque in Italia è la prima industria culturale, comparabile con quella delle pay tv: non è poco.

Se a fine dicembre saranno azzerate le perdite di quest’anno nero ci troveremo a ripartire da dove eravamo. Come? Cercando di capire come il libro sta cambiando e quale sarà la sua nuova dimensione, dove gli store on line, grazie alla loro logistica vincente, fanno da battistrada nel balzo dell’e-commerce analizzato da Anna Zinola nel suo Io compro a casa (ed. Guerini Next) su «carrelli virtuali e reali» che non intaccano, in verità, la capacità del libro di essere non solo un prodotto ma soprattutto un servizio, un’esperienza.

Rodari insegna che il verbo leggere non vuole l’imperativo ma passione, come quella della Matilde di Dahl che supera le proteste dei genitori: «Diavolo, cosa non va con la tv? Abbiamo una stupenda tele a 24 pollici e vieni a chiederci un libro: sei viziata ragazza mia!» Il libro resiste se anche gli editori lavorano bene, con responsabilità, perché le nuove generazioni scoprano la passione per il libro: un gran bel vizio.

 

Roberto Cicala

(il testo riprende l’articolo pubblicato in “Libri e lettori”-“Avvenire”, dicembre 2020)


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Una visita alla libreria d’occasione Simon Tanner https://editoria.letteratura.it/libreria-doccasione-simon-tanner/ https://editoria.letteratura.it/libreria-doccasione-simon-tanner/#respond Thu, 08 Oct 2020 17:02:18 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8459 Attraverso le parole dirette dei proprietari conosciamo la libreria d'occasione Simon Tanner, luogo accogliente e fortemente identitario al tempo stesso.

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La libreria d’occasione Simon Tanner sorge in Via Lidia, nel quartiere di Appio Latino di Roma, a pochi passi da quel “pezzo di campagna romana” che è il parco della Caffarella. L’idea di aprirla nasce dall’incontro tra Rocco Lorusso e Vincenzo Goffredo.

La libreria deve il suo nome a uno dei personaggi del romanzo I fratelli Tanner di Robert Walser, che Rocco e Vincenzo considerano un capolavoro della letteratura del ‘900.

Rocco Lorusso e Vincenzo Goffredo con la loro gatta Tina.

Rocco e Vincenzo – con le loro meravigliose gatte Tina e Marylin – abitano e plasmano lo spazio con cura e passione, rendendolo al tempo stesso fortemente identitario e accogliente. Varcato l’ingresso, due comode poltrone offrono ospitalità all’avventore, quasi invitandolo a prendersi del tempo, a fare un giro per poi fermarsi a leggere o a sfogliare uno dei loro tanti libri, spesso altrove introvabili. Il bancone di Rocco e Vincenzo, invece, sorge quasi nell’ombra. I due, discretamente, assolvono i loro consueti lavori: spostano pile di libri, ricercano qualche titolo di cui sfugge momentaneamente la collocazione o sfogliano libri per valutarne il possibile acquisto. Il catalogo è tutto nella loro mente – sono loro –, pronto a essere consultato dai possibili lettori in qualunque momento.

Grazie all’ampio spazio di cui dispongono – una vera rarità tra le librerie di questo tipo – Rocco e Vincenzo riescono a dare vita a iniziative e incontri culturali, promuovendo negli anni alcuni dei loro autori più amati.

Che tipo di libreria vi definite?

Vincenzo: Libreria d’occasione.

Qual è il vostro modus operandi, a livello tecnico e logistico?

Vincenzo: Premessa, parliamo della situazione pre-COVID. Ci riforniamo da privati o in mercatini. A Roma, ma a volte è capitato anche di andare in Umbria o in zone circostanti.

Rocco: Anche a Milano. Una volta andavamo spesso per fiere: era anche un’occasione per rifornirsi. È capitato più di una volta che amici a Milano ci segnalassero persone che dovevano disfarsi di libri e noi li andavamo a prendere.

Dai privati prendete tutto o fate una cernita?

