laboratorio, Autore presso Editoria & Letteratura https://editoria.letteratura.it/author/laboratorio/ Blog del Laboratorio di editoria diretto da Roberto Cicala Fri, 29 Nov 2024 12:07:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.5 https://editoria.letteratura.it/wp-content/uploads/2019/01/cropped-Icona-e1547805980831-32x32.png laboratorio, Autore presso Editoria & Letteratura https://editoria.letteratura.it/author/laboratorio/ 32 32 Luciano Foà tra Einaudi e Adelphi https://editoria.letteratura.it/luciano-foa-una-carriera-tra-einaudi-e-adelphi/ https://editoria.letteratura.it/luciano-foa-una-carriera-tra-einaudi-e-adelphi/#respond Thu, 24 Oct 2024 10:45:19 +0000 https://editoria.letteratura.it/?p=9024 Divergenze editoriali, ideologia e concorrenza interna: attraverso le carte d’archivio e alcune interviste radio-televisive inedite, una tesi approfondisce le ragioni che condussero Luciano Foà ad abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi. Nato a Milano nel 1915 da Augusto Foà e Emma Agnelli, Giuseppe Luciano Foà ha rivestito un ruolo di rilievo nell’editoria italiana del Novecento in […]

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Divergenze editoriali, ideologia e concorrenza interna: attraverso le carte d’archivio e alcune interviste radio-televisive inedite, una tesi approfondisce le ragioni che condussero Luciano Foà ad abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi.

Nato a Milano nel 1915 da Augusto Foà e Emma Agnelli, Giuseppe Luciano Foà ha rivestito un ruolo di rilievo nell’editoria italiana del Novecento in qualità di agente letterario, traduttore, consulente, segretario generale ed editore a tutto tondo. Suggerito a Giulio Einaudi da Cesare Pavese, Foà rivestì l’incarico di segretario generale della casa editrice dello Struzzo negli anni cinquanta: un ruolo ricoperto per dieci anni e interrotto ufficialmente nell’estate del 1961, con il trasferimento da Torino a Milano e la fondazione di Adelphi nel giugno 1962 insieme con Roberto Bazlen, Alberto Zevi e Roberto Olivetti.
Dover rendere ragione di una questione così complessa come l’uscita di Luciano Foà dalla casa editrice Einaudi può suscitare un certo spaesamento: sono state fornite molteplici chiavi di lettura per descrivere la fondazione di Adelphi, ritenuta dai più il frutto di uno scisma avvenuto nel nome controverso di Nietzsche, una sostanziale rottura con il marxismo, l’illuminismo e il razionalismo dell’Einaudi. Da questa connotazione rigorosamente ideologica alcuni studi hanno preso le distanze, ascrivendola a una mitografia editoriale fallace e non suffragata da fonti, prediligendo piuttosto un ritorno alla storiografia, con un’attenzione maggiore riservata a quei documenti che avvalorano una realtà più composita.
Ebbene, la soluzione più razionale che si è voluto perseguire in questo lavoro di tesi è stata quella di prendere finalmente atto che le motivazioni sottese alla decisione di Luciano Foà di porre fine alla collaborazione con la Einaudi furono molteplici e di diverso ordine. Nel tentativo di restituire una ricostruzione degli eventi aderente alla verità così come intesa dall’editore, sono state raccolte quante più testimonianze dirette possibili, cercando un punto di equilibrio tra l’esercizio del pensiero critico sulle fonti e l’evitamento di interpretazioni polarizzanti. Premesse delle ragioni di carattere strettamente famigliare, ovvero il peggioramento delle condizioni di salute della moglie di Foà, Luisa Schiralli, che al principio degli anni sessanta avevano reso impellente il trasferimento da Torino a Milano, si è riscontrata la necessità di accogliere tutte le altre cause addotte da Foà in occasione dei rari interventi ad oggi rintracciabili.

L’uscita dall’Einaudi e la “questione Nietzsche”: tra mistificazioni e inesattezze

Nel maggio 1986 veniva mandato in onda su RAI Tre Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi,[1] un reportage giornalistico sulla casa editrice torinese, nonché «un brano di storia, un quadro di costume, una radunanza di protagonisti della cultura e infine un ragionamento sull’“utilità sociale” dell’editoria impegnata».[2] Con un intento informativo, il racconto televisivo si proponeva di ripercorrere in chiave divulgativa i trascorsi della casa editrice, le scelte editoriali, le collane, i rapporti con gli autori, i criteri della grafica, ma anche gli «errori compiuti» e le «difficoltà sopravvenute». Tra i numerosi interventi di coloro che maggiormente collaborarono alla definizione del progetto editoriale, troviamo anche quello di Luciano Foà, il cui racconto approdava rapidamente alle cause della separazione dall’Einaudi:

Sul piano del lavoro, io avevo cercato appunto di aprire, in un certo senso, una piccola strada nuova con la consulenza di Roberto Bazlen, che partì da quella famosa lettera in cui lui dava un parere su L’uomo senza qualità di Musil.
Io ero amico di Bazlen dal ’38, quindi lo conoscevo da parecchio tempo, conoscevo le sue idee, i suoi gusti, e naturalmente mi dispiaceva che la sua posizione di consulente fosse un po’ sacrificata: così mi è nata l’idea di poter fondare una nuova casa editrice, anche se la cosa non fosse così ben chiara quando io ho lasciato l’Einaudi.[3]

Da queste prime parole si può evincere come la figura dell’amico Bazlen avesse rappresentato un tassello fondamentale nella ridefinizione da parte di Luciano Foà delle proprie aspettative, in larga parte disattese, rivolte alle pubblicazioni della Einaudi; ma, più genericamente, si potrebbe parlare di un mutamento della concezione di casa editrice, catalogo e suggestioni culturali. Nel proseguire la disamina di quegli anni di transizione, Foà non poteva poi non accennare alla questione che gli studi di editoria letteraria avrebbero associato alla sua scelta di lasciare la casa editrice nel luglio 1961, ovvero la rinuncia da parte della Einaudi a pubblicare le Opere complete di Friedrich Nietzsche:

Uno degli ultimi fatti che non riguarda Bazlen, ma che riguarda [Giorgio] Colli, che mi ha dato un’ulteriore spinta, fu quando lui propose alla casa editrice Einaudi – che aveva già in programma di fare nei Millenni un’edizione delle opere di Nietzsche – di fare un’edizione critica in quanto aveva potuto avere accesso, attraverso anche [Mazzino] Montinari, all’archivio di Weimar e di vedere l’infinità di materiale ancora inedito che c’era, e quindi la possibilità di fare un’edizione critica che i tedeschi non avevano, anche perché i tedeschi non volevano andare a Weimar. In questo punto venne rifiutata su pareri diversi: mi ricordo quello di Cantimori insomma.
[L’edizione critica fu] rifiutata in modo definitivo dopo che io lasciai la Einaudi, qualche mese dopo. E questo appunto poi venne a coincidere un po’ con la fondazione della casa editrice, dell’Adelphi, e quindi con l’accettazione della proposta stessa da parte nostra.[4]

Luciano Foà e Giorgio Colli

Luciano Foà e Giorgio Colli. Fonte: Archivio Giorgio Colli.

Per quanto Foà, assecondando uno spirito di realismo manageriale che lo contraddistingueva, tendesse a indicare come origine del rifiuto einaudiano anche l’impegno finanziario proibitivo legato al progetto editoriale avanzato da Giorgio Colli e Mazzino Montinari,[5] non poteva comunque sottrarsi dal fare i conti con quella dirompenza politica e culturale che in ambito accademico aveva suscitato non poche polemiche.[6] Oltre all’irrazionalismo, il filosofo tedesco era al tempo associato indissolubilmente – e come si sarebbe poi dimostrato, impropriamente – all’antisemitismo, al nazismo e al fascismo.[7] Il risultato delle considerazioni su Nietzsche di Delio Cantimori fu quello di consolidare lo scetticismo che sul piano di politica culturale era già ampiamente diffuso fra i membri del consiglio editoriale dell’Einaudi.[8] Pur non avendo rappresentato la causa determinante per il rifiuto definitivo, la critica dello storico sarebbe rimasta impressa tanto nella memoria della casa editrice quanto in quella di Luciano Foà, a cui di volta in volta si sarebbe riferito attraverso le definizioni di «parere», «famoso giudizio negativo» e vero e proprio «veto ideologico».[9] Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale fosse stata la narrazione dei fatti legati alla “questione Nietzsche” suggerita dall’editore stesso, Giulio Eiunadi, che nel Colloquio con Severino Cesari avrebbe menzionato quel «momento di crisi» di cui Colli e l’edizione di Nietzsche erano stati protagonisti;[10] si può qui osservare come il punto di vista di Einaudi fosse ricaduto subito sulla gravità economica del progetto editoriale, in una sostanziale linea di continuità con le riflessioni di pragmatismo imprenditoriale di Foà. Nel proseguire il racconto, per l’editore era tuttavia impossibile sottrarsi dall’ammettere il «contrasto» e la «confusione» che si sarebbero creati con l’eventuale aggiunta nel catalogo di «dosi massicce di Nietzsche» (parole atte a indicare la percezione dell’impraticabilità di un distanziamento così netto dalla politica editoriale della Einaudi, legata al PCI), puntualizzando al tempo stesso che l’assenza «di pregiudizi di altra natura verso certi autori del “pensiero negativo”» sarebbe stata dimostrata dalla lettura «dei verbali del mercoledì degli anni cinquanta». Se infatti la casa editrice aveva promosso un’opera come La distruzione della ragione di György Lukács,[11] non si poteva dire che avesse escluso aprioristicamente Nietzsche dalle proprie pubblicazioni:[12] per Claudio Rugafiori «l’Einaudi non respinse le opere di Nietzsche, ma le Opere complete di Nietzsche proprio in quanto complete. Giulio Einaudi non sopportava l’idea, la considerava la bara di un autore».[13] Su questi punti si sarebbe espresso anche Giulio Bollati, il quale – relativamente al funzionamento del dibattito culturale all’interno della Einaudi e alla presunta egemonia-dittatura marxista vigente – avrebbe parlato del rifiuto dell’edizione Colli-Montinari come di «un caso di autocensura o di incomprensione» dettato dalla «posizione particolarmente scomoda» in cui versava la casa editrice:

Il dibattito si svolgeva come si svolge ancora oggi, i libri nascevano dalla discussione e dalle proposte degli interni, dei consulenti, degli amici. La tesi di Galli della Loggia, che la Einaudi sia stata la forza trainante di una dittatura marxista, mi sembra una semplificazione davvero assai rozza. Può esserci stato, piuttosto, qualche caso di autocensura o di incomprensione; nei confronti di Nietzsche, per esempio, che al gruppo torinese gramsciano-gobettiano allora non diceva nulla. Non va dimenticato che in quegli anni di guerra fredda la nostra posizione era particolarmente scomoda: chi non era schierato su posizioni moderate era considerato automaticamente comunista, ma se non era allineato all’ortodossia del partito rischiava di essere bollato come intellettuale velleitario. Noi eravamo sempre in mezzo: il che, beninteso, non comportava solo svantaggi, ma anche un grande senso di libertà. Tutte le nostre scelte, anche quelle che oggi depreco, come il rifiuto di Nietzsche, furono fatte con assoluta convinzione e al di fuori di ogni costrizione.[14]

Si potrebbe concludere che per quanto Nietzsche fosse stato marginalizzato e oggetto di un retropensiero difficile da scardinare,[15] l’Einaudi si era opposta all’idea di un’edizione completa, ma non al filosofo tout court: dai verbali del mercoledì si può osservare, a esempio, come la proposta dello stesso Luciano Foà di pubblicare per l’“Universale” le Lettere di Nietzsche fosse stata accolta con favore qualche mese prima dell’abbandono della casa editrice.[16] L’intreccio di «implicazioni personali, culturali, filologiche ed editoriali» che ha prodotto il “caso Nietzsche” risulterebbe talmente complesso da non poter «ridurre» in modo semplicistico il rifiuto einaudiano «a una volgare questione di censura ideologica».[17]
Ciononostante, a fronte delle innumerevoli attestazioni in cui il segretario generale aveva spontaneamente denunciato il clima refrattario a certe tendenze culturali all’interno della casa editrice dello Struzzo alla fine degli anni ’50, si ritiene che non sia possibile affermare che alle spalle dell’uscita di Foà dalla casa editrice non fossero state presenti anche motivazioni di stampo ideologico.

Ideologia e politica

Ho lasciato l’Einaudi per ragioni soprattutto famigliari e anche perché incominciavo a sentirmi troppo stretto da un punto di vista ideologico, anche se Einaudi era una casa editrice con un’ideologia chiamiamo “aperta”, ma insomma sempre troppo stretta per me.[18]

Luciano Foà (in piedi) con Giulio Einaudi negli anni cinquanta (tratta da E. FERRERO, Il signore degli Adelphi, in “La Stampa”, 8 dicembre 1990).

Luciano Foà (in piedi) con Giulio Einaudi negli anni cinquanta (tratta da E. FERRERO, Il signore degli Adelphi, in “La Stampa”, 8 dicembre 1990).

Una valutazione attenta del materiale raccolto non può esimersi dal tenere in forte considerazione il risvolto politico comportato dal rifiuto einaudiano di pubblicare l’opera omnia di Nietzsche: difatti, sulla base di almeno altre cinque dichiarazioni rilasciate dallo stesso Foà attraverso differenti canali radio-televisivi e periodici, in un arco temporale che va dagli anni settanta agli anni novanta, si evince in modo lampante l’insofferenza che l’allora segretario generale aveva provato rispetto ai vincoli ideologici che, più o meno silenziosamente, si erano manifestati nella casa editrice torinese: limiti che l’Adelphi si era promessa di oltrepassare.[19]
In tale frangente, le lettere indirizzate da Luciano Foà nel corso degli anni a diversi giornali – al fine di mitigare e ridimensionare il peso di alcune sue affermazioni riportate in articoli d’intervista precedentemente pubblicati – rispondevano non tanto a una reale volontà di negare o sminuire le cause ideologiche che lo avevano spinto a lasciare l’Einaudi, quanto al tentativo di non compromettere la propria esperienza decennale in casa editrice e salvaguardare i rapporti personali che lì si erano stabiliti. Basti pensare alla Lettera al Direttore scritta da Foà nel dicembre 1972 e volta a puntualizzare, «soprattutto per correttezza verso altre persone», alcune sue dichiarazioni trascritte da Enzo Siciliano in un articolo pubblicato su “La Stampa”:[20]

Nel 1951 andai a lavorare a Torino, da Einaudi, per dare il mio contributo a un programma culturale e politico che aveva la mia più completa adesione. Perciò, per gran parte dei dieci anni in cui fui presso Einaudi, il mio lavoro, contrariamente a quanto è scritto nell’intervista, “si mescolò” strettamente con i miei “interessi culturali diretti”. Lasciai Einaudi, nel 1961, per un concorso di ragioni familiari e di amichevole dissenso sull’organizzazione della casa editrice e sul suo programma.[21]

Foà specificava come avesse aderito pienamente al «programma culturale e politico» della Einaudi «per gran parte dei dieci anni» di lavoro: un’affermazione che sanciva l’identificazione con la linea editoriale della casa dello Struzzo durante gli anni cinquanta, ma che al tempo stesso sottintendeva un momento di crisi – come si vedrà, più di uno – che lo aveva portato a non sentirsi più parte integrante del progetto einaudiano.
A soli tre anni di distanza l’ex segretario generale avrebbe sentito nuovamente l’urgenza di specificare e contestualizzare alcune dichiarazioni che aveva rilasciato a Silvia Giacomoni per la rivista “Prima Comunicazione”:[22] nella lettera del dicembre 1975 Foà ribadiva, infatti, la «soddisfazione» per il lavoro svolto all’Einaudi e l’«affetto e ammirazione» a essa rivolti, per poi accostarsi all’argomento spinoso del rapporto cultura-politica all’interno della casa editrice.[23] Quello di cui l’editore di Adelphi voleva dar conto attraverso l’espressione «malinconico ideologismo» era il rispecchiamento della frangia più ideologizzata della Einaudi con «la situazione generale della cultura di sinistra italiana», denunciando, in sostanza, un approccio alla cultura limitante e concepito, anche dopo i fatti d’Ungheria del ’56, esclusivamente come strumento di «lotta politica». Gli indugi del consiglio editoriale sul nome di Nietzsche erano stati il frutto di «questo temporaneo “sfasamento” tra un certo ideologismo e una realtà che si rivelava in quegli anni molto più complessa degli schemi invalsi nel periodo della guerra fredda»: una tendenza che Foà ascriveva al periodo compreso tra «la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta» e che, tuttavia, al tempo della scrittura della lettera considerava ormai ampiamente superata. Relegando il rifiuto einaudiano dell’opera omnia di Nietzsche a un momento di passaggio che era stato complesso per l’intero sistema culturale e politico italiano, Foà intendeva assolvere l’Einaudi da ogni accusa di censura ideologica; restituiva, così, un’immagine della casa editrice che «nei vari momenti “storici” del dopoguerra» si era dimostrata e si dimostrava ancora «tra le istituzioni culturali più aperte della sinistra italiana» e fautrice di un’influenza «positiva sulla politica delle sinistre».
Nel mettere a confronto il contenuto delle due lettere sopracitate con le fonti fin ora prese in esame si individuano delle oscillazioni di pensiero a volte di difficile interpretazione, attraverso le quali è possibile dedurre gli ostacoli che Foà dovette affrontare al momento di descrivere il proprio distacco dalla Einaudi, di riportare con le giuste misure una fase che lo aveva visto coinvolto sul piano personale, oltre che professionale: si rileva, in sostanza, la tendenza dall’ex segretario generale a voler evitare fraintendimenti e a non rinnegare un percorso che era stato molto importante nella definizione delle proprie inclinazioni editoriali.
Inoltre, è necessario sottolineare che addurre delle ragioni ideologiche per l’allontanamento di Foà dalla casa editrice non equivale a sottintendere un suo distanziamento dalle posizioni politiche del Partito Comunista Italiano – si noti come qualche mese prima dell’articolo in “Prima Comunicazione” l’editore avesse aderito all’appello lanciato da alcuni intellettuali italiani per un voto di rinnovamento al PCI –, ma alla percezione sperimentata in Einaudi di un ostacolo alla libertà editoriale.[24] Anche dopo l’uscita dal partito a seguito della rivelazione del rapporto Chruščëv e della crisi d’Ungheria, Foà sarebbe rimasto ancora allineato agli ideali di quella corrente, pur non condividendone la «filosofia» o la «metafisica»: «l’idea che il marxismo sia un mezzo insostituibile per interpretare la realtà».[25]
Dall’intervento del ’75 si evincerebbe come la sfera ideologica avesse orientato la decisione di Foà solo parzialmente, non costituendo il motivo «più importante».[26] Anche Giulio Bollati avrebbe dichiarato che la “secessione” di Foà dall’Einaudi non era stata determinata da scelte editoriali come quella sul filosofo tedesco, dal momento che nel caso del segretario il distacco era avvenuto «prima della proposta Nietzsche».[27] Per Bollati le motivazioni di Foà rispondevano, invece, a un «fenomeno assolutamente fisiologico» che aveva visto persone diverse staccarsi «dal tronco comune di una casa editrice, per così dire, “ecumenica” all’interno della sinistra» e trovare «a poco a poco la loro “identità specifica”». Gli interessi di Foà erano rivolti alla «letteratura attenta ai valori psicologico-esistenziali» promossa dall’amico Bobi Bazlen. Una “tendenza” per la quale il segretario generale aveva chiesto più spazio all’interno della casa editrice: «Einaudi glielo concesse in una misura per Foà insufficiente, e questo soprattutto per ragioni di equilibrio e di “linea”, e Foà se ne andò fondando Adelphi. Poco dopo venne la proposta Nietzsche».[28]

Adelphi specchio di Foà e Bazlen

Foà avrebbe ricordato come nel periodo iniziale della loro conoscenza Bazlen avesse esercitato su di lui «una pura e semplice azione pedagogica»,[29] ricorrendo spesso ad un aggettivo specifico per descrivere il rapporto consulenziale instauratosi negli anni tra l’intellettuale triestino e la casa editrice torinese, ovvero «morganatico»:[30] si riferiva alla natura stessa del rapporto Bazlen-Einaudi, che non fu mai diretto, ma sempre mantenuto per interposta persona, attraverso lo stesso Foà, prima, e attraverso Daniele Ponchiroli dopo il luglio 1961. Difatti Bazlen non avrebbe mai partecipato alle riunioni del mercoledì con gli altri consulenti della casa editrice, bensì le sue valutazioni critiche venivano esaminate in primo luogo da Foà, per poi passare a Calvino e, infine, al consiglio editoriale. Le lettere inviate al segretario generale esprimevano un giudizio che per la forma e per il contenuto risultava unico nel proprio genere.[31]
Al di là delle evidenti difficoltà riscontrate dagli editori nell’approcciarsi a una personalità come quella Bazlen, «non si può affermare» che presso l’Einaudi «le sue indicazioni vennero sistematicamente disattese», ma, anzi, risultarono determinanti per l’edizione di diversi libri.[32] Il caso più eclatante si verificò con L’uomo senza qualità di Robert Musil, per la cui pubblicazione il parere di Bazlen si era rivelato decisivo:[33] in una conversazione radiofonica del settembre 1993, invitato da Elisabetta Mondello a descrivere la propria esperienza nella casa editrice torinese, Luciano Foà avrebbe ripercorso con Giulio Einaudi il “caso Musil”:

Einaudi: Io ricordo, però, sempre una grande riconoscenza per Bazlen. È lui che ci ha portato Musil in casa editrice, o sbaglio?
Foà: No, lui ha fatto un parere, dopo che l’aveva già fatto Bobbio [ride] ti ricordi?
Einaudi: Sì.
Foà: Io quando arrivai all’Einaudi sapevo che Bobbio stava leggendo Musil, L’uomo senza qualità. Il parere di Bobbio, mi ricordo, era sostanzialmente favorevole, ma dicendo che era assolutamente impossibile pubblicarlo per la sua lunghezza, per la sua complessità. Allora io, arrivato da poco, sempre nel ’51, lo mandai a Bazlen, e lui poi scrisse quella lettera sulla base della quale anche lui facendo delle riserve riguardo la lunghezza ecc., però c’era talmente un elemento di entusiasmo che è bastato quello perché si decidesse di farlo.
Einaudi: Ecco, vedi, c’è la riconoscenza per un consulente di cui tutti noi ammiriamo la grande qualità intellettuale. Ti ringrazio Luciano di questa testimonianza.[34]

Ma, a conti fatti, per Foà il contributo che Bobi Bazlen era riuscito ad apportare risultava comunque troppo «limitato». Eccezion fatta per i «sei o sette» libri consigliati e pubblicati, molti altri non erano stati accolti: tra le occasioni mancate dell’Einaudi, Il demone meschino di Fëdor Sologub e i Misteri di Knut Hamsun. Foà riteneva che le proposte di Bazlen fossero troppo «in anticipo sui tempi» e «inattuali» per essere considerate intrinsecamente nel proprio valore culturale dagli editori del tempo.[35] D’altra parte, negli anni cinquanta l’intellettuale triestino era già stato responsabile per la Astrolabio di Mario Ubaldini delle traduzioni di Freud e Jung destinate a “Psiche e coscienza”, collana codiretta insieme a Ernst Bernhard, il primo psicanalista junghiano in Italia. Bazlen era affascinato dalla psicologia, dalla parapsicologia e dall’esoterismo, tematiche che già aveva tentato di far confluire nelle NEI di Adriano Olivetti e di cui la collezione “Cultura dell’anima” diretta da Giovanni Papini per Carabba all’inizio del secolo era stata principale iniziatrice.[36] Ma l’intervento di Bazlen non si era fermato alla diffusione della psicanalisi (introdotta in Italia, prima di lui, da Edoardo Weiss, allievo di Sigmund Freud): ai tempi della collaborazione con Astrolabio aveva infatti partecipato alla traduzione dell’I Ching. Il Libro dei Mutamenti,[37] promuovendo di fatto la cultura orientale in un contesto, quello italiano, che nel dopoguerra si teneva ben distante da tutti quei saperi tacciati di irrazionalismo.[38]
Sappiamo come sul piano della gestione dell’impresa editoriale l’Adelphi fosse stata espressione della direzione di Luciano Foà, che già nel ’71, nell’ambito della trasmissione radiofonica Piccolo Pianeta, aveva avuto modo di delineare chiaramente gli ostacoli riscontrati dalle piccole case editrici in Italia;[39] intervista nella quale Foà aveva fornito una presentazione programmatica dell’Adelphi e un suo netto posizionamento rispetto alla correlazione, generalmente percepita, tra la figura del «piccolo editore» e una «maggiore selezione culturale» da un lato, tra la «grande casa editrice» e un «allargamento di produzione tale da risultare a discredito del livello culturale» dall’altro:

Penso che l’allargamento della produzione di una casa editrice non può che metter capo a un annacquamento e indebolimento del valore culturale in senso, però, di scoperta di valori nuovi, di nuove linee culturali, non già nel senso di una cultura di massa, di un “fornire degli strumenti di lavoro”, come si usa dire, ma più per il lavoro, diciamo così, un po’ pionieristico, di avanguardia: questo lavoro di punta che implica non inserirsi nelle mode, non dare la caccia ai bestsellers, ma un momento di riflessione che implica anche un riesame di un passato anche prossimo. Per fare questo lavoro bisogna essere estremamente selettivi, quindi non essere trasportati dall’esigenza di produrre, ma in un certo senso capovolgere il rapporto e produrre solo quello che si vuole produrre.

Luciano Foà tra le sue carte, anni ottanta.

Luciano Foà tra le sue carte, anni ottanta. Fonte: Archivio Giorgio Colli.

«Non essere trasportati dall’esigenza di produrre», non identificare i libri in «prodotti»: si potrebbe dire, non assecondare una visione capitalista della cultura e slegare il processo di selezione editoriale da un interesse esclusivo di carattere economico. Un’idea di impegno, quella di Foà, che sposava ancora perfettamente la categoria einaudiana di «editoria “sì”», pur nell’evidente distanza progettuale.[40]
Per l’editore di Adelphi la passione letteraria e politica era sorta alla lettura del saggio Ends and Means di Aldous Huxley (1937), che segnava la conversione dell’autore dallo scetticismo al pacifismo. Il fascino rivolto allo scrittore britannico era ancora ben presente alla fine degli anni settanta, quando in un’intervista rilasciata a Giulio Nascimbeni per Tuttilibri Foà accostava Guido Morselli agli autori «che si possono trovare nella letteratura inglese del Novecento, in quell’arco che va da Wells a Huxley».[41] Le riflessioni critiche di Foà su Un dramma borghese – opera di Morselli appena pubblicata dalla casa editrice e avente come tema centrale l’incesto – riecheggiavano chiaramente la concezione bazleniana dei “libri unici”, ovvero di quei romanzi, memorie o saggi che meritavano di essere letti e pubblicati poichè nati da un’esperienza diretta dell’autore.[42] Al criterio dell’unicità si univa quello strettamente interconnesso della “primavoltità”, un concetto coniato dallo stesso Bazlen e riassumibile come «il legame fra qualcosa che era successo e chi gli dava un nome»; un legame che, qualora si fosse presentato in modo «abrupto e irripetibile», avrebbe goduto di una «qualità ulteriore, una forza d’urto che poi si sarebbe dissipata».[43] Una parola per indicare le sensazioni che si percepiscono quando si fa qualcosa per la prima volta, quando si assume la consapevolezza che qualcosa sta per cambiare per sempre:[44] in definitiva, la primavoltità è il carattere insieme autobiografico, esperienzale e impellente dal quale emerge la scrittura letteraria.[45] Nonostante la scomparsa di Bazlen nel 1965, la sua eredità non sarebbe andata perduta: non stupisce, dunque, la scelta di pubblicare postume le opere di Guido Morselli, che nello scrivere Dissipatio aveva messo in scena la crisi esistenziale e il suicidio del protagonista, il suicidio che l’autore stesso avrebbe commesso pochi mesi dopo l’ultimazione del libro.

La lettera del 13 giugno 1961

L’eccessiva lontananza di Bazlen dal programma editoriale della Einaudi rendeva necessario progettare uno spazio diverso, tanto che nel ’61 Foà aveva già redatto un «programma molto generico» di libri che la casa editrice aveva rifiutato e che avrebbero potuto trovare una nuova collocazione: all’insoddisfazione per le proposte disattese dell’amico triestino si univano però delle motivazioni più personali, «una certa scontentezza» derivata dal silenzio di Einaudi rispetto ai consigli, alle aspirazioni e alle esigenze progettuali espresse dallo stesso Foà.[46] Nel maggio 1961 il segretario generale scriveva a Giulio Einaudi per «concludere il discorso cominciato qualche settimana fa a proposito di un possibile mio nuovo rapporto con la Casa» dopo il trasferimento da Torino a Milano previsto in autunno.[47] Il 7 giugno l’editore torinese prendeva atto «con estremo dispiacere» della decisione di Foà di lasciare la casa editrice, facendo riferimento in modo alquanto sbrigativo a tutta una serie di «idee» che quest’ultimo aveva elaborato nel corso degli anni e che, per svariati motivi, non erano state validate.[48] Come dichiarato dal futuro editore dell’Adelphi in un’intervista a Ernesto Ferrero, negli ultimi tempi presso l’Einaudi aveva sollecitato «una collana di classici a prezzo medio» e auspicato «una qualche grande opera per sostenere le vendite rateali».[49] Verso quest’ultima direzione avrebbe potuto spingere «l’enciclopedia McGraw-Hill della scienza e della tecnica» che Calvino aveva portato dall’America: «costava cento milioni di allora, ma ci mancavano le forze redazionali per realizzarla». E non senza amarezza Foà constatava che per quanto «su questi problemi» si scambiassero «lunghi memoriali scritti» che sembravano preludere a un accordo comune, di fatto «non capitava nulla». Non è quindi casuale che un anno e mezzo dopo la fondazione dell’Adelphi, ovvero alla fine del 1963, per «seguire una strada più riparata nell’inizio delle nostre attività» e per pubblicare importanti «opere che non c’erano oppure che erano pubblicate in edizioni non soddisfacenti», il punto di partenza sarebbe stato segnato proprio da quella collana di classici rifiutata da Einaudi.[50] Nella lettera sopracitata l’editore difendeva la propria scelta sostenendo che i classici proposti da Foà avessero già una propria collocazione presso la casa editrice, identificando unicamente nel settore biografico e memorialistico, seppur già inserito nelle diverse collane esistenti, una possibile collezione a sé stante;[51] teneva però a precisare come il carattere «commerciale» di quelle questioni esulasse «dagli interessi propri tuoi e miei personali», quasi a ribadire che il rifiuto fosse stato dettato, oltre che da una scelta di linea e interesse editoriali, anche di mercato. Tuttavia, Foà non avrebbe mancato di osservare a posteriori come non molto dopo la sua uscita dalla casa editrice la Einaudi stessa avesse fondato la “Nuova Universale Einaudi”: «una collana dedicata ai classici che corrispondeva molto bene a quella che era la mia impostazione da un punto di vista “industriale”».[52] A ideare la collana nel ’62 era stato Giulio Bollati, che alla fine degli anni sessanta aveva acquisito un ruolo di maggiore preminenza all’interno della casa editrice come collaboratore, subentrando, per ammissione di Einaudi stesso, a quella «centralità» che per molti anni era stata condivisa con Foà:[53]