Rocco: Quasi mai prendiamo tutto. Sin dall’inizio dell’attività abbiamo sempre cercato di scegliere cosa portar via. Poi, molte volte, non proprio spessissimo, capita che venga accettato il prezzo che offriamo, ma a condizione di portar via anche il resto. Allora è un altro discorso, si porta via tutto perché è la conseguenza di un accordo.

Vincenzo: Oppure mandiamo associazioni di beneficenza a portar via ciò che proprio non ci interessa.

Anche perché siete solo voi due che vi occupate dell’attività, no?

Vincenzo: Sì. Considera anche che al mercato di Porta Portese – e qui forse l’imperfetto è adeguato – ogni tanto, quando si accumulavano troppi libri, facevamo delle offerte mono prezzo, per esempio tutto a 5 o a 2 euro. Lì ci andavano libri che ci avevano regalato acquistando altro materiale oppure che stavano in libreria da anni. Adesso, se e finché non riapre Porta Portese, sarà un problema perché non c’è più questa valvola di sfogo per sgombrare il materiale in più.

Però abbiamo sempre preferito non aggiungere costi, anche perché questi libri poi vanno stoccati, distribuiti, è comunque un lavoro in più, oltre che una spesa.

E, in generale, avete qualche politica di imposizione dei prezzi?

Rocco: Di solito per l’acquisto si fanno delle valutazioni. Se so che quei libri hanno un valore X, faccio un’offerta proporzionata a un mio plausibile ricavo. Ovviamente, qualora la persona dovesse fare una controproposta, il tetto lo si stabilirebbe sul momento. Non è una questione matematica. Anche perché il libro che vale 100 non esiste. Il valore di un libro, nel nostro lavoro, è sempre molto teorico. Dipende dal pubblico che hai, a chi lo proponi.

Vincenzo: Tranne il libro in catalogo, che è una parte del nostro lavoro. Quello lo vendiamo a metà prezzo e, se è un po’ rovinato, anche a meno.

Rocco: Lì è più semplice fare una valutazione, soprattutto se so che alcuni libri sono ancora disponibili nel mercato del nuovo. Per il libro di valore tutto sta un po’ nel raggiungere un accordo conveniente per entrambe le parti. Si opera una piccola trattativa.

Vincenzo: Negli ultimi anni poi è capitato abbastanza spesso – adesso un po’ meno – di trovare gente che cerca le quotazioni su internet, dove si trovano sempre quotazioni sballate verso l’alto. A volte capita che trovino la quotazione del tal libro a 500 euro, ma che tu a più di 100 quel libro non lo puoi vendere, quindi non gli puoi offrire più di 50. E si scandalizzano. Allora li inviti a chiamare la persona che glielo vende a 1000, di proporglielo a 500 e di vedere cosa gli risponde.

Rocco: Non gli darà nemmeno 50. Il mercato online negli ultimi anni è anche colpevole del degrado del tipo di lavoro che facciamo. Colpevole nel senso che si sono inseriti su un portale come Ebay o Amazon, ancor peggio, molti dilettanti. Questi canali lasciano le porte aperte a chiunque e, così, la confusione dilaga. Mentre prima c’erano solo Maremagnum e AbeBooks, per esempio, siti specifici di librerie e professionisti del mondo del libro usato, raro o antico. Qui ti accorgevi che i parametri del prezzo avevano una logica.

Vincenzo: Per il tipo di situazione in cui noi operiamo, sempre in era pre-COVID, dunque tra la libreria, Porta Portese e mercati vari in giro per l’Italia (piazza Diaz a Milano, mercati di Bologna, Salone del Libro Usato, etc.), abbiamo sempre cercato, per quanto riguarda il libro esaurito e raro, di fare dei prezzi che andassero bene per tutte queste situazioni. Per non cambiare prezzo in continuazione a seconda di dove porti il libro. Di norma i nostri prezzi sono più bassi di quelli che si trovano su internet. Tendiamo a fare prezzi che siano comunque vantaggiosi sia per l’acquirente occasionale di Porta Portese sia per l’appassionato di libri. Questo non è perché siamo più buoni, ma perché proprio non abbiamo la clientela, come hanno altri, di collezionisti dell’alta borghesia o dell’aristocrazia.