Quando è morto Pavese, Bollati aveva ventidue anni. Si è fatto pian piano con me. Ma non è che dall’inizio, io vedo subito Pavese o Calvino o Bollati come “motori” o “perni”. In quegli anni c’era un altro personaggio che mandava avanti la casa editrice: Luciano Foà. Non possiamo dimenticare che per dieci anni, dal ’45 al ’55 [sic] è stato segretario generale. Con Luciano Foà mi sembrava di essere a cavallo, finalmente ho uno che ha pratica di lavoro, intelligente, colto, viene da Milano senza essere per l’efficientismo fine a sé stesso. Naturalmente veniva a scontrarsi con Bollati, che pian piano emergeva, diventando la voce del padrone, e Luciano Foà, mentre la malattia di una persona cara lo spingeva a tornare a Milano, sente che io ascolto ormai più l’altro che lui. A lui mi rivolgevo per dire: perché non pagate questo? Perché non pagate quell’altro? Ma di progetti, di idee, parlavo sempre di più con Bollati che con lui.[54]

La mancata realizzazione della collana di classici era stata sicuramente significativa per Foà, tanto da obbligare Einaudi, che voleva individuare soprattutto in questo le ragioni delle dimissioni, a ribadire le proprie motivazioni per il rifiuto; tuttavia, in queste dichiarazioni a Severino Cesari si manifesta un aspetto forse ancora più delicato, ovvero che a essere messa in discussione dall’editore non era stata soltanto la proposta della singola collana, ma più in generale il contributo in termini «di progetti» e «di idee» che Foà avrebbe potuto apportare alla casa editrice in qualità di «direttore editoriale».[55] Non stupisce quindi la reazione di Foà alle parole di Einaudi, che il 13 giugno 1961 scriveva all’editore una lunga e dettagliata lettera per «fare un po’ di storia» e dar conto della complessità di quella concatenazione di eventi che lo aveva motivato ad abbandonare la casa editrice, e che a suo giudizio era stata riassunta dall’editore in «modo un po’ spiccio». Per la sua netta «chiarezza» d’intenti, volta a dissipare quegli «equivoci» che «servono talora per la convivenza, ma sono sempre ingiustificati e senza attenuanti quando ci si lascia», questa lettera costituisce una delle fonti più importanti per conoscere le cause di un distacco «doloroso» ma ormai inevitabile.[56]
È evidente come Foà avesse deciso di esporre in modo trasparente un processo di disaffezione dalla casa editrice che non era stato subitaneo, ma lento e non privo di gravi mancanze, da una parte, e di tentativi di risoluzione, dall’altra. Quello che Foà non poteva assecondare era l’intento di Einaudi di deresponsabilizzarsi per l’accaduto mostrandosi condiscendente alle smanie del segretario generale. Al culminare degli anni cinquanta si erano presentati ben tre momenti di «crisi» a cui non era stata trovata una degna conclusione, e che Foà non si sarebbe risparmiato dal descrivere minuziosamente. Da un punto di vista prettamente «economico», dopo la crisi einaudiana degli anni ’56-’58, in cui Foà si era visto remunerato (inverosimilmente) più per la sua attività presso l’ALI che dalla casa editrice, l’editore sarebbe riuscito a venire incontro alle esigenze del segretario generale. Ma a solo un anno di distanza dalla «prima» crisi del ’59, nei primi mesi del ’60, se ne sarebbe presentata una «seconda» che, concesso (dopo diverse sollecitazioni) un ulteriore miglioramento sul piano economico, avrebbe investito in modo preponderante l’ambito del lavoro redazionale: come avrebbe confessato a Ernesto Ferrero, a fronte di una situazione finanziaria più stabile per la casa editrice Foà avvertiva ormai «un’esigenza d’ordine interno, la necessità di darci strutture più solide e chiare»,[57] che concretamente richiedeva «una più razionale organizzazione del lavoro». Il risvolto più personale della questione lo si vedeva nella richiesta esplicita del segretario di voler «esercitare funzioni di maggiore responsabilità» e di un «controllo effettivo sull’esecuzione del lavoro redazionale»: d’altra parte, a un aumento stipendiale avrebbe dovuto corrispondere un ruolo di maggiore spessore. A queste istanze Einaudi aveva risposto predisponendo delle riunioni tra i consulenti della casa editrice al ritorno di Calvino dall’America. Un’impostazione, quella delle riunioni, che il segretario aveva giudicato e giudicava ancora, senza mezzi termini, «errata», poiché bisognava sì prendere atto dei problemi ascoltando l’opinione di ciascuno singolarmente, ma «per essere conclusiva» la discussione avrebbe dovuto svolgersi tra pochi stretti, ovvero Einaudi, Bollati, Calvino e lo stesso Foà. Malgrado tutto, l’ostacolo più grande si era presentato nel momento in cui, convocato insieme a Giulio Bollati nell’ufficio di Einaudi per una ripartizione dei compiti, il segretario prendeva atto che il lavoro affidatogli dall’editore non rispondeva più al piano dell’ideazione e della progettazione, ma consisteva in un controllo del «lavoro redazionale» che altro non avrebbe fatto se non mettergli tra le mani «molto lavoro spicciolo». Si era verificato, in poche parole, quel tacito passaggio di testimone per il quale Foà non sarebbe stato più consultato in qualità di consigliere editoriale, ma come amministratore di un’attività puramente esecutiva «sempre più assorbente». Nella speranza (vana) di una maggiore partecipazione, Foà doveva constatare come le «decisioni importanti» venissero prese da Einaudi senza sentire il suo parere, come le riunioni atte alla discussione di problemi generali fossero ormai quasi del tutto scomparse, nonché appurare l’impossibilità di parlare con l’editore «persino delle questioni specifiche del mio lavoro».[58] Questo clima di insoddisfazioni nell’autunno del ’60 non era stato ancora risollevato, e Foà comprendeva che probabilmente non ci sarebbero stati più i presupposti per risollevarlo. Con la «terza crisi» del ’61 si chiudeva il cerchio: la «riorganizzazione del lavoro editoriale» era una condizione necessaria e non più rinviabile. Ed è a questo punto che segue un’asserzione tanto inaspettata quanto lapidaria:

Posso ora dirti che se, su questo punto, tu mi avessi dato soddisfazione (ciò che non voleva certo dire che tu dovessi accettare tutte le mie idee al riguardo) di crisi non ce ne sarebbero più state, malgrado la situazione mia familiare che tu conosci. La mia permanenza alla Casa editrice sarebbe stata definitiva o, almeno, definitiva nei limiti di tutte le cose di questo mondo.

Queste parole non lascerebbero adito a dubbi: il fattore determinante per la scelta di Foà di abbandonare la casa editrice fu dettato dalla totale mancanza di ascolto rispetto a quel «senso di un preciso dovere verso la Casa editrice e verso di te di far valere con la maggiore energia l’istanza di un miglioramento del lavoro comune», dall’assenza di un coinvolgimento diretto nel programma da parte di Giulio Einaudi. Se l’editore avesse tentato di trovare una mediazione, è molto probabile che Foà sarebbe rimasto a lavorare ancora a Torino per la casa editrice, ovviando ai problemi famigliari. C’è da chiedersi, certo, in quale misura Foà avrebbe potuto convivere ancora con le distanze culturali dell’amico Bazlen dalla linea editoriale della casa dello Struzzo, con le resistenze «agli sconfinamenti spiritualistici» dell’intellettuale triestino.[59] Si ritiene che il complesso di cause di vario genere cui si è fatta menzione inviterebbe forse, in ultima analisi, a ponderare con cautela questa ipotesi avanzata dal segretario di una sua «permanenza definitiva» a Torino se solo Giulio Einaudi si fosse prodigato per venire incontro alle sue esigenze: è preferibile ampliare lo spettro e sottrarsi dal dedurre da questa sola dichiarazione che le uniche e vere motivazioni di Foà fossero rappresentate da quelle esposte nella lettera privata a Einaudi. L’assenza della “questione Nietzsche” all’interno del documento farebbe supporre verosimilmente che Foà avesse preferito non alludere per iscritto a un argomento dai connotati ideologico-politici così spigolosi, prediligendo probabilmente un dialogo de visu: d’altro canto, come si è visto, sarebbe stato proprio l’ex segretario generale, nell’ambito della trasmissione Biografia di un catalogo, a specificare come l’edizione Colli-Montinari avesse costuito a tutti gli effetti «un’ulteriore spinta» a lasciare l’Einaudi.
È bene sottolineare come il rapporto amicale con Giulio Einaudi sarebbe rimasto positivo nonostante i trascorsi sul piano professionale. Pur non limitandosi nell’esplicitare delle riserve sul programma della casa editrice milanese, Einaudi si sarebbe riferito sempre con termini di apprezzamento al lavoro e alla figura del passato collaboratore: «I saggi Adelphi sono di una assoluta pulizia, c’è un amico, Luciano Foà, che stimo moltissimo».[60] A dimostrare ulteriormente come le basi del rapporto amicale Foà-Einaudi fossero tutt’altro che minate in modo irresolubile vi è una lettera inviata dall’ex segretario generale all’editore dello Struzzo il 16 aprile 1962 inerente alla stesura di «un preventivo delle spese redazionali» di un’anonima «rivista» internazionale (quasi certamente, Gulliver),[61] che attesta la disponibilità di Foà a dare il proprio contributo ai progetti einaudiani anche dopo il distacco.[62]
Ma ci si chiede ancora, nel turbinio delle affermazioni di personalità come Giulio Einaudi e Roberto Calasso, quale fosse il pensiero nascosto di Foà in merito all’idea generalmente diffusa di un antagonismo inscindibile tra l’Einaudi e l’Adelphi. Una possibile traccia la si potrebbe identificare nel contesto già citato della lunga intervista radiofonica che Elisabetta Mondello aveva registrato con Einaudi, attraverso quella che appare, oggi, una chiara presa di posizione espressa da Foà all’inizio del suo personale intervento:

Mondello: Con quale spirito, secondo lei, sono nate le tante case editrici che in qualche modo sono collegabili poi all’Einaudi per filiazione, diciamo per germinazione, oppure perché l’Einaudi ad alcuni personaggi è stata stretta?
Foà: Voglio distinguere, perché poi di queste case editrici che hanno avuto dei rapporti con Einaudi attraverso chi le ha fondate, c’è Paolo Boringhieri, che nel ’55-’56 si distaccò, lui prima era redattore e si occupava della parte scientifica della casa editrice Einaudi, poi acquistò tutte le collane scientifiche, compresa quella etnologica, e proseguì sulla strada di queste collane, ne fece poi delle altre, ma insomma cominciò col rilevare queste due collane.
Per quanto riguarda me, non si può dire che io possa essere una “filiazione” se si pensa al programma della casa editrice Einaudi e al programma dell’Adelphi. Certo, io ho imparato moltissimo nei dieci anni che sono stato da Einaudi, dal ’51 al ’61: ho imparato il mestiere. Io avevo fatto già qualche anno prima, anzi parecchi anni prima, un’altra esperienza, durata molto poco a causa della guerra, per quella casa editrice che Adriano Olivetti voleva fare preparandosi dopo la caduta del fascismo, quindi con un programma molto importante, in cui il consulente fondamentale era Roberto Bazlen, ma che durò solo due anni perché poi ci disperdemmo dopo l’8 settembre del ’43. Quindi, io fondando la casa editrice Adelphi volevo fare delle cose diverse da quelle che venivano fatte da Einaudi: quindi, non c’è una filiazione dal punto di vista del programma. Semplicemente ci sono io che sono un tramite, in quanto prima lavoravo in Einaudi.[63]

Se il contenuto della dichiarazione è già rilevante di per sè, ad amplificarne l’importanza è anche l’ambito nel quale l’intervento andava a inserirsi: la registrazione era stata realizzata nel 1993 in occasione del compimento dei sessant’anni della Einaudi. Luciano Foà, «collegato per telefono da Milano», dichiarava pubblicamente in presenza dell’amico-editore di voler fare una netta distinzione tra il processo di fondazione dell’Adelphi e quello della casa editrice di Paolo Boringhieri: se infatti quest’ultima risultava come emanazione diretta delle collane scientifiche della Einaudi, lo stesso non lo si poteva dire per l’Adelphi, che era nata per dare spazio alle idee inattuali di Bazlen in totale assenza di un fil rouge che la facesse discendere dal programma dell’editore torinese. Pur consapevole e grato dell’esperienza accumulata nel corso degli anni cinquanta come segretario generale, Foà considerava quel capitolo della propria vita professionale chiuso definitivamente nel 1961, rifiutando con fermezza la concezione di sé e della propria casa editrice come un semplice e puro prolungamento derivato dalla casa dello Struzzo, della quale, piuttosto, si riteneva un «tramite». Quella che Foà aveva messo in atto in Paesaggio con figure era una rivendicazione dell’originalità e della paternità del progetto editoriale a cui lui e Bazlen avevano dato luce: Adelphi.

Estratto-sintesi dalla tesi di Davide Siano Luciano Foà: le motivazioni del passaggio dall’Einaudi all’Adelphi, relatore Prof. Roberto Cicala, Università degli Studi di Pavia, anno accademico 2022-2023.

[1] Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, programma andato in onda su Rai Tre il 10 maggio 1986. Il servizio fu realizzato nella sede Rai di Torino dal regista Bruno Gambarotta e coordinato e curato, in collaborazione con Gambarotta, da Cesare Dapino.

[2] U. Buzzolan, Einaudi. Biografia della casa editrice che segnò un’epoca, in “La Stampa”, 10 maggio 1986. Da qui i riferimenti utili all’identificazione della trasmissione e le successive citazioni.

[3] Trascrizione dell’intervento inedito di Luciano Foà in Biografia di un catalogo (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).

[4] L’abbandono definitivo del progetto, comunicato a Colli da Einaudi nell’autunno 1961, sarebbe stato poi discusso nella riunione editoriale del 24 gennaio 1962. L’incontro aveva visto presenti: Antonicelli, Bobbio, Bollati, Caprioglio, Castelnuovo, Einaudi, Fonzi, Lanternari, Serini, Solmi e Venturi. Di seguito si riporta l’intervento verbalizzato di Solmi: «Questione del Nietzsche. Serini è per il sì. (Lunga discussione pro o contro). Non lo facciamo. Il Consiglio raccomanda alla Direzione di fare tutto il possibile per sganciarsi»: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, Einaudi, Torino 2013, p. 532. In una testimonianza raccolta in A. Sofri, Federico il pendolare, in “Panorama”, 22 febbraio 1987, Foà sembrerebbe alludere alla riunione del ’62: «Nel luglio del 1961 io lasciai la Einaudi; seppi poi che di lì a poco c’era stata una discussione in un “mercoledì” einaudiano, conclusa con la decisione di lasciar cadere anche la traduzione delle opere già in cantiere. Ne rilevammo noi i diritti. Un anno e mezzo dopo la comparsa del primo libro Adelphi, uscì, nel 1964, il primo volume delle opere di Nietzsche».

[5] Nell’intervista rilasciata a U. Costamagna in Tenacia, costanza e coerenza furono le sue peculiarità. A colloquio con Luciano Foà della casa editrice “Adelphi”, in “Il quotidiano di Lecce”, 9 febbraio 1980, alla domanda se la mancata pubblicazione fosse stata dovuta alla paura di Giulio Einaudi o dei suoi collaboratori «di spostare la casa editrice troppo a “destra”», Foà avrebbe risposto: «Ritengo di no. La risposta negativa data da Einaudi era forse giustificata dalla vastità del compito e dal gravoso impegno finanziario che richiedeva»: FAAM (a indicare d’ora in poi la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano), Giorgio Colli, b. 26, fasc. 022 (1980). Sempre sulla questione economica Foà si espresse anche in altri suoi interventi: in R. Barbolini, Fratelli di carta, in “Panorama”, 7 gennaio 1994, p. 94: «[Dopo la proposta di Colli di un’edizione critica di tutta l’opera di Nietzsche] Einaudi si spaventò, proprio per la portata economica dell’impresa»; in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi, in “La Stampa”, 8 dicembre 1990: «A orientare negativamente Einaudi non ci fu solo il veto ideologico di Cantimori […], ma anche i forti costi dell’operazione»; in A. Sofri, Federico il pendolare: «La mole dell’impresa cresceva, e con essa il rilievo culturale, ma anche l’impegno finanziario e politico. Einaudi non se la sentì, e con Colli fu la rottura». Si segnala che alcuni degli articoli che verranno citati sono stati raccolti in Adelphi. Editoria dall’altra parte, Oblique studio, Roma 2016.