Rocco: Ognuno misura il proprio orto. Non c’è un ente che stabilisce il prezzo del libro raro, insomma.

Ecco, a proposito di questo tema, per che tipo di categorie di clienti volete o pensate di essere più appetibili?

Vincenzo: Per tutti. Dal ragazzo che fa il liceo e cerca il libro che gli hanno dato da leggere e lo vuole a metà prezzo, al collezionista. Ci è capitato di vendere libri molto importanti a fior di collezionisti.

Rocco: I limiti non sono quelli dei nostri desideri, ma quelli di dove realmente operi. La nostra libreria non è in corso Rinascimento, dietro il Pantheon o a Piazza Duomo a Milano, quindi in questa posizione geografica della città ci sono determinate caratteristiche. E proprio per queste caratteristiche, compresa la zona defilata, abbiamo potuto avere uno spazio molto grande (penso che sia la libreria d’occasione più grande di Roma).

Interno Simon Tanner.

Vincenzo: Distinguiamo tra un piano terra con i libri esauriti e rari e un piano di sotto con libri a metà prezzo, o comunque esauriti, ma di un minor valore commerciale, a nostro avviso. C’è chi viene e va solo al piano di sotto, chi invece solo al piano terra, ma un po’ tutti danno uno sguardo complessivo. Anche perché da noi una prima edizione può costare sui 10-12 euro, quasi meno del tascabile.

Rocco: Infatti, questa, chiamiamola così, “politica” che abbiamo adottato non so quanto possa essere redditizia, però ci consente di avere la soddisfazione di vedere che anche ragazzi, che magari devono fare esami per l’università, possono scegliere di comprarsi anche una prima edizione di Minima Moralia di Adorno perché ha un prezzo a loro accessibile. Quel libro ha per loro un valore importante, dato lo studio che gli hanno dedicato, e il fatto che sia una prima edizione contribuisce a questo valore. E vediamo che questi ragazzi, giovanissimi, cominciano anche a capire la nostra funzione di librai nel far apprezzare le cose di un certo valore. Una prima edizione di Pavese o di Adorno deve suscitare qualcosa in più, questo per noi è importante. Vedere che questo lavoro spesso produce l’effetto desiderato è una piccola soddisfazione.

Vincenzo: Anche perché spesso poi, soprattutto chi non le conosce, rimane incantato dalla bellezza, dalla sobrietà e dall’eleganza delle vecchie edizioni, rispetto allo sparato attuale. Spesso si innamorano proprio di questi oggetti.

Rocco: Fino a qualche tempo fa, prendevamo uno stand anche alla Festa dell’Unità. Lì era uno degli ambienti dove portavamo due terzi di libri economici, anche una quota di libri più rari. Un giochino che ci piaceva fare era quello di mettere vicine una prima edizione e una successiva, per far vedere anche esteticamente la differenza, far notare anche come, nella storia dell’editoria, la grafica editoriale sia mutata nel tempo. Poi a ognuno di giudicare quale fosse la più bella! Era un lavoro che si faceva volentieri in occasioni in cui c’era un pubblico prevalentemente giovane. Avere anche la funzione di far notare delle differenze: questo è un gesto che cerchiamo sempre di portare avanti ogni volta che ne abbiamo la possibilità.

Vincenzo: Libri particolarmente brutti cerchiamo di non averne, se vuoi per un gusto estetico.

No, ma è importante anche per la costruzione di uno spazio, di un luogo…

Vincenzo: Anche di un’identità, inutile negarlo, di mercato. A volte, perfino quando facciamo le offerte a due euro a Porta Portese e magari buttiamo dentro cose che ci hanno regalato e che normalmente non butteremmo dentro nemmeno a quel prezzo, succede che i clienti ci chiedano che ci faccia quel libro lì: risulta comunque un pugno dell’occhio.

Credo sia molto importante educare il gusto del pubblico.

Vincenzo: Non è snobberia, non abbiamo solo cose eccelse. Abbiamo anche curiosità, cosine simpatiche però, ecco, cerchiamo sempre di mantenere un livello di un certo tipo. Spesso diciamo che vendiamo solo i libri che ci piacciono, non necessariamente i libri che abbiamo letto, ma quelli che leggeremmo se avessimo 300 vite. Forse ci sono un paio di titoli sfuggiti al nostro vaglio critico, o comunque libri validi che non ci piacciono, ma che dobbiamo tenere per forza perché hanno una loro ragion d’essere. Il Mein Kampf lo teniamo perché è un documento storico, tanto per fare un esempio.

In situazioni come la nostra, in librerie o banchi, è anche l’unica maniera per trovare libri di autori considerati minori, per esempio del ‘900 italiano, che non vengono più ristampati. Avremmo piacere che questi autori si trovassero anche nelle librerie nuove e che la gente venisse da noi per prenderle a metà prezzo o per trovare la prima edizione, invece non è così, il che è un vantaggio per noi, ma non ci fa così piacere che per leggere Ercole Patti tu debba venire solo qua perché nessuno lo ristampa.

Rocco: Qui c’è tutto quello per cui saremmo felici di poter leggere e sfogliare se avessimo tante vite. È un mondo che però, ne siamo consapevoli, sta svanendo. Siamo rimasti proprio pochi. Da lì nasce forse la soddisfazione di vedere un “pischelletto” di 20 anni che apprezza quello che stai facendo, un’idea così palesemente di nicchia. Non tutto è perduto, c’è possibilità che qualcosa si evolva anche in meglio.

Quali sono le motivazioni della vostra scelta di non vendere sul web e di non fornire un catalogo consultabile online? Immagino che invece, per vostro uso, abbiate un catalogo a cui rifarvi.

Vincenzo e Rocco: No, no.

Fate tutto a memoria? Fantastici. 

Rocco: Più che una scelta, quella di non vendere online è stata una conseguenza del nostro tipo di lavoro. Non abbiamo deciso a priori. Negli ultimi anni, molto meno, ma fino a 6-8 anni fa muovevamo tonnellate di libri: in due, mettersi a catalogare con la libreria da gestire e i mercati in giro per l’Italia non era fattibile. Le piccole librerie che hanno solo la libreria facevano il nostro stesso incasso catalogando. Noi senza il catalogo, ma con i vari mercatini e mercatelli, riuscivamo a portare a casa più o meno la stessa cifra.

Era anche difficile poter inserire nella nostra identità un terzo. Questa è un’altra peculiarità di questo tipo di lavoro: siamo identificati come Rocco e Vincenzo da tanti anni. Inserire un altro elemento in quello che sembra un grande caos, ma che ha comunque un suo ordine, creatosi tra noi nel corso degli anni, non era fattibile. Chiunque si troverebbe malissimo. Siamo delle persone a cui tutti vogliono bene e che tutti stimano, ma sono sicuro che se chiedessimo a qualcuno di venire a lavorare una settimana con noi si troverebbe a disagio, e noi lo stesso.

Vincenzo: Sull’idea di Amazon come canale privilegiato per vendere i libri ho delle riserve in merito, specialmente per il libro d’occasione, usato e raro. Secondo me la materialità è essenziale.

Chi vende online fa una descrizione del libro, ma quello che per me è “in buono stato di conservazione” può non esserlo per te, tanto per dirne una. Inoltre, Il libro è inscindibile dalla sua esistenza fisica, ti spinge a toccarlo. Capita che la gente spesso venga da noi in cerca orientativamente di una cosa e ne trovi poi tutt’altra perché rimane affascinato da qualcosa di cui non conosceva l’esistenza, o che scopre chiacchierando, attraverso divagazioni e altri canali.