[6] Ci si riferisce qui all’articolo pubblicato da Cesare Vasoli in cui lo storico della filosofia si era opposto ai progetti editoriali promossi da Giorgio Colli dell’edizione critica di Nietzsche (Einaudi) e della collana “Enciclopedia di autori classici” (Boringhieri) in quanto considerati «una nuova fuga dalla realtà e dalla storia», degli ostacoli al tentativo della «parte più viva della cultura filosofica […] di inserirsi nel processo vitale dello sviluppo storico del paese»: cfr. C. Vasoli, A che servono i filosofi in Italia, in “Itinerari”, n.49, maggio 1961 (VIII), p. 97: cfr. G. Campioni, Leggere Nietzsche. Alle origini dell’edizione critica Colli-Montinari, ETS editrice, Pisa 1992, pp. 63-64. A sentirsi coinvolto direttamente nella critica di Vasoli vi era stato anche lo storico Delio Cantimori, che in una lettera di apologia avrebbe ribadito con forza la necessità di una conoscenza storica di Nietzsche, astenendosi però dal conferire al filosofo tedesco una piena legittimità letteraria: cfr. Lettera di Delio Cantimori a “Itinerari” del settembre-ottobre 1961, in D. Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari 1967, pp. 88-97.

[7] Nell’approcciarsi alla raccolta degli scritti postumi di Nietzsche – il Nachlass –, fin dai primi giorni di consultazione a Weimar Montinari avrebbe riscontrato il problema delle lacune e delle interpolazioni filologiche che la sorella del filosofo, Elisabeth Förster-Nietzsche, aveva arbitrariamente compiuto nella Grossoktav-Ausgabe (Leipzing 1895 sgg.), l’edizione canonica in diciannove volumi delle opere complete nietzschiane da cui sarebbero dipese direttamente tutte le altre edizioni precedenti quella Colli-Montinari. Con la fondazione dell’archivio di Weimar e la promozione dell’opera del fratello, Elisabeth Nietzsche si era resa responsabile della manipolazione in senso ideologico-politico dei documenti del filosofo: in modo particolare, la ricostruzione soggettiva dei frammenti della Wille zur Macht (la Volontà di potenza) avrebbe contribuito per molto tempo ad alimentare la visione nazionalsocialista e antisemita del filosofo tedesco.

[8] Il germanista e consulente einaudiano Cesare Cases, in un ricordo di Montinari, avrebbe così riferito sul caso Nietzsche: «Il consiglio editoriale, composto in massima parte da marxisti e da liberalsocialisti, aveva forti riserve ideologiche, non tanto contro il nome di Nietzsche quanto contro l’idea di pubblicarne l’opera omnia da mettere accanto a quella di Gramsci, come se fossero classici che avevano militato sotto la stessa bandiera»: C. Cases, Il granduca di Weimar. Ricordo di Mazzino Montinari, Belfagor, Firenze, 31 maggio 1987, p. 336; cfr. G. Campioni, Leggere Nietzsche, p. 63.

[9] Citazioni di Foà rispettivamente in: Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, Rai Tre, 1986; R. Barbolini, Fratelli di carta, 1994; E. Ferrero, Il signore degli Adelphi, 1990.

[10] S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Giulio Einaudi editore, Torino 2018, 3ª ed., pp. 201-202. La prima edizione per i tipi di Theoria risale al 1991.

[11] G. Lukács, La distruzione della ragione, trad. di Eraldo Arnaud, Einaudi, Torino 1959. La proposta dell’opera del filosofo ungherese, in cui si evidenziava la forte correlazione tra la filosofia nietzschiana e l’ideologia dei fascismi europei, era stata avanzata nella riunione editoriale del 1° settembre 1954: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 124.

[12] F. Nietzsche, Considerazioni sulla storia, a cura di L. Pintor, Einaudi, Torino 1943; F. Nietzsche, Ecce Homo, a cura di S. Romagnoli, Einaudi, Torino 1950. Negli anni ’40 era prevista inoltre una traduzione, poi non portata a termine, di Enzo Paci della Volontà di potenza: cfr. A. Banfi, Nietzsche, Colli, Foà: l’azzardo di un’edizione critica e di una nuova casa editrice, Leo S. Olschki editore, Firenze 2015, p. 278.

[13] Intervista a Claudio Rugafiori, «tra i fondatori dell’Adelphi», in P. Di Stefano, L’invisibile maestro dei libri, in “Corriere della Sera”, 9 luglio 2023.

[14] Tratto dal Colloquio con Giulio Bollati, in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, a cura di P. Di Stefano, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2001, pp. 107-133. L’intervista a Bollati è apparsa nel fascicolo D del semestrale di letteratura “Idra”, il Melangolo, dicembre 1991. Per illustrare «il lato più grottesco della faccenda», Bollati ricordava: «Negli stessi mesi in cui ci trovammo a discutere delle opere complete di Nietzsche, arrivò sui nostri tavoli, da un altro consulente, la proposta di pubblicare tutto Nenni…Era stravagante discutere contemporaneamente di Nenni e di Nietzsche, che finimmo per rifiutare entrambi. La coincidenza mi sembra significativa, perché dà un’idea del clima italiano, del clima in cui lavoravamo…». In un’intervista rilasciata lo stesso anno, Bollati riportava alla memoria la riunione in cui era stata avanzata la proposta di Colli: «C’erano Bobbio, Mila, Calvino, Panzieri: uomini che sarebbero dovuti essere accaniti avversari di Nietzsche. Ma non ci fu nessuna battaglia, nessuno si accalorò […]. La verità è che restammo perplessi non tanto perché temessimo di compiere un sacrilegio nei confronti dell’ideologia marxista, quanto perché la cultura torinese era piuttosto restia a considerare Nietzsche un grande pensatore. L’avevamo letto in edizioni secondarie, da bancarella, per noi non era quel che si dice un autore di serie A. Figuriamoci: il vecchio Piemonte, con la sua solida cultura, magari un po’ provinciale, non si metteva certo a tremare come una foglia all’idea di pubblicare Nietzsche». Cfr. intervento di Bollati in M. Assalto, Nietzsche fa ancora paura, in “La Stampa”, 3 novembre 1991.

[15] Nel servizio di Rai Tre Biografia di un catalogo. Profilo della casa editrice Einaudi, rispetto all’edizione proposta da Colli, Norberto Bobbio avrebbe confessato: «Io stesso allora non ero molto favorevole. Nonostante l’importanza storica della filosofia di Nietzsche, [non pot-] avevamo dimenticato che Nietzsche era considerato l’ispiratore di Hitler, del nazismo, a torto o a ragione, diciamo a torto o a ragione: sotto certi aspetti, anche con qualche ragione. So che dicendo questo io suscito un vespaio, ma credo anche in parte a ragione. Non bisogna dimenticare che quando Mussolini fu liberato da Campo Imperatore dove era stato messo in prigione da Badoglio, dal nuovo regime instauratosi in Italia, Hitler lo accolse regalandogli le opere di Nietzsche: insomma, Nietzsche era un simbolo, bisogna riconoscere che era un simbolo. Probabilmente è stato un errore. Oggi possiamo dirlo: è stato un errore». E concludeva il suo intervento commentando l’edizione poi pubblicata da Adelphi: «È uscita questa magnifica edizione, una delle maggiori imprese dell’editoria italiana di questi ultimi anni, questa stupenda edizione di Adelphi, curata da Giorgio Colli».

[16] F. Nietzsche, Epistolario (1865-1900), a cura di B. Allason, Einaudi, Torino 1962. Le Lettere rientrano nell’elenco dei libri decisi durante la riunione del 15 febbraio 1961. La pubblicazione sarebbe avvenuta poco dopo l’uscita di Foà dalla casa editrice e la rottura con Colli: cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 479.

[17] G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Giulio Einaudi editore, Torino 2004, p. 146.

[18] Intervento inedito di Luciano Foà in Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo, intervista radiofonica di Elisabetta Mondello a Giulio Einaudi in occasione dei sessant’anni della casa editrice torinese, trasmessa su Rai Radio Tre il 26 settembre 1993 (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).

[19] Sulla scelta “ideologica” di abbandonare l’Einaudi e fondare l’Adelphi Foà si era espresso in diverse occasioni: «Fondai l’Adelphi, con i consigli di Bobi Bazlen, per rompere la monotonia dell’ideologismo editoriale di sinistra, per scegliere autori che uscissero fuori dai binari codificati di una visione del mondo esosa in senso deteriore. Qui pubblichiamo i libri che più ci piacciono, solo quelli, con rischi e soddisfazioni»: Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi, in “La Stampa”, 20 dicembre 1972; «Intendevamo reagire all’aria del tempo, che era tutta politicizzata e ideologica: naturalmente, altri ci vennero dietro, ci tolsero l’esclusiva. […] Nietzsche, un pensatore così asistematico, così mistificato, si confaceva a noi»: Foà in L. Mondo, Libro come avventura. Uomini rappresentativi dell’editoria, in “La Stampa”, 7 aprile 1976; «Il nostro programma si basava su autori, correnti di pensiero, temi che la cultura italiana di allora, estremamente politicizzata, lasciava deliberatamente al margine». Dall’intervento di Foà trascritto negli atti del convegno Gli anni ’60. Intellettuali e editoria (Milano 7 e 8 maggio 1984), a cura di F. Brioschi, con la prefazione di C. Segre, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1987, pp. 135-138: cfr. A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria in Italia dall’Unità a oggi, Editrice bibliografica, Milano 2018, p. 113; «Mi pare superfluo ricordare qual era non solo il clima culturale italiano negli anni ’50, ma anche le particolari caratteristiche della casa editrice Einaudi, che, pur non essendo strettamente legata ad un’ideologia, pure gli era molto vicino»: Foà in Lo specchio del cielo. Autoritratti segreti raccolti da Maurizio Ciampa prima di un altro lunedì, puntata n. 47 trasmessa su Rai Radio Due nel 1987. Fonte: <https://hubhopper.com/episode/lo-specchio-del-cielo-puntata-47-luciano-foa-e-gianfranco-menotti-1581105906>; «Vorrei tornare un momento sul progetto Nietzsche. Questo progetto rientrava molto bene in un programma generale della Casa Editrice Adelphi che intendeva far conoscere in Italia opere e scrittori che ne erano stati tenuti lontano per vari motivi politici, ideologici, o che pure ci erano pervenuti in modo deformato»: dalla trascrizione integrale dell’intervento di Foà in Modi di vivere: Giorgio Colli. Una conoscenza per cambiare la vita, documentario realizzato nel 1980 per Rai Due da Mauro Misul, regia di Marco Colli (<https://www.youtube.com/watch?v=giPb42wCy3E>). Fonte: FAAM, Giorgio Colli, b. 36, fasc. 001 (Modi di vivere).

[20] Intervista a Luciano Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi. Si riporta di seguito il punto «in cui l’amico Enzo Siciliano ha involontariamente frainteso quel che gli dissi»: «[All’Einaudi] il lavoro non si mescolò più per Foà con gli interessi culturali diretti. La “passione fisica” per i libri restò un fatto privato».

[21] L. Foà, Lettera al Direttore, in “La Stampa”, 29 dicembre 1972.

[22] Intervista a Luciano Foà in S. Giacomoni, Il piacere dell’intelligenza, in “Prima Comunicazione”, novembre 1975. I possibili fraintendimenti potevano sorgere alla lettura del seguente passo: «Oggi forse è più facile capire cosa intenda dire Foà quando parla del “malinconico ideologismo” dei consulenti della casa editrice Einaudi: il passare degli anni ci rende possibile vedere i pregi, e i limiti, di un atteggiamento culturale nato dal sommarsi della politica culturale del PCI, dell’arretratezza di un paese che usciva da vent’anni di fascismo, dell’emarginazione – durante la guerra fredda – della élite che aveva fatto la resistenza. Forse oggi riusciamo a capire meglio come alcune persone (e pensiamo a Bazlen) sapessero, già allora, porsi di fronte ai problemi della cultura e della politica con un’ottica più libera, forse più rischiosa, che non aveva come punti di riferimento obbligatori i “valori” della resistenza, l’antifascismo, gli schieramenti internazionali».

[23] L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate, in “Prima Comunicazione”, dicembre 1975. La lettera di Foà iniziava così: «Cara Giacomoni, la ringrazio molto per il profilo “storico” che ha voluto dedicare all’Adelphi – la cui storia è così breve – sull’ultimo numero di Prima. La ringrazio soprattutto per la sostanziale esattezza delle notizie che vi sono contenute, fatto ormai molto raro e che merita di essere segnalato. Mi preme, tuttavia, chiarire due punti del suo articolo che nella loro formulazione un po’ drastica (dovuta certamente a esigenze di spazio), possono essere fraintese. Sono due punti che riguardano i miei rapporti, e quelli del mio carissimo amico Roberto Bazlen, con la casa editrice Einaudi, ma che hanno forse un interesse più generale»: cfr. A. Ferrando, Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), Carocci editore, Roma 2023, p. 325: in questo volume recentemente pubblicato da Anna Ferrando si evidenziano le fasi cruciali che hanno portato alla fondazione della casa editrice milanese, individuando «le premesse di lungo periodo sin dal ventennio fascista» e i protagonisti di una realtà editoriale che fino a quel momento non era «mai stata fatta oggetto di uno studio storiografico ad hoc».

[24] La difficoltà avvertita da Luciano Foà di esprimersi apertamente sul proprio orientamento politico e culturale fu dettata indubbiamente dalla sua discrezione e dal suo riserbo: una ritrosia che rende difficile, oggi, dare conto dei pensieri effettivi che l’editore aveva elaborato nel corso della sua vita. Si può ricordare, a titolo esemplificativo, che Foà sottoscrisse un appello insieme a «un ampio e qualificato gruppo di esponenti del mondo della cultura milanese, molti dei quali impegnati nel settore dell’editoria, […] contro l’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, “riconoscendo nell’istituto del divorzio una conquista democratica intesa alla tutela di inalienabili diritti dei cittadini italiani”» (Più ampio il movimento per respingere l’attacco ad una conquista di civiltà, in “L’Unità”, 5 maggio 1974); aderì all’appello lanciato dalla realtà intellettuale milanese e romana «al mondo della cultura per un voto di rinnovamento, per il voto al PCI» (Nuove importanti prese di posizione di intellettuali per il voto al PCI, in “L’Unità”, 8 giugno 1975); insieme ad altri intellettuali, sottoscrisse l’appello per chiedere quali fossero «le proposte degli economisti per la sopravvivenza ecologica e alimentare dell’Italia», per sottolineare «l’urgenza» che aveva assunto «la questione dell’agricoltura in Italia» e affermare «la necessità di trovare un rapporto diverso, per una nuova condizione di vita, tra città, mondo agricolo e mondo industriale» (R. Stefanelli, Fra alimentazione e agricoltura molto spesso non tornano i conti, in “L’Unita”, 20 dicembre 1977).

[25] Foà in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi

[26] In merito all’interruzione del rapporto con la Einaudi, Foà avrebbe anche affermato: «Su questa scelta sono state scritte spesso inesattezze. Nel ’61, sia per problemi di famiglia legati alla salute di mia moglie che per l’insoddisfazione di non poter sviluppare meglio le intuizioni editoriali di Bazlen, decisi di dimettermi e tornai a Milano»: cfr. R. Barbolini, Fratelli di carta, p. 94. Rispetto alla “questione Nietzsche” come motivazione dell’uscita dall’Einaudi, in un’intervista a Domenico Porzio Foà confessava: «Non è che per me questa sia stata una cosa decisiva, era una delle tante»: FAAM, Fondo Domenico Porzio, Sezione audio [s.d.]: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2013, p. 304. Nell’intervista rilasciata a E. Ferrero in Il signore degli Adelphi, la «leggenda editoriale» (così definita da Ferrero) che adduceva come ragioni della separazione dall’Einaudi i «contrasti sull’opportunità di pubblicare le opere di Nietzsche» sarebbe stata screditata da Foà. Ciononostante, è interessante notare come lo stesso Ferrero, in un successivo articolo in memoria dell’editore scomparso, avrebbe posto ancora il rifiuto di Nietzsche come «innesco per la nuova impresa dell’Adelphi»: cfr. E. Ferrero, Foà l’editore al futuro, in “La Stampa”, 26 gennaio 2005.