No, secondo me internet non è l’ideale per vendere i libri. Il libro è un oggetto, ma è anche una merce molto particolare che necessita di un’attenzione e di una cura specifica cui, soprattutto per quanto riguarda il libro d’occasione, Amazon non può sopperire. Se vendessimo libri soltanto online per noi diventerebbe un lavoro come un altro, come vendere caciotte. Per carità, le caciotte son buonissime, però il contatto con le persone e anche la scoperta reciproca verrebbero meno. Succede spesso che la gente venga qui e scopra cose che non conosce, ma anche a noi succede che la gente ci faccia scoprire o ci chieda cose che non abbiamo mai visto e nemmeno sentito. È un arricchimento continuo e reciproco.

Come e quando è nata la Simon Tanner? Da quanto esistete così?

Vincenzo: La libreria nasce 16 anni fa, ma ha alle spalle 15 anni di Porta Portese mia e 10 anni di Rocco. Io ho anche lavorato in una Feltrinelli, qui a Roma, per tre anni. Quando la Feltrinelli era tutta un’altra cosa, assolutamente l’opposto di oggi: quando racconto com’era organizzato il lavoro lì rispetto ad adesso la gente non ci crede. Comunque, c’era un qualcosa dietro: non puoi aprire una libreria come questa se non hai un’esperienza alle spalle, ti devi saper regolare sotto vari punti di vista. Molta gente affascinata ci chiede sempre: “Ma se aprissi una libreria…”. Noi sconsigliamo sempre tutti, non per guastare la festa, ma perché è un lavoro di cui è difficile vivere. E se non ti orizzonti per bene nel mare immenso di titoli, autori, editori, non ne esci fuori. È una giungla tale che devi avere il tuo machete mentale per andarci dentro.

Rocco: I nostri stessi colleghi (all’epoca tanti, almeno 20-30), per lo più librai come noi di Porta Portese, quando abbiamo aperto si immaginavano una piccola libreria, un piccolo magazzino, più o meno arrangiato. All’inaugurazione, quando si sono ritrovati di fronte a questo spazio (oltre 200 mq) si sono veramente stupiti, pensando che fossimo impazziti.

C’è un motivo particolare perché avete scelto di aprire la libreria proprio ad Appio Latino?

Vincenzo: Non volevamo un posto centrale, ma cercavamo un posto grande, in una zona che non fosse neanche troppo periferica. Dopo molte ricerche, trovammo questa via che, non essendo commerciale, costava abbastanza meno rispetto ai prezzi che si trovavano all’epoca. Ci è piaciuto anche il fatto che a cento metri inizia il parco della Caffarella, che non è un parco urbano, ma un pezzo di campagna romana con le rovine, i pastori, che entra quasi fino nel centro della città. Ci piaceva l’idea che uno potesse comprare da noi un libro, andarsene al parco e starci anche tutta la giornata.

Aprire il piccolo locale in centro con la stessa cifra significava fare soltanto i libri rari e non ci piaceva l’idea. Volevamo anche un posto dove la gente potesse venire, sedersi, stare, a prescindere dall’acquisto.

Dunque, la libreria come spazio di aggregazione, di incontro, di esperienza. Da quanto e in che modo riuscite a coniugare il vostro lavoro, anche dal punto logistico e gestionale, con l’organizzazione di eventi culturali e di promozione di temi che vi appassionano?

Il poeta e scrittore Robert Walser (Biesl 1878 – Herisau 1956).

Rocco: Le iniziative hanno preso vita quasi fin da subito. Nel 2006, a nemmeno due anni dall’apertura, ricorrevano i 50 anni dalla morte di Robert Walser, l’autore dei Fratelli Tanner, a cui è dedicata la libreria, e abbiamo colto l’occasione. Avevamo in mente di programmare un evento per ricordarlo e poi invece si è trasformato in una programmazione lunghissima di due mesi, con cinque appuntamenti molto grandi, che ha avuto un’eco anche sui giornali.

Rocco: Fare questi eventi rientrava anche nello spirito del perché abbiamo scelto un posto così grande. Ci piace l’avere una sala sopra da poter usare per far diventare questa libreria un centro di aggregazione per interessi, per affinità. Questa è stata una cosa molto bella che adesso, ovviamente, non sapremo come potrà andare avanti.