[27] Dal Colloquio con Giulio Bollati, in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, pp. 114-115.

[28] Ibidem. Si presume che «la proposta Nietzsche» – avanzata ufficialmente da Giorgio Colli nel 1958 e tuttavia ascritta da Bollati a un momento successivo rispetto all’uscita di Foà dalla Einaudi nel luglio 1961 – si riferisse alla discussione della riunione editoriale del 24 gennaio 1962 in cui si decise unanimamente di non pubblicare le opere complete del filosofo tedesco (così come ricordato dallo stesso Foà in Biografia di un catalogo).

[29] Foà intervistato da G. Ziani in Scrisse sempre. Ma non finì mai…, in “Il Piccolo”, 14 aprile 1993: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 54. Nell’intervento in Bobi Bazlen: uno special di Tuttilibri, regia di Aldo Grasso, trasmesso su Rai TV Rete Uno il 1° giugno 1983, Foà aveva ricordato come le lunghe passeggiate per le vie del centro durante il soggiorno milanese di Bazlen prima del suo trasferimento definitivo a Roma avessero rappresentato «un’opera pedagogica che lui esercitò su di me in quel periodo, facendomi riconoscere come più veramente mie molte idee e concezioni generali della vita che erano in realtà sue. Ad ogni incontro io scoprivo sempre di più il tesoro sconfinato delle sue letture, e anche il modo nuovo che lui aveva di parlare di libri». Alla fine degli anni trenta il primo autore indicatogli dall’amico triestino era stato Kafka. Tra i consigli di libri da leggere e da proporre agli editori italiani che Bazlen gli aveva segnalato nell’ambito del proprio lavoro per l’ALI – l’Agenzia Letteraria Internazionale, fondata dal padre di Luciano, Augusto Foà, nel 1898 – l’editore aveva ancora impressi in mente i nomi di Broch, Traven, Powys, Güiraldes, Ortega e Keyserling, alcuni poi confluiti nel repertorio adelphiano. Il documentario è stato gentilmente fornito dalla famiglia di Luciano Foà.

[30] Con riferimento agli interventi di Foà in: L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate: «L’altro punto che volevo precisare riguarda i rapporti di Bazlen, nella veste di consulente – e direi “morganatico” – con la Einaudi, rapporti tenuti soprattutto da me e, dopo la mia uscita dalla casa, per breve tempo da Daniele Ponchiroli»; Bobi Bazlen: uno special di Tuttilibri: «Rapporto consulenziale […] un po’ morganatico, in quanto i rapporti passavano attraverso di me, e poi attraverso quella carissima persona che era Daniele Ponchiroli»; Lo specchio del cielo: «Voglio dire che questa consulenza di Bazlen presso la Einaudi fu una consulenza morganatica direi».

[31] «Lontane da ogni forma di anonima compilazione di giudizio redazionale-editoriale, queste lettere, nel loro peculiare stile epistolare, riflettono piuttosto quel suo completo disancoraggio dalle incasellature teoriche, dalle mode culturali». Si tratta di valutazioni che passavano da «una percezione istintiva dell’esatto valore di un testo, giudicato, dapprima, mediante il metro elusivo della propria sensibilità […] e misurato, poi, secondo un preciso parametro critico che inserisce il testo letto all’interno di un’ampia prospettiva culturale». Data «la tendenza a ricercare d’intravedere sempre l’uomo nello scrittore», a rintracciare in ogni singolo libro «una correlazione, intimamente avvertita come autentica, tra espressione letteraria e realtà umana corrispondente», risulta facile «comprendere il perché della sua contrarietà all’opera omnia in quanto tale. E, di contro, il suo favore verso quei testi» in cui intuiva, «dietro una valida espressione letteraria, un’autentica verità interiore»: M. La Ferla, Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, Sellerio, Palermo 1994, pp. 63-64. Cfr. R. Bazlen, Lettere editoriali, a cura di R. Calasso e L. Foà, Adelphi, Milano 1968; ora in R. Bazlen, Scritti, Adelphi, Milano 1984.

[32] Si pensi a I sonnambuli di Broch, Ferdydurke di Gombrowicz, Olivia di Olivia, Le canzoni di Narayama di Fukazawa, Il Sosia di Mattioni, Lo spazio letterario di Blanchot, e ad autori come Henry Miller, Bruno Schulz, W.C. Williams, Ramón Sender. Cfr. L. Foà, Non è vero che le indicazioni di Bazlen non furono ascoltate; M. La Ferla, Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, pp. 68-72.

[33] Foà avrebbe citato più volte la lettera inviatagli da Bazlen il 12 giugno 1951 dedicata a R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, 3 voll., Rowohlt, Berlin 1930-1943 (trad. it. L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1964): cfr. R. Bazlen, Scritti, pp. 273-279. «Non era certo un parere senza i pro e senza i contro, ma era talmente diverso dai pareri che venivano dati normalmente e così fondamentalmente convincente che fu decisa la pubblicazione di questo libro» (Foà in Lo specchio del cielo).

[34] Conversazione inedita tra Einaudi e Foà in Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo. Oltre a Bobbio, a nutrire dubbi sull’opportunità di una pubblicazione dell’opera (soprattutto per la sua mole) vi erano stati anche altri consulenti; è interessante notare come alla fine degli anni ottanta Einaudi avesse ricordato L’uomo senza qualità soltanto attraverso il giudizio negativo di Cantimori, che «con stizza annotava, nel ’52, che l’aveva già letto nel 1936, e che allora gli “sembrò pesante e noioso”»: cfr. G. Einaudi, Frammenti di memoria, Rizzoli, Milano 1988, p. 155.

[35] Rispettivamente, Foà in: R. Barbolini, Fratelli di carta, p. 94; Paesaggio con figure. Testimoni e interpreti del nostro tempo. A essere «inattuale» sarebbe stato anche il programma della casa editrice Adelphi (Cfr. Gli anni ’60. Intellettuali e editoria, p. 137).

[36] Non si può dimenticare come il sodalizio tra Bazlen e Foà avesse affondato le sue radici nelle Nuove Edizioni Ivrea, il progetto editoriale in cui entrambi erano stati coinvolti negli anni quaranta da Adriano Olivetti: un’iniziativa che allora non era riuscita a concretizzarsi, ma dal cui intento sarebbe partita l’Adelphi: «Bisognava superare il blocco culturale provocato dal provincialismo italiano e consolidato dal fascismo, rotto appena, negli anni trenta, dalla “scoperta” degli Americani»: Foà in L. Mondo, Libro come avventura. Uomini rappresentativi dell’editoria.

[37] Informazioni tratte dall’intervista di Vittorio Graziani ad Anna Foà, figlia di Luciano Foà, in Tre libri. A casa di Anna Foà, “Libreria Centofiori”, 20 giugno 2023 in: <https://www.youtube.com/watch?v=xKD1NLhl44A> (ultima consultazione: 1° marzo 2024).

[38] «Caro Bobi, se fossi vissuto anche solo fino al 1966 avresti visto […] una cultura spontanea cosmopolita, come sarebbe piaciuto a te, che non amavi i provincialismi e tutti quegli eccessi delle identità nazionali. E che l’Oriente, e soprattutto l’India sarebbe diventata una meta necessaria, l’I Ching un oracolo di massa, e dal Tao alla Baghavad Gita a Siddharta, Lo Zen e il tiro con l’arco e 101 storie Zen, libri di culto per una generazione»: A. Foà, Lettere a Bobi in Bazleniana, Acquario, Torino 2022, p. 219. Bazleniana raccoglie una serie di scritti di vari autori dedicati alla figura di Bazlen, nonchè i disegni tratti dal diario che l’intellettuale aveva redatto durante il percorso psicanalitico intrapreso con l’amico Bernhard. La casa editrice Acquario (uno dei nomi favoriti prima che si optasse per “Adelphi”) è stata fondata da Anna Foà e da Marco Sodano nel 2019, sotto il nume tutelare di Bazlen.

[39] La situazione dei piccoli editori, intervista radiofonica inedita a Luciano Foà per Piccolo Pianeta. Rassegna di vita culturale, trasmessa il 19 marzo 1971. Canale di trasmissione Rai non definito (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano). Premesso un divario sempre più profondo e «grave» tra le grosse-medie case editrici e le piccole, l’editore individuava, sostanzialmente, due punti in cui i piccoli editori si trovavano svantaggiati nei confronti dei grossi, ovvero le possibilità in termini di «distribuzione» e di «pubblicità». Dal punto di vista della distribuzione, le grandi case editrici disponevano quasi sempre di organizzazioni proprie oppure si valevano di distribuzioni esterne sostenute da gruppi di promotori alle loro dirette dipendenze; per i piccoli editori, invece, non esistevano che le piccole organizzazioni, quasi sempre famigliari, presenti sul territorio italiano, che – aggiungeva Foà – «geograficamente è molto difficile da raggiungere, anche per un certo frazionamento dei centri maggiori, dei centri cittadini». Nell’evidenziare la rilevante differenza di possibilità di raggiungere il pubblico, l’editore si mostrava sorpreso della mancata costituzione, in Italia, di «un’organizzazione di distribuzione che faccia questo lavoro per un numero notevole di piccoli editori». L’elemento pubblicitario, a cui le grandi case editrici potevano adire con maggiore profusione in virtù delle proprie disponibilità finanziarie, si rivelava naturalmente precluso ai piccoli editori. Non agevolava, in tal senso, l’assenza di un organo stampa esclusivamente dedicato alle recensioni di libri e all’informazione su tutte le novità librarie, come alcune riviste esistenti all’estero: un veicolo che, rivolto a un «pubblico che desidera e vuole essere informato», avrebbe rappresentato sicuramente un luogo più adatto ed economico per la pubblicità dei piccoli editori.

[40] Cfr. S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 6. Su questa affinità di “funzione-editore” conviene anche A. Ferrando in Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), p. 92. È interessante osservare come all’inizio degli anni ottanta Foà riscontrasse «uno stato di incertezza» nel mercato librario, che prendeva forma «in quel tipo di editoria che fa libri fungibili, dove un libro può sostituire l’altro per un pubblico indifferenziato, senza faccia, che vien fuori dalle indagini di mercato»; aggiungeva infine che «l’editoria “in grande” pubblica certi libri non perché piacciano a chi li sceglie, ma perché si crede che piaceranno al pubblico senza faccia»: dall’intervista di Foà in G. Dossena, L’editoria è in crisi, ma si fanno troppi piagnistei, in “Tuttolibri”-“La Stampa”, 18 luglio 1981.

[41] «Scittori di romanzi di contenuto […] in cui prevale un interesse per le idee, per il mondo futuro, per lo sviluppo del mondo nell’avvenire, che porta poi a romanzi come Il mondo nuovo di Huxley, di fanta-ideologia»: intervista inedita a Luciano Foà per il programma televisivo Tuttilibri condotto da Giulio Nascimbeni, puntatata trasmessa su Rai Uno il 29 maggio 1978 (Catalogo Multimediale di Rai Teche, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano).

[42] Foà riteneva che la qualità maggiormente rilevabile mostrata dallo scrittore fosse, infatti, la sua «facoltà mimetica»: una mimesi che, nel caso in questione, si riduceva «allo sforzo d’immaginazione» adoperato da Morselli di «immedesimarsi» col protagonista, al punto da arrivare a una vera e propria «identificazione del protagonista con l’autore». Altra caratteristica annessa era l’«elemento dello scavo psicologico», ovvero l’«autoanalisi che il protagonista conduce su sé stesso e che è in fondo un’autoanalisi di Morselli», con «tutte le sue complicazioni, i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi interessi, che vanno anche ben al di là della letteratura». «Un vero autoritratto, che può costituire in un certo senso l’antefatto dell’ultimo libro di Morselli, che pure con altra risonanza e altri accenti è fortemente autobiografico, Dissipatio». Cfr. G. Morselli, Un dramma borghese, Adelphi, Milano 1978; id., Dissipatio, Adelphi, Milano 1977.

[43] R. Calasso, Bobi, Adelphi, Milano 2021, p. 78.

[44] B. Grasso, A reflection about my great-grandfather Augusto Foà and his son (my grandfather) Luciano Foà, in “Hook Literary Magazine”: <https://www.hookliterarymagazine.com/lessico-familiare> (ultima consultazione: 29 febbraio 2024).

[45] V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 2.

[46] Dichiarazione di Foà nella già citata intervista di Domenico Porzio.

[47] FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, 24 maggio 1961.

[48] «Capisco le tue ragioni, d’altra parte ogni prospettiva che cercassi di porti d’innanzi potrebbe in queste condizioni essere soltanto un palliativo, obbligandoci a ritrovarci in altrettanto drammatica situazione fra un anno o due. Per quanto riguarda il tuo lavoro a Milano, comprendo il tuo desiderio di un lavoro editoriale autonomo. Non so – lo dico francamente – come questo possa inserirsi nel quadro del programma editoriale della Casa editrice, avendo questa, come ben sai, una nota gelosia di mestiere. […] Comunque, ogni proposta tua concreta nel senso di un tuo lavoro esterno ci troverà tutti pronti a discuterla per trovare una formula di intesa di comune soddisfazione. […] Mi auguro solo che questo lungo periodo lasci in te un buon ricordo, se non altro di amicizia e di esperienza umana e di lavoro. Per me e per la Casa editrice è stata una collaborazione preziosa. Ti abbraccio»: FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Giulio Einaudi a Luciano Foà, Torino, 7 giugno 1961.

[49] Intervista a Foà in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi.

[50] Foà in Lo specchio del cielo: «Devo dire che su questa questione dei classici io avevo già spezzato una lancia ai tempi in cui ero in Einaudi, ma la cosa non ebbe esito».

[51] Sulla passione di Foà per la memorialistica, che avrebbe poi trovato spazio nell’Adelphi: «Mi piacciono le autobiografie, gli epistolari, libri che in Italia non hanno pubblico» (in E. Siciliano, Gli editori leggono Adelphi).

[52] Foà in Lo specchio del cielo.

[53] Cfr. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 842.

[54] Einaudi in S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 66.

[55] È rilevante notare come lo stesso Giulio Einaudi associasse espressamente il ruolo del segretario generale a quello di «direttore editoriale» in S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, p. 126.

[56] FAAM, Fondo Luciano Foà, b. 6, fasc. 64 (Einaudi), lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, 13 giugno 1961.

[57] Intervista a Foà in E. Ferrero, Il signore degli Adelphi.

[58] Nel delineare la storia della casa editrice Adelphi è interessante osservare come per Foà questa fosse stata concepita idealmente come un «luogo in cui i rapporti tra coloro che vi lavoravano tendessero il più possibile a essere orizzontali anziché verticali, dove l’aria che circolasse fosse decente. Doveva essere e rimanere una casa editrice di modeste proporzioni per evitare le scelte meno felici che un aumento dei titoli fatalmente comporta»: cfr. Gli anni ’60. Intellettuali e editoria, p. 137. Ci si chiede quanto queste dichiarazioni non fossero legate all’esperienza decennale in Einaudi. Si veda, a tal proposito, uno scambio Foà-Einaudi di appunti manoscritti in testa al verbale sommario delle riunioni, di poco precedenti le dimissioni, del 19 e 26 aprile 1961, e del 10 e 19 maggio 1961: Foà: «Prego approvare, o no, queste decisioni»; Einaudi: «Le decisioni sono sempre valide». Cfr. T. Munari, I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, p. 486.

[59] Con queste parole Italo Calvino suggeriva prudenza a Giulio Einaudi in merito alle proposte editoriali di Bazlen: lettera di Italo Calvino a Giulio e Renata Einaudi, New York, 22 novembre 1959, in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Arnoldo Mondadori, Milano 2000, p. 617: cfr. V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, p. 246. Va ricordato come Calvino avesse contribuito, sul finire degli anni cinquanta, al rifiuto della “Collezione dell’Io”, formulazione finale di una serie di proposte di Bazlen per una nuova collana einaudiana: il nome della collezione “bocciata” è attestato per la prima volta in una lettera di Foà a Bazlen del 1° aprile 1960. Fonte: Archivio storico Giulio Einaudi Editore presso Archivio di Stato, Torino (d’ora in poi, AE), incart. Bazlen. Sulla storia delle collezioni “grande”, “piccola” e “dell’io”: V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, pp. 222-273.