Vincenzo: Comunque ha avuto ottimi risultati, soprattutto per far conoscere la libreria. Non tanto per l’incasso che fai la sera, quanto per il fatto che quasi sempre abbiamo visto che la gente che era venuta era rimasta contenta. Magari poi ne hanno parlato a qualcun altro e per noi questo è fondamentale. Anzi, adesso proprio che avevamo preso un bel ritmo e ne facevamo uno al mese…

A proposito degli autori che più amate, negli anni avete cercato di promuoverli e diffonderli in modo particolare?

Vincenzo: Sì, infatti a Roma siamo conosciuti come “quelli di Robert Walser e Antonia Pozzi”!

Rocco: Beh, Robert Walser fu una sfida agli inizi, chiamando la libreria Simon Tanner. Quando abbiamo inaugurato prendemmo da Adelphi cento copie dei Fratelli Tanner: a tutti quelli che venivano nei primi tempi e sapevano a cosa si riferisse il nome regalavamo una copia. Penso che avessimo regalato meno di dieci copie. Però nel tempo, dopo la serie di incontri che facemmo su di lui, anche in collaborazione con l’Istituto Svizzero e la Pro Helvetia, siamo diventati quelli di Robert Walser e Simon Tanner.

La poetessa Antonia Pozzi (Milano 1912 – Milano 1938).

Poi abbiamo avuto l’occasione di dedicare un evento ad Antonia Pozzi, poetessa milanese, morta suicida, che a noi piace in modo particolare. Ci siamo probabilmente mossi abbastanza bene perché siamo riusciti a contattare la biografa, Alessandra Cenni, e la invitammo a presentare. In maniera del tutto casuale proprio in quei giorni Garzanti stava ripubblicando la raccolta di tutte le sue opere, di cui ci arrivarono 28 copie. La serata fu un successo sbalorditivo, soprattutto considerando che Antonia Pozzi non è molto nota (ci saranno state tre persone che la conoscevano). Gli altri vennero forse per la fiducia che ci siamo guadagnati nel tempo con le iniziative promosse. Le 28 copie sono volate: è stato l’unico libro nuovo venduto in questa libreria, esaurito subito.

Vincenzo: Rocco ebbe anche l’idea di fare dei segnalibri con le poesie di Antonia Pozzi. Facemmo due serie di sei e li portammo in giro per i mercati d’Italia, distribuendoli a tutti. Avemmo i complimenti del Centro Antonia Pozzi a Milano che ci disse che probabilmente nessuno più di noi aveva fatto conoscere la poetessa. Molti leggevano queste poesie, rimanevano folgorati e si chiedevano chi le avesse scritte.

Rocco: Alcune iniziative sono nate proprio come un gioco. Una volta a settimana, sempre il giovedì, facevamo degli incontri sugli articoli determinativi, poi su quelli indeterminativi. Oppure raccoglievamo delle parole dai clienti, la sera ne sorteggiavamo tre e ne parlavamo. Un bellissimo gioco da cui sono venute fuori serate meravigliose.

Come vi rapportate con altre realtà come la vostra, con la “concorrenza”?

Vincenzo: Come ti accennavamo, è un mondo in cui ognuno la vede a modo suo. Ci sono personalità anche molto particolari. A Roma si dice: se non so’ matti non ce li volemo, per cui a volte con qualcuno è anche difficile andare d’accordo. Per noi la concorrenza non esiste. Anche a Porta Portese: prima eravamo solo noi a vendere libri nel nostro angolo di mercato, poi sono arrivati altri e molti ci hanno detto: “Ah, ma vi fanno concorrenza”. Ma manco per sogno, anzi, perché creano un polo.

Rocco: Se in quartiere qualcuno aprisse una libreria, io sarei ben contento. Due? Ancora di più! Se ci fossero altre due librerie una quota del mercato sarebbe costretta a venire in Via Lidia, poi, che vinca il migliore. Sarebbe stato comunque, dal punto di vista commerciale, un vantaggio, non uno svantaggio.

Vi ringrazio e vi faccio i miei complimenti perché, oltre al grande carisma e alla passione, avete anche molto coraggio. Mi piacerebbe che posti come questo fossero più diffusi. I miei migliori auguri per il futuro.

 

Ricerca nata all’interno del corso di Editoria Letteraria, tenuto dal professore Roberto Cicala, promosso dal Collegio Santa Caterina per l’Università degli Studi di Pavia, nell’a.a. 2019/2020. Progetto a cura di Maria Fera.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Il correttore di bozze nella letteratura: il caso Saramago https://editoria.letteratura.it/correttore-bozze-saramago/ https://editoria.letteratura.it/correttore-bozze-saramago/#respond Thu, 05 Mar 2020 13:41:08 +0000 http://www/EDITORIA.LETTERATURA/wordpress/?p=8061 Che cosa serve per lavorare in editoria? Qualche suggerimento in questo articolo, dove in particolare ci soffermiamo su una delle figure più ricercate: il correttore di bozze, di cui José Saramago ha fornito un incredibile ritratto nel romanzo "Storia dell'assedio di Lisbona".

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Lavorare in editoria è il sogno di molti ma, come ben sa chiunque abbia provato a inviare qualche curricula nei più sconosciuti studi editoriali di provincia, non è facile: le case editrici raramente mettono annunci di ricerca del personale e, quando lo fanno, la concorrenza è elevata e agguerrita. Si richiedono infatti specifiche competenze (diverse dalle conoscenze, che pure sono necessarie per essere dei professionisti seri): fin dagli anni dell’università bisogna essere capaci di usare i «ferri del mestiere», conoscere programmi di video impaginazione – ormai il più comune è InDesign – e parlare in modo fluente almeno una lingua straniera oltre all’inglese; a ciò si aggiungono capacità relazionali, curiosità intellettuale e apertura mentale. Last but not least, come direbbero gli anglofoni, passione per i libri e il mondo che vi ruota attorno.

Da dove iniziare, dunque, per proporsi a una casa editrice? Fondamentali sono solide basi teoriche – importante la conoscenza della storia dell’editoria e della filiera editoriale, ma senza dimenticare una puntuale ricerca circa la posizione e l’azienda presso la quale ci si candida – e qualche competenza tecnica. La più ricercata, soprattutto all’inizio, è quella della correzione di bozze, cui ci ha introdotti Gabriele Legramandi nel volume Narrami o libro. Quando i romanzi parlano di editoria (presentazione di Roberto Cicala, illustrazioni di Tullio Pericoli, EDUCatt, Milano 2012). La correzione è in fondo un aspetto essenziale della pubblicazione di un libro: nella Storia dell’assedio di Lisbona basta un “non” e tutto cambia. Sarà forse perché, come afferma George Steiner, «un correttore di bozze può essere l’allegoria di qualcuno che voglia correggere il mondo»?

Quando un correttore di bozze cambia la Storia

Tutto parte da un “no”, aggiunto deliberatamente da Raimundo Silva, tetro correttore di bozze, in un saggio storico sull’assedio di Lisbona del 1147. Un “no” irrevocabile, un delitto ontologico necessario affinché dalle sue ceneri l’ormai defunto revisore possa rinascere autore della nuova storia dell’assedio e soprattutto autore della sua vita, che dalla rassegnata solitudine dei suoi 50 anni troverà nell’amore incredulo e passionale per la sua diretta superiore il suo riscatto. […] La Storia dell’assedio di Lisbona esce in Portogallo nel 1989 e un anno dopo in Italia nella collana “Romanzo Bompiani”. Già nel 1992 il romanzo viene ripubblicato dalla stessa casa editrice nella serie “Grandi tascabili” mentre nel 2000 i diritti dell’opera sono acquistati da Einaudi che la inserisce negli “Einaudi Tascabili”. Con quest’opera il premio Nobel 1998 apre la più fortunata stagione della sua carriera letteraria, come scrive Angela Bianchini: «Quest’ultimo Saramago appare, seppure un po’ più sentimentale, più saggio e convincente che mai, capace di trasformare la propria amarezza politica di comunista deluso, l’accusa ai “mostri sacri”, ai “testi intoccabili”, in un’opera di cui non si vorrebbe mutare una virgola».