[60] Le nostre speranze, intervista di Paolo Di Stefano a Giulio Einaudi in G. Einaudi, Tutti i nostri mercoledì, p. 99 (uscita originariamente sul “Corriere della Sera” il 6 agosto 1994 e poi riscritta ad hoc seguendo la successione originaria delle domande).

[61] La «rivista internazionale immaginata alla fine degli anni cinquanta da tre gruppi di scrittori appartenenti a tre diverse nazioni», da considerarsi «l’unica rivista europea del secondo dopoguerra» in quanto «interamente progettata, scritta e redatta da una redazione francese, una italiana e una tedesca»: cfr. M. Belpoliti, E. Grazioli, Gulliver, in “doppiozero”, 21 maggio 2012 in: <https://www.doppiozero.com/gulliver> (ultima consultazione: 22 febbraio 2024). Sulla storia della rivista si segnala Gulliver. Progetto di una rivista internazionale, a cura di A. Panicali, Marcos y Marcos, Milano 2003.

[62] Lettera di Luciano Foà a Giulio Einaudi, Milano, 16 aprile 1962, copia dattiloscritta, AE, sezione dell’archivio dedicata alla corrispondenza in ordine alla collana “I gettoni”, cartella 12, fascicolo 760 (Luciano Foà). È interessante osservare come nella primavera del ’62, a pochi mesi dall’abbandono della casa editrice torinese, Giulio Einaudi prediligesse affidarsi ancora a Luciano Foà per le sue capacità di consulenza aziendale e di gestione contabile in merito a un’iniziativa dalla portata culturale come “Gulliver”. Un impianto, quello della rivista, che era ancora a uno stadio iniziale e al quale Foà si accostava fornendo a Vittorini – con cui, negli anni cinquanta, aveva collaborato alla collana dei “Gettoni” – il proprio aiuto, su esplicita richiesta dell’editore.

[63] Intervento inedito di Luciano Foà in Paesaggio con figure.


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Galleria di sguardi: la visita inizierà a breve.
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Dopo la presentazione del 10 maggio al Salone Internazionale del libro di Torino, è in programma un nuovo appuntamento il 15 maggio alle 17.30  presso la libreria Vita&Pensiero dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

“Galleria di sguardi” è il titolo, risultato del lavoro degli studenti del laboratorio di editoria dell’Università Cattolica di Milano; un libro che grazie a biografie d’autore, romanzi e saggi tenta di avvicinarsi ai lettori, anche i meno esperti di arte. Proponendo una vasta gamma di autori, e generi artistici si percorre una galleria, immaginaria, dove è possibile sbirciare tra Le lettere a Theo di Van Gogh, lasciarsi arricchire da saggi divulgativi guidati da personaggi del calibro di Umberto Eco e Philippe Daverio. Gli studenti hanno redatto delle schede editoriali per ciascuno dei quarantotto titoli: un breve cappello introduttivo, qualche informazione sull’autore e sulla storia del libro e sulla fortuna editoriale. Inoltre ciascun capitolo offrendo ai lettori un assaggio del volume attraverso una citazione d’autore con evidente riferimento artistico, avvicina senza vincolare ad un percorso preciso.

Il libro: Galleria di sguardi. Casi editoriali del mondo dell’arte (EDUCatt), pp. 132, illustrato, euro 10
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Camilla Cederna e il caso Giovanni Leone: «Un libro giusto al momento giusto» https://editoria.letteratura.it/camilla-cederna-e-il-caso-giovanni-leone-un-libro-giusto-al-momento-giusto/ Fri, 23 Feb 2024 12:38:26 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8868 «Un libro giusto al momento giusto»: con queste parole Inge Feltrinelli ricorda Giovanni Leone. La carriera di un presidente di Camilla Cederna, un’opera che causò le dimissioni dell’allora Presidente della Repubblica. Una tesi ricostruisce la storia editoriale del best seller italiano.  Camilla Cederna nasce nel 1911 ed è figlia della colta e ricca borghesia milanese.[1] […]

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«Un libro giusto al momento giusto»: con queste parole Inge Feltrinelli ricorda Giovanni Leone. La carriera di un presidente di Camilla Cederna, un’opera che causò le dimissioni dell’allora Presidente della Repubblica. Una tesi ricostruisce la storia editoriale del best seller italiano. 

Camilla Cederna nasce nel 1911 ed è figlia della colta e ricca borghesia milanese.[1] La madre, Ersilia Gabba, è una delle prime laureate italiane in Germanistica e il padre Giulio Cederna è un ingegnere astronomo, professore presso il Politecnico di Milano ed ex calciatore e socio fondatore del Milan. Camilla Cederna da subito sviluppa la passione per l’arte, la musica e le buone letture. Inizia la carriera giornalistica scrivendo di moda, partecipando a eventi mondani e interessandosi delle vicende dei protagonisti della società. Diventa una delle penne più apprezzate dapprima come redattrice del settimanale “L’Europeo” poi come inviata per “L’Espresso”. Il 1969 è l’anno della grande svolta nella sua vita professionale, che cambia insieme ai mutamenti che colpiscono l’Italia. Inizia quindi il periodo storico caratterizzato dalla cosiddetta “strategia della tensione” Camilla Cederna pubblica non solo articoli ma anche libri e pamphlet politici per i quali sarà denunciata o subirà diversi processi, conseguenza questa del suo modo di operare, caratterizzato dall’indignazione e dalla creazione di controinformazione.[2]

Il Presidente Giovanni Leone nella vita di Camilla Cederna

Tra gli eventi fondamentali nella vita di Camilla Cederna, di notevole interesse è la decisione di scrivere un testo-inchiesta sul Presidente della Repubblica Giovanni Leone, che diventa best seller con 800 000 copie vendute e 24 riedizioni. La raccolta del materiale inizia nel luglio del 1977 e il libro esce nell’aprile del 1978 con il titolo Giovanni Leone. La carriera di un presidente edito da Feltrinelli. In anticipo sull’uscita del libro, il 12 marzo del 1978 “L’Espresso” esce intitolato Il circo Leone e la copertina di Tullio Pericoli raffigura una caricatura del presidente, vestito da pagliaccio con orecchioni al vento e il naso cadente. All’interno del settimanale è presente il primo capitolo della seconda parte del pamphlet con titolo I tre monelli. Lo stesso giorno i figli del presidente Mauro Leone e i fratelli Paolo e Giancarlo incaricano il loro legale di presentare querela alla giornalista Camilla Cederna per l’articolo, considerato gravemente diffamatorio. Con il procedere del tempo, nuovi dettagli vengono allo scoperto e il 15 giugno avvengono le definitive dimissioni del presidente.

Il 23 settembre 1978 a Roma inizia il processo. Camilla Cederna invitata dal presidente del Tribunale a parlare continua a sostenere le sue tesi riguardo al suo dovere di giornalista di informare l’opinione pubblica ma viene interrotta poiché si ritiene che la difesa sia solo una copia di quanto scritto nel libro. Il confronto tende a essere indirizzato verso i giovani Leone. Il risultato è solo la scoperta dell’identità dei querelanti che solo a questo punto viene svelata. Gli avvocati di Camilla Cederna considerato l’ambiente ostile, poiché le loro domande vengono definite inaccettabili o influenti si rifiutano di farne altre. Il giorno successivo molti giornali sono a favore della giornalista, compreso quello di Montanelli. Si apre, quindi, una trattativa per la quale i tre giovani ritirerebbero la querela con rinvio del processo e perfezionamento dell’accordo.[3]

Il secondo atto si svolge il 28 giugno 1979 a Varese, dov’era stato pubblicato il libro. Il presidente è il dottore Giovanni Pierantozzi, il pm è Giuseppe Cioffi. I querelanti sono gli avvocati Carlo Leone, Gabriele Benincasa e Ignazio Caruso. Giuseppe Cioffi nella requisitoria ritiene che il libro sia «scandalistico, diffamatorio, antidemocratico» dunque, la definisce «una giornalista che, abbandonate le proprie convinzioni liberali, è passata ai gruppi più dogmatici dell’ultrasinistra, trasformandosi […] in “snob progressista”».[4] Quindi, chiede due anni di reclusione, il sequestro, la distruzione del libro e la confisca del credito a titolo compenso per diritti d’autore spettanti a lei nei confronti della Feltrinelli. Vengono poi esposte le arringhe della difesa: Boneschi e Janni. Dopo pochi giorni, la sentenza concede le attenuanti generiche, non accoglie la richiesta di sequestro del libro e annulla la richiesta delle pene detentive.

Il terzo atto si svolge a Milano in Corte d’Appello il 16 maggio 1980. Il presidente è Isidoro Alberici, i giudici Livia Pomodoro e Francesco Favia. In accordo è caduta l’imputazione più grave, quella di vilipendio. Dopo la penultima udienza, vengono pronunciate le arringhe dei difensori di Cederna e viene fatta richiesta di quattordici mesi di carcere da parte del pm Elio Veltri. I giudici concedono un supplemento d’istruttoria per ascoltare un testimone della difesa: Massimo Caprara, prima persona che Cederna aveva intervistato sull’argomento e che le aveva fornito informazioni su Leone e sulle sue sconvenienze. Caprara il 27 maggio nega tutto, sostiene di non averla mai incontrata e non ricorda molti particolari ma è necessario ricordare che nel maggio del 1976, lui stesso aveva scritto in un articolo su “Tempo illustrato” riguardo all’elargizione delle grazie che per il giornalista si sviluppavano proprio nello studio di Giovanni e Carlo Leone. I giudici, dopo una pausa, smentiscono il teste documentando gli incontri con la presenza di altre persone, tra cui Cesare Milanese e consegnando il taccuino della giornalista alla Corte.[5] Camilla Cederna dichiara allora che proprio tale soggetto le aveva consigliato di contattare un democristiano napoletano, il cui nome non viene riferito e quindi il presidente Alberici fissa una nuova udienza per l’interrogatorio di quest’ultimo. Il 16 giugno il democristiano smentisce Caprara e conferma la versione di Cederna ma aggiunge che nel loro incontro aveva parlato solo della situazione politica riguardante il napoletano. La difesa mostra prove d’incontri e telefonate con l’onorevole; quindi, il testimone afferma che può essere stato confuso con un’altra persona. La Camera di Consiglio, dopo un’ora e mezza, emana la sentenza e conferma quella di primo grado, emessa dal tribunale di Varese un anno prima: per Cederna una pena pecuniaria di un milione di lire, per la casa editrice Feltrinelli la condanna oltre che una riparazione pecuniaria pari a 400 000 lire a titolo di concorso e l’assoluzione per lo stampatore, Ernesto Radaelli, che era stato ritenuto responsabile in primo grado, sempre a titolo di concorso.[6]

Giovanni Leone. La carriera di un presidente: le vicende editoriali

Copertina prima edizione

Copertina della prima edizione del testo di Camilla Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente pubblicato da Feltrinelli nel 1978.

Giovanni Leone. La carriera di un presidente è un libro pubblicato nel 1978 come pamphlet politico ed è la causa di una delle più grandi crisi di governo che hanno coinvolto la Repubblica italiana.
Successivamente alla pubblicazione di Pinelli. Una finestra sulla strage e Sparare a vista, in molti ritengono che questo nuovo libro sarebbe stato di minor impegno, ma attraverso le dichiarazioni dell’autrice è possibile capire quanto per lei fosse importante il senso di giustizia: «Giovanni Leone. La carriera di un presidente è un libro politico come lo sono gli altri: naturalmente l’argomento è diverso, ma è rimasto sempre in me lo stesso impegno che mi ha spinto a difendere la memoria di Pinelli e denunciare gli abusi della legge Reale».[7]

Il testo è nato «da un amore profondo per la democrazia, i suoi organi, i suoi istituti, i suoi valori e persino i suoi simboli. E da un rispetto, che a qualcuno parrà persino eccessivo, per quella massima espressione dello spirito democratico che è il Presidente della Repubblica, alto presidio del nostro sistema politico istituzionale».[8] Amore che con il tempo è andato deluso a causa del corrompimento della vita politica e del decadimento delle istituzioni. Cederna riteneva necessario «denunciare non la singola persona come responsabile di un guasto che ha cause più diffuse e profonde»[9] ma la storia del trentennio i cui sintomi ed effetti possono essere colti solo attraverso una severa indagine.

Nascita dell’opera

Era il 1974 quando Camilla Cederna inizia a pensare di scrivere un libro che riguardasse Giovanni Leone, dopo aver visto una fotografia che ritraeva il presidente in visita all’ospedale Cotugno di Napoli, durante il colera; l’immagine rappresentava Leone che, mentre accarezzava la testa del malato, atteggiava l’indice e il mignolo nel gesto scaramantico, poi ripetuto molte altre volte in pubblico. Cederna stessa ammette che a sviluppare la sua curiosità a riguardo, è stata proprio una frivolezza, seguita, in seguito, da eventi più impegnati.

La giornalista dal luglio 1977 raccoglie tutte le informazioni pubblicate sul presidente e dopo un confronto con alcuni “amici” di Leone, in Grecia, nel mese di settembre inizia a riordinare il materiale. Nel mentre, al Quirinale si diffonde la notizia che la giornalista stava componendo un testo sulla prima famiglia d’Italia. Tra l’ottobre e il gennaio scrive l’intero libro e lo consegna all’editore  Feltrinelli, con il quale viene concordata la pubblicazione. Nasce così il secondo libro nella storia della Repubblica italiana scritto su un presidente in carica.[10]

Ricostruendo la carriera giornalistica di Cederna è possibile constatare che gli incontri diretti con il presidente non sono stati molti; la prima volta è stata nell’ottobre del 1963 durante il mandato di presidente del Consiglio. La scrittrice viene accolta nella casa dalla moglie Vittoria Micchitto e in seguito intervista il marito.[11] Successivamente, Cederna vede Leone alla televisione, mentre partecipa ai funerali delle vittime della strage della Loggia a Brescia durante i quali, a causa dei fischi e delle proteste da parte dei cittadini, anche il collegamento televisivo venne interrotto.[12] Il terzo incontro è a Bologna, dopo l’Italicus. La giornalista, sempre molto attenta a ogni tipo di dettaglio, nota che gli insulti della popolazione aumentano il suo tic alla spalla destra e il suo malessere durante l’evento. Infine, Cederna incontra il presidente nel marzo del 1977, durante il funerale di 44 avieri caduti dall’Hercules C-130. Leone stringe le mani a ogni famigliare presente e sussurra parole di cordoglio. Ma la figlia del motorista dell’aereo caduto lo definisce «ipocrita» poiché avendo seguito le vicende riguardanti la Lockheed sapeva che il presidente fosse coinvolto; quindi, ritiene inaccettabili le parole da lui pronunciate.

Struttura dell’opera

Il pamphlet politico presenta una scrittura chiara e didascalica, in linea con lo stampo giornalistico. Diviso in  cinque parti, si compone di ventidue capitoli che ripercorrono la vita, la carriera e le vicende di Giovanni Leone. Di notevole rilievo è l’errore presente nella quarta di copertina che indica la presenza di quattro parti e sedici capitoli, come se non fossero prese in considerazioni le ultime sessanta pagine.