(Gabriele Legramandi)

Copertina della Storia dell’assedio di Lisbona di José Saramago

È da due minuti che Raimundo Silva guarda, in un modo così fisso che sembra distratto, la pagina a cui si trovano consegnati questi irremovibili fatti della Storia, non perché sospetti che vi si celi ancora qualche errore, qualche perfido refuso che avesse avuto l’abilità di nascondersi nelle pieghe di una costruzione grammaticale tortuosa e che adesso, facendo capolino, lo provochi, al riparo anche dalla sua stanca vista e dal sonno generale che lo invade e lo intorpidisce. […] E come affascinato, legge, rilegge, torna a leggere la stessa riga, questa che ogni volta afferma bellamente che i crociati aiuteranno i portoghesi a prendere Lisbona.

Ha voluto il caso, o è stata piuttosto la fatalità, che queste univoche parole fossero riunite in una sola riga, presentandosi così con la forza di un’iscrizione, sono come un distico, un’inappellabile sentenza, ma suonano anche come una provocazione, come se stessero dicendo ironicamente, Fai di me un’altra cosa, se sei capace.

[…] Per favore, signor revisore, ci dica dov’è che sta la cretinata, l’errore che ci sfugge, è naturale, noi non godiamo della sua grande esperienza, ma sappiamo leggere, lo creda, sì, lei ha ragione, non capiamo sempre tutto, s’immagina subito perché, la preparazione tecnica, signor revisore, la preparazione tecnica, e anche, confessiamolo, a volte ci prende la pigrizia di andare a guardare sul dizionario i significati, è l’unica cosa che ci pregiudica. È una cretinata, insiste Raimundo Silva come se stesse rispondendoci, non farò una cosa simile, e per quale motivo la farebbe, un revisore è una persona seria nel suo lavoro, non scherza, non è un prestigiatore, rispetta quello che è stabilito in grammatiche e prontuari, si basa sulle regole e non le modifica, obbedisce a un codice deontologico non scritto ma imperioso, è un conservatore obbligato dalle convenzioni a nascondere le proprie voluttà, i propri dubbi, se talvolta ne ha, se li tiene per sé, figurarsi se metterà un no dove l’autore ha scritto sì, questo revisore non lo farà.

Le parole che il dottor Jekyll ha appena detto tentano di opporsi ad altre che non siamo riusciti a sentire, quelle che ha detto Mr. Hyde, non ci sarebbe bisogno di citare questi due nomi per capire che in questo vecchio palazzo del quartiere del castello stiamo assistendo a un’altra lotta fra il campione angelico e il campione diabolico, quei due di cui sono costituite e in cui si dividono le creature, ci riferiamo a quelle umane, senza escludere i revisori.

Ma questa battaglia, sfortunatamente, la vincerà Mr. Hyde, si capisce dalla maniera come Raimundo Silva sta sorridendo in questo momento, con un’espressione che da lui non ci aspettavamo, di pura malignità, gli sono scomparsi dal viso tutti i lineamenti del dottor Jekyll, è evidente che alla fine ha preso una decisione, e che è stata quella cattiva, con mano salda tiene la biro e aggiunge una parola alla pagina, una parola che lo storico non ha scritto, che in nome della verità storica non potrebbe essere stata mai scritta, la parola NON, e quello che adesso il libro dice è che i crociati NON aiuteranno i portoghesi a conquistare Lisbona, così è scritto e quindi è diventato verità, anche se diversa, quello che chiamiamo falso ha prevalso su quello che chiamiamo vero, ne ha preso il posto, qualcuno dovrebbe raccontare la storia nuova, e come.

Brano tratto da:
Gabriele Legramandi, Il correttore di bozze. Storia dell’assedio di Lisbona di José Saramago, in Narrami o libro. Quando i romanzi parlano di editoria, presentazione di Roberto Cicala, illustrazioni di Tullio Pericoli, EDUCatt, Milano 2012, pp. [82]-83.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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