Nella prima parte il focus principale riguarda la contestualizzazione del protagonista; da come Cederna ha conosciuto Leone al cursus honorum che egli ha compiuto. Nella seconda parte, vengono delineate le relazioni che il presidente ha con i propri figli denominati «I tre monelli», il fratello e tutta la rete di politici e mafiosi che erano tra le sue conoscenze. L’ultimo capitolo è incentrato sui fratelli Antonio e Ovidio Lefèbvre d’Ovidio di Balsorano di Clunière, amici fidati ed esclusivi del presidente Leone. Nella terza sezione dal titolo Speculazioni e scandali vengono riportati alcuni dei casi in cui Leone si è rapportato con personaggi malavitosi, durante la sua attività di avvocato, prima di entrare in politica. È sempre stato difensore nei processi di mafia soprattutto in cause provinciali in cui onore e omertà sono preconcetti alquanto fondati. Nella quarta parte si analizza come Giovanni Leone sia diventato il sesto Presidente della Repubblica italiana. Cederna spiega dettagliatamente ogni particolare e definisce la modalità della sua scalata «paradossale» poiché viene nominato presidente durante gli ultimi scrutini.[13] Infine, nel capitolo dal titolo Gli ultimi scandali tratta sei macro-argomenti di cui i più importanti sono il primo con riferimenti alle trattative necessarie alla tipologia di aereo che l’Italia avrebbe dovuto scegliere per il rinnovo della linea antisommergibile. Il secondo riguarda lo scandalo Hercules, a cui precedentemente è stato accennato, e una serie di domande che Cederna sostiene sarebbero da porre allo stesso Antonio Lefèbvre.[14] Il quarto, invece,  dal titolo Dopo la grande, ecco la piccola corruzione indaga sul sistema corrotto attraverso cui Ovidio Lefèbvre controllava tutta una serie di persone ritenute utili come generali, colonnelli, funzionari in pensione ai quali venivano inviati regali, mance, viaggi gratis, piccole elargizioni. Cederna a supporto della sua tesi presenta documenti, assegni, lettere e fax che testimoniano tutti i giri d’affari che Lefèbvre amministrava. A lui dedica anche il finale aperto riguardo ai fatti successivi all’istruttoria e rimarcando l’importanza di seguire la vicenda con estremo interesse «per tutto quell’intrecciarsi sotterraneo di messaggi, consigli e indicazioni che ogni giorno vanno moltiplicandosi e che non sfuggono a quella parte dell’opinione pubblica più qualificata che ha già le sue idee ben consolidate sull’affare Lockheed».[15]

Analisi del paratesto

Il testo Giovanni Leone. La carriera di un presidente viene composto in brevissimo tempo e attraverso l’analisi del paratesto è possibile riscontrare alcune caratteristiche che evidenziano la velocità di tale processo di produzione. Il libro di Camilla Cederna si presenta al pubblico con un peritesto piuttosto chiaro; per la copertina è stata scelta un’immagine su scala di grigi che pone l’attenzione principalmente sul protagonista del testo, Giovanni Leone, il quale sembra posto in rilievo rispetto ai personaggi sullo sfondo. Il titolo, Giovanni Leone, molto lineare, è scritto con font bastoni e di colore giallo piuttosto intenso, il tutto in grassetto. Interessante è la vicenda che riguarda la scelta della collana in cui il testo viene pubblicato; il lavoro di Cederna doveva essere parte della collezione “Al vertice” caratterizzata da precise linee guida tra cui contenere biografie di uomini politici del Paese ed essere affidata agli esponenti maggiori del giornalismo italiano, di conseguenza è possibile affermare che il testo era stato ideato all’interno di un programma editoriale organico e non con l’intenzione di creare scandalo. Il libro però non è stato pubblicato in tale collana in quanto la collezione stessa  ha avuto poca fortuna e il suo proseguimento era piuttosto incerto. L’editore quindi, poiché gli accordi con l’autrice del libro erano già stati presi, ha preferito pubblicare il libro in una diversa collana dal titolo “Attualità” nella quale erano presenti testi come Razza padrona di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani del 1974 e L’anonima dc. Trent’anni di scandali da Fiumicino al Quirinale di Orazio Barrese e Massimo Caprara del 1977. Da questa scelta è possibile riconfermare la tesi di base per cui l’editore non ha concepito questo testo solo come operazione commerciale, ma con l’intenzione di mantenere fede ai propri impegni verso la giornalista, attendendosi guadagni scarsi o nulli.[16]

La legatura utilizzata è del tipo brossura sin dalla prima edizione e non cartonata, scelta, piuttosto insolita, in quanto solitamente di questa tipologia sono le legature dei libri delle edizioni economiche. Il formato è 12,5 × 20,5 cm ca e in questo modo rientra nelle dimensioni dei tascabili.[17]

Nelle ultime pagine del testo sono presenti alcune indicazioni bibliografiche, assenti invece indice dei nomi, note e appendici, probabilmente perché il testo è stato pubblicato mentre le indagini erano ancora in corso, coloro che erano interessati integravano la lettura del testo con articoli e dichiarazioni che venivano pubblicate su quotidiani e settimanali. La stesura di note e appendici avrebbe prolungato la cura del testo, causando la proroga della pubblicazione.

Per quanto concerne la descrizione dell’epitesto è necessario sottolineare la presenza di materiale piuttosto cospicuo riguardo alla sfera pubblica, poiché la diffusa ricezione da parte dei lettori ha portato il pamphlet a essere recensito su molti giornali, complice anche la successiva denuncia da parte della famiglia Leone, che ha causato la produzioni diversi articoli. “Tuttolibri” il 20 gennaio 1979 riporta un articolo dal titolo I trenta libri più venduti dell’anno e nelle prime righe è subito possibile leggere: “L’anno 1978, in libreria, è passato sotto il segno del Leone; e di Camilla Cederna. Il pamphlet ‘che ha fatto cadere un presidente’ è stato per diciassette settimana in testa alla classifica dei best seller, è la prima opera italiana di saggistica che abbia superato il mezzo milione di copie; e non trova nessun antagonista in grado di contendergli il posto”.[18]

Riguardo l’epitesto privato sia di questo libro che generalmente della produzione di Camilla Cederna sono presenti soprattutto “stralci” di corrispondenza tra la giornalista, la Casa Editrice Feltrinelli e coloro che l’hanno sostenuta durante il processo Leone, alcuni battuti a macchina altri scritti a mano. È possibile anche leggere alcune lettere, come quella che Cederna ha inviato al direttore di “L’Espresso” per dimettersi dal giornale o una dichiarazione della giornalista riguardo al suo cambiamento nella produzione giornalistica, ma anche appunti che lei stessa ha scritto riguardanti alcune correzioni da apportare alla sua autobiografia Il mondo di Camilla. Principale difficoltà che si riscontra nell’analisi di questo settore della patrimonio di Cederna è la quantità di materiale, spesso vasta e tutt’oggi ancora in continua catalogazione. Concludendo è quindi possibile dedurre dall’analisi di quanto presente che il testo Giovanni Leone. La carriera di un presidente sia stato scritto velocemente, con l’intenzione da parte della Casa Editrice di pubblicarlo prima dell’inizio del «semestre bianco» ritenendo che il Presidente della Repubblica nel pieno delle sue funzioni avesse il diritto e il dovere di rispondere alle accuse, in tal caso il testo sarebbe stato ristampato con le necessarie modifiche o immediatamente ritirato e sia autrice che editore avrebbero fatto pubblica ammenda.[19]

Ricezione

La stessa Casa Editrice dichiara, sin da subito, che il testo non era un progetto il cui obbietto primo fosse il guadagno tanto che le vendite previste ammontavano a un totale di circa 90 000 copie.[20] La prima classifica che si prende in analisi è quella di “Radiocorreire TV” composta dai dati di trenta librerie di diverse città italiane consultate direttamente, dieci per ciascuna settimana.[21] Considerando il posizionamento del libro a partire dall’aprile del 1978 è possibile notare che Camilla Cederna rimane al primo posto fino a settembre, seguita da importanti autori come Giorgio Galli con Storia della dc, Enzo Biagi con E tu lo sai?, Indro Montanelli con Controcorrente, Erich Fromm con Avere o essere e Gianni Granzotto con Carlo Magno.
Seconda classifica analizzata è quella del giornale “La Repubblica” i cui dati coprono un arco temporale definito tra i mesi di aprile e maggio, durante i quali il testo Giovanni Leone. La carriera di un presidente è sempre stato posizionato sul gradino più alto seguito soprattutto da Storia della Dc, Avere o essere, Controcorrente e Carlo Magno, in soli tre mesi le copie vendute del libro sono arrivate a essere 300 000 circa.
Per quanto riguarda la classifica composta dal settimanale “Panorama” è possibile confermare la tesi sostenuta in precedenza: Cederna rimane prima nelle classifiche della primavera e dell’estate dell’anno 1978 e in questo caso specifico anche nel periodo tra settembre e ottobre; in quest’ultimo mese solo nell’ultima settimana si posiziona quinta a parimerito con il libro di Biagi dal titolo Francia.

I dati del Notiziario Asca compongono l’ultima classifica descritta.[22] Nel mese di aprile Cederna è al terzo posto nella prima settimana, preceduta da Galli e Fromm; al primo posto nelle due settimane centrali e al secondo nell’ultima, superata da Galli. In maggio, giugno, luglio, agosto e settembre mantiene sempre il primo posto seguita prevalentemente da Biagi e Fromm. Con il mese di ottobre il testo è per due settimane al secondo posto, in novembre dopo otto mesi al vertice delle classifiche raggiunge come posizione più bassa il quinto posto.
Proseguendo l’analisi delle ricezione, attraverso recensioni presenti su vari giornali si può constatare che il testo scritto da Camilla Cederna, per quanto abbia oggettivamente una base politica, presenta comunque una forte componente di costume. L’autrice stessa in un’intervista sostiene che il suo intento è quello di scrivere un libro d’indignazione, dal quale poi è derivato un libro politico, accolto dal pubblico in modo eclatante tanto che in molti, dopo averlo letto, le scrissero di essere disposti a collaborare per ottenere un Italia migliore. La sua intenzione primaria è «raccontare quale Italia c’era dietro quella faccia di buon papà napoletano»[23] e il suo augurio consiste nell’idea che le dimissioni del presidente non presentassero Leone come una vittima dei giornalisti cattivi, poiché la stampa aveva fatto il suo dovere. Cederna dichiara «le dimissioni sono una lezione al cattivo gusto di madame sempre in esibizione, al cattivo costume dei monelli tanto traffichini, al cattivo settenario di un presidente che non ci meritiamo».[24]

Sul quotidiano palermitano “L’ora” il 26 maggio del 1978 viene dichiaro che è «un libro di costume all’americana, spregiudicato e pettegoliero, ha il suo ideale recensore non tanto in un pubblico esperto di politica, quanto negli esperti di informazione e negli stessi numerosissimi lettori che stanno comprando e facendo comprare». [25]

Roberto Cuini, caporedattore del “Corriere della Sera” rimane perplesso dal fatto che molti recensori sospendono il giudizio in attesa di sapere se il tribunale chiarisca alcuni episodi e condanni o meno l’autrice per diffamazione e aggiunge «siano veri tutti, siano veri soltanto alcuni, siano veri solo in parte – o, paradossalmente, non siano veri – i fatti raccontati nel libro portano si ad una condanna, la condanna politica di Leone. Perché nessuno avrebbe scritto Giovanni Leone, la carriera di un presidente se Leone avesse tenuto il decoro della sua carica al di sopra di ogni sospetto: non l’ha fatto, ed è questo condannevole». Vincenza Agrò di Marco, casalinga, ritiene che leggendo il libro, tutto sembra così vero che se lo fosse, afferma: «Ce ne vorrebbero tanti di questi libri: bisognerebbe che la gente conoscesse i retroscena della vita politica ». Mary Taormina, impiegata, d’altro canto sostiene che il testo dia fastidio alla coscienza degli italiani, ma soprattutto alla classe politica dirigente. Ultima testimonianza di Emanuele Giarrizzo, psicologo, inizia con il sostegno alle dimissioni del presidente, prescindendo dall’esito del processo. Riguardo al libro ritiene che sia grave che una denuncia politica sia scritta in modo da indurre alla risata e continua: «è un segno dei tempi: si tende a non prendere sul serio le cose serie e questo serve a non far cambiare ciò che dovrebbe cambiare. Bisogna poi guardarsi dal credere che il libro metta in discussione solo Leone: sotto accusa è l’intera classe politica dirigente: il suo modo mafioso di agire e di funzionare».[26] Passando ad un articolo de “Il Giorno” dell’agosto del 1978 Ferdinando Camon ritiene che la presenza di opere d’impegno come i libri di Moravia, Cederna, Harley, Amendola e Bocca tra i best seller indichino un nuovo atteggiamento nella lettura da parte degli adulti; dunque, il pericolo più grande è che, se opere di Cederna o di Moravia sono lette al posto di opere di evasione, esse non vengono effettivamente lette ma consumate. E conclude sostenendo che, se effettivamente il libro su Giovanni Leone, entro l’agosto ha venduto quasi 500 000 copie, considerando che su cinque italiani interrogati, almeno uno non avrebbe saputo rispondere alla domanda chi è il presidente della Repubblica, mezzo milione di lettori per un libro sul Quirinale è un dato interessante.[27]  Sostenere che l’opera di Camilla Cederna sia stata rivoluzionaria in quanto ha portato per la prima volta un libro ad essere causa delle dimissioni del presidente e contemporaneamente il testo più venduto del 1978, è sicuramente corretto ma è doveroso sottolineare che Giovanni Leone. La carriera di un presidente può essere letto attraverso una doppia chiave di lettura poiché è sia un testo politico che il prodotto d’analisi dei costumi di quegli anni, dunque, sottolinea la necessità delle dimissione del Capo di Stato in quanto figura privata della correttezza e serietà richiesta al primo cittadino del Paese. Inge Feltrinelli, infatti, così omaggia per l’ultima volta l’autrice: «Camilla Cederna è stata in Italia un vero fenomeno, perché da prima donna di successo nel giornalismo di consumo si è trasformata in una grande giornalista in difesa dei diritti civili. Un libro coraggioso pubblicato nel semestre della presidenza Leone che ha cambiato la vita della politica italiana. Un libro giusto al momento giusto».[28]

Sara Ravera

Estratto-sintesi dalla tesi di laurea Giovanni Leone. La carriera di un presidente: il caso editoriale di Camilla Cederna, relatore Roberto Cicala, Università Cattolica, Milano, anno accademico 2022-2023.

[1] Cfr. Camilla Cederna, Il mondo di Camilla, con interventi di Grazia Cherchi, Feltrinelli, Milano 1980; Ead., Camilla, la Cederna e le altre a cura di Irene Soave, Bompiani, Firenze-Milano 2021; Ead., Il mio Novecento, BUR Rizzoli, Milano 2011.
[2] Cfr. Ead., Camilla, la Cederna e le altre e Ead., Il mondo di Camilla.
[3] Camilla Cederna., Il mondo di Camilla, pp. 310-311.
[4] Ibi, p. 313.
[5] Un giornale romano definirà le parole di Caprara una «testimonianza contorta e sfumata» mentre la parte più conosciuta della stampa lo dichiarerà «teste boomerang per la difesa»: cfr. Ibi, pp. 321-324.
[6] Cfr. Pietro Nuvolone, Indice penale, Milano aprile 1982. Sezione: “In tema di diffamazione a mezzo stampa non periodica (il «caso Cederna»).
[7] Camilla Cederna ad Alberto Sinigaglia Torino, 26 agosto 1978 (Archivio storico Giangiacomo Feltrinelli Editore, Fascicolo Camilla Cederna, Corrispondenza).
[8] Camilla Cederna., Giovanni Leone. La carriera di un presidente, Feltrinelli, Milano 1978, quarta di copertina.
[9] Ibidem.
[10] Cfr. GIAN FRANCO VENÉ, Quasi tutto cominciò dalle corna, in “Amica”, 29 giugno 1978.
[11] Camilla Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente, pp. 11-15.
[12] Ibi, pp. 17-18.
[13] Ibi, p. 159-184.
[14] Ibi, pp. 206-216.
[15] Ibi, pp. 241-249.
[16] Gian Pietro Brega all’avvocato Valerio Mazzola¸ 19 giugno 1978 (Archivio storico Giangiacomo Feltrinelli Editore, Fascicolo Camilla Cederna, Corrispondenza).
[17] Nella storia dell’editoria, il primo testo pubblicato solo con la legatura in brossura è stato La Storia di Elsa Morante nel 1974 dalla casa editrice Einaudi. Il testo, scritto in modo semplice doveva essere fruibile ad un pubblico il più largo possibile e l’edizione in brossura garantiva un prezzo di copertina molto basso. Quest’operazione di marketing editoriale ha contribuito nella nascita del primo best seller economico: cfr. Roberto Cicala, I meccanismi dell’editoria, Il Mulino, Bologna 2022, pp. 186-187.
[18] Luciano Genta e Alessandro Rosa, I trenta libri più venduti dell’anno, in “Tuttolibri”, 20 gennaio 1976. “Tuttolibri” nasce nel 1975, edito dalla “Stampa” come strumento che accompagna il lettore attraverso le trasformazioni delle politiche, delle edizioni e dei successi della produzione corrente: cfr. Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria, p. 230.
[19] Gian Piero Brega all’avvocato Valerio Mazzola, 19 giugno 1978 (Archivio storico Giangiacomo Feltrinelli Editore, Fascicolo Camilla Cederna, Corrispondenza).
[20] Dichiarazione presente nel ricorso ex art. 672 c.p.c., Tribunale di Milano presieduto da professor Pietro Peiardi, 2 giugno 1982.
[21] Radiocorriere TV è la rivista settimanale che per 70 anni è stata l’organo ufficiale della RAI, dal 1925 al 1995. Il Radiocorriere è stato poi ripubblicato dalla Rai nel 2011 sul sito dell’ufficio stampa, in: <http://www.radiocorriere.teche.rai.it/> (ultima consultazione: 13 luglio 2023).
[22] Il notiziario Asca analizza settimanalmente i libri più venduti secondo i dati raccolti nelle seguenti librerie: Bonaccorso (Catania), Cavour (Milano), Cocco (Cagliari), Minerva (Napoli), Rizzoli (Roma), Rusconi (Milano), Seeber (Firenze).
[23] Vittorio Emiliani, Attenzione! Non è vittima di giornalisti cattivi, in “Il Messaggero”, 17 giugno 1976.
[24] Ibidem.
[25] Che stangata, presidente, in “L’ora”, 26 maggio 1978, p. 14.
[26] Ibidem.
[27] Ferdinando Camon, Sotto l’ombrellone si legge difficile, in “Il giorno”, 20 agosto 1978.
[28] Inge Feltrinelli, Un fenomeno per l’Italia, in “La Repubblica”, 10 novembre 1997.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Un autore e una casa editrice: Michele Serra e Feltrinelli. Il caso editoriale degli Sdraiati https://editoria.letteratura.it/un-autore-e-una-casa-editrice/ https://editoria.letteratura.it/un-autore-e-una-casa-editrice/#respond Tue, 06 Jun 2023 11:08:55 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8830 Una tesi ricostruisce il rapporto di Michele Serra con la casa editrice Feltrinelli partendo dal romanzo Gli sdraiati. Nel 2013, anno che si inserisce in uno dei ciclici periodi di crisi dell’editoria, sono pubblicati numerosi libri sul tema della paternità come Il complesso di Telemaco di Massimo Recalcati o Il padre infedele di Antonio Scurati. […]

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Una tesi ricostruisce il rapporto di Michele Serra con la casa editrice Feltrinelli partendo dal romanzo Gli sdraiati.

Nel 2013, anno che si inserisce in uno dei ciclici periodi di crisi dell’editoria, sono pubblicati numerosi libri sul tema della paternità come Il complesso di Telemaco di Massimo Recalcati o Il padre infedele di Antonio Scurati. A novembre esce per Feltrinelli Gli sdraiati di Michele Serra che tratta proprio del rapporto tra un padre e un figlio e che riscuote immediatamente uno straordinario successo: scala le classifiche librarie, arriva a vendere cinquecentomila copie, viene tradotto in sette lingue in Europa, ne sono tratti uno spettacolo teatrale e un film.
Gli sdraiati quindi è un vero e proprio caso editoriale, ma affinché tale definizione non resti una semplice etichetta è bene analizzare il lavoro preliminare l’uscita fatto dall’autore e dalla casa editrice, la ricezione del pubblico e in generale tutto ciò che ha contribuito alla notevole fortuna del romanzo. Una condizione necessaria per affrontare lo studio del caso editoriale è la comprensione del contesto in cui agisce Michele Serra, in particolare è interessante approfondire lo stretto rapporto che lo lega alla casa editrice Feltrinelli.

Michele Serra autore feltrinelliano

Michele Serra è un autore versatile, si esprime attraverso le pagine dei giornali, ma anche dei romanzi, scrive testi per il teatro e per la televisione, mantenendo sempre una cura attenta per la parola, riuscendo a raggiungere un pubblico molto ampio poiché racconta di esperienze comuni in un linguaggio comprensibile, senza scadere nel banale. Persegue l’idea di una cultura capace di raggiungere chiunque senza perdere un alto livello di qualità; lo stesso principio guida la casa editrice Feltrinelli. Quest’ultima nel corso degli anni si è rivelata capace di affrontare i periodi di crisi rinnovandosi costantemente, ampliando il suo orizzonte fino a comprendere tanti ambiti della cultura con uno sguardo rivolto al futuro, mantenendo sempre il libro al centro, in «un’avventura editoriale che dal 1955 ha coinvolto migliaia di persone per migliaia di libri, per milioni di donne e di uomini».[1]
Nel contesto di grande mobilità e scambio tra editori e autori che caratterizza la storia dell’editoria negli anni ottanta-novanta, Michele Serra è in controtendenza poiché dal 1989, quando pubblica la raccolta di racconti Il nuovo che avanza, rimane fedele alla casa editrice Feltrinelli. Lo scrittore ritiene che «pochi autori siano più feltrinelliani di lui»[2] e tra le motivazioni di certo rientra la vicinanza politica e ideale con la casa, in particolare con Carlo Feltrinelli con cui Serra nel corso degli anni ha instaurato un legame di amicizia: da una parte l’autore è esponente del Pci dalla gioventù, scrive sull’“Unità” ed è poi sostenitore della sinistra italiana in genere e dall’altra la Feltrinelli, la casa editrice che affonda le sue radici nella Colip, la Cooperativa del libro popolare, nata per iniziativa del Partito comunista e che più di tutte ha sostenuto con le sue pubblicazioni gli ideali di diffusione del libro in ogni fascia sociale e che, grazie alle iniziative di Giangiacomo Feltrinelli, ha fatto dei suoi libri sulla politica e l’attualità un simbolo riconoscibile e riconosciuto.
La produzione di Serra, come quella di molti giornalisti-autori, è divisibile in due macrocategorie: raccolte di scritti di attualità, il più delle volte già pubblicati sulle pagine dei quotidiani come Tutti al mare (1990) e il più recente Il grande libro delle amache (2017), e opere di narrativa, tra le quali si ricordano Il ragazzo mucca (1997), il primo romanzo scritto, e Osso. Anche i cani sognano (2021), l’iniziale approccio dell’autore alla narrativa per bambini.
Nella scrittura di tutti questi libri Michele Serra è seguito da tre editor: Alberto Rollo, Laura Cerutti e Chiara Fiengo. Figure che l’autore, in un contributo per il libro-rivista del “Post” A proposito di libri, definisce sacre: l’editor è il primo lettore, permette allo scrittore di acquisire un nuovo punto di vista sul proprio operato; assume, in base ai momenti, il ruolo di «tifoso» o di «censore»:[3] può apprezzare il lavoro fatto e incoraggiare a proseguire nella direzione intrapresa oppure far notare che ciò che è stato scritto avrebbe bisogno di modifiche, a volte anche con una certa severità. Non secondario appare il fatto che è l’editore a pagare l’autore: scrivere è un lavoro come tutti gli altri e per riuscire a vivere di libri è necessario anche rispettare i contratti e sopportare l’«assoggettamento» alle direttive della casa editrice perché:

Gli scrittori, senza gli editori, non esisterebbero. Non esisterebbero letteratura, pittura, musica, arti varie, e persino un’arte minore come il giornalismo, se non esistesse una committenza. Gente che paga e gente che investe nel supposto talento di questo e di quello. Il talento, fino a che sta appeso nel nulla, è zero.[4]

In tanti hanno investito e creduto nelle capacità di Serra: «direttori di giornale, editors delle case editrici: senza di loro avrebbe lavorato meno della metà, e magari non avrebbe scritto cose che, con il senno di poi, è contento di avere scritto».[5] Tutte le raccolte di articoli, pubblicati inizialmente sui giornali, sono state sollecitate dagli editori, in particolare da Feltrinelli. I romanzi, i racconti, tutte le opere di narrativa invece sono nate di sua iniziativa. Proposti dall’autore sono anche tutti i titoli dei suoi scritti, alcuni, ad esempio Gli sdraiati, sono nati prima del libro, altri una volta terminato, come Le cose che bruciano. Per quanto riguarda la scelta delle copertine, pur esponendo la propria opinione, se ne occupano gli editor e i grafici perché «è il loro mestiere e [Serra] è molto rispettoso delle competenze»[6] altrui.
L’editor è quindi una figura fondamentale che partecipa alla costruzione del libro insieme all’autore e, scegliendo di pubblicare un testo, si fa carico di una grande responsabilità, che però, nota Serra, non è sempre rispettata: «ce ne sono che vorrei vedere impiccati ai lampioni, però lampioni spenti per quanto è buia la loro anima. Ce ne sono di magnifici e coraggiosi, scopritori di talenti altrimenti destinati al niente. La maggior parte sta nel mezzo, volenterosa, con meriti e demeriti».[7]

Analisi del caso editoriale

Michele Serra ritiene che le parole siano uno strumento prezioso per la società, che abbiano il potere di incidere sulla realtà e per questo è necessario averne cura, devono essere selezionate con precisione ed esattezza; difenderne il valore è un compito che interessa tutti, ma soprattutto chi fa un lavoro intellettuale.
«Ho sempre pensato che nella scrittura il massimo della soggettività corrispondesse al massimo dell’oggettività […]; l’“io”, in determinate situazioni, può fungere addirittura da indicatore di umiltà anziché di presunzione»:[8] l’attitudine di Serra nel raccontare il proprio punto di vista assume molta forza comunicativa, egli seleziona gli argomenti secondo la propria sensibilità ed esperienza di vita avendo al contempo dei precisi riferimenti culturali. La scrittura letteraria non deve essere influenzata dalla cronaca e può sedimentare a lungo affinché si presti attenzione ai minimi dettagli.
Così è successo per Gli sdraiati, libro che richiede sei-sette anni di gestazione. Il primo nucleo testuale è costituito dal titolo e dalla prima riga: «Ma dove cazzo sei? Ti ho chiamato quattro volte e non rispondi mai». Il libro rimane informe per diverso tempo poiché intanto lo scrittore si dedica ad altri progetti lavorativi, ma soprattutto perché in quegli anni è molto vivo il dibattito pedagogico sul tema della paternità e l’autore si sente in difetto nell’affrontare l’argomento. La svolta avviene quando si rende conto, dovendo scrivere un’opera di narrativa, di non dover dare delle risposte, ma soltanto raccontare una storia singolare di un padre e un figlio. Così nel giro di due anni Serra riesce a stendere un centinaio di pagine seguendo le norme di sinteticità apprese da Kurt Vonnegut, da sempre un modello per l’autore. Attorno al 2012 l’intervento dell’editor Alberto Rollo è determinante:

Le cento pagine accumulate mi sembravano materiale utile, ma spurio, sbriciolato, senza struttura narrativa, ampiamente insufficiente per farne un libro. Il mio editore (nella persona di Alberto Rollo, allora responsabile della narrativa italiana Feltrinelli) mi disse che quello era già un libro. Già così. […] Io non sapevo di avere scritto un libro, l’editore sì.[9]

La prima edizione del libro entra in commercio mercoledì 6 novembre 2013 nella collana “I Narratori” di Feltrinelli.
La copertina è curata dall’art director Cristiano Guerri e la prima è disegnata da Gipi, pseudonimo di Gianni Pacinotti, uno dei più importanti fumettisti italiani. Su uno sfondo bianco è tratteggiato con una penna nera un ragazzo di spalle, pantaloni con cavallo basso, felpa con il cappuccio, le mani in tasca. Soltanto le orecchie sono colorate di rosso così come l’ombra che si allunga ai suoi piedi e alza la mano per salutarlo, immagine del padre che vede crescere il proprio figlio.
Il libro non rientra in un genere preciso, viene descritto variamente come un romanzo, un saggio o un monologo. È suddiviso in quattordici capitoli che non hanno titoli, intervallati da dieci interventi non numerati del genitore, che cerca di convincere il ragazzo ad accompagnarlo al Colle della Nasca, gita raccontata nelle ultime pagine. Non ha però una struttura rigorosa:

Ho scritto per frammenti, per sbocchi d’ira, per attacchi di panico, per slanci amorosi, per accessi di ilarità, perché volevo che la mia scrittura fosse incoerente e in balia degli eventi, esattamente come il padre che racconta in prima persona: incoerente e in balia degli eventi.[10]

Il genitore è un uomo della generazione che ha vissuto il Sessantotto, che nella sua giovinezza si è ribellato a ogni tipo di regola e oggi è un «relativista etico», incapace di imporre la propria autorità e di trasmettere al figlio dei valori. Non riesce a comunicare con il ragazzo, che sembra essere protagonista di una mutazione epocale dovuta forse alla tecnologia che impone una distanza tra le persone. Il figlio vive in una posizione orizzontale, è «sdraiato». Sempre connesso, ma mai realmente presente, è indifferente alle richieste del padre e a ciò che lo circonda. Serra si interroga sul difficile rapporto tra generazioni e si chiede se esso si ripeta sempre uguale nel tempo o se oggi la frattura tra padri e figli sia più radicale. Nel libro è presente anche una sfumatura che si può definire fantasy: la voce narrante si immagina di scrivere un romanzo intitolato La Grande Guerra Finale, racconto di uno scontro epico fra Giovani e Vecchi, guidati da Brenno Alzheimer, che in segreto patteggia per i primi e in cui il padre si identifica perché alla fine sono i ragazzi a dover trionfare.
Serra ritiene che «la trasfigurazione letteraria, quando funziona, serva proprio a questo: rendere universale, di tutti, ciò che nasce individuale».[11] Infatti trae ispirazione dalla propria esperienza di genitore: ha due figli che al momento dell’uscita del libro (novembre 2013) hanno 23 e 21 anni, vive insieme ad altri due ragazzi della stessa età, figli della moglie Giovanna Zucconi. L’autore si rivolge a un pubblico ampio, con una scrittura veloce, immediata, che provoca il riso amaro e forse vuole infastidire con le sue riflessioni sia i genitori sia i figli.
Per la promozione di un libro e quindi per raggiungere quanti più lettori possibili si rivela uno strumento utile il rapporto diretto che i lettori possono avere con gli autori, dunque le case editrici organizzano dei book tour affinché lo scrittore possa parlare della propria opera a un pubblico che ha la possibilità di conquistarne la firma e porre domande. Michele Serra a partire dalla pubblicazione degli Sdraiati fino a gran parte del 2014 fa tappa in molte città italiane per presentare il proprio romanzo: Torino, Roma, Bologna, Milano, Firenze, Bari, Napoli e tante altre. Spesso è ospitato nelle librerie Feltrinelli, ma anche in teatri e biblioteche comunali dove dialoga con amici scrittori o attori come Luciana Litizzetto, Francesco Piccolo e Antonio Albanese che lo interpellano sul testo o ne leggono degli estratti.
Anche i premi letterari svolgono un ruolo significativo per incentivare l’acquisto di un libro. A inizio gennaio 2014, “affaritaliani.it” riferisce che Feltrinelli stia valutando di candidare Gli sdraiati al premio Strega per competere con Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo. Tuttavia la casa editrice decide di proporre al posto del romanzo di Serra, che è già un successo editoriale, Non dirmi che hai paura, libro del giovane autore Giuseppe Catozzella. Il premio alla fine è vinto da Piccolo. Nel novembre dello stesso anno viene conferito a Serra per Gli sdraiati e il suo lavoro di giornalista il premio 12 apostoli Montblanc, un’onorificenza attribuita dalla città di Verona ai letterati che si sono distinti nella loro professione.
Per rilevare il successo di un libro è utile considerarne l’andamento nelle classifiche librarie pubblicate ogni fine settimana negli inserti culturali dei principali quotidiani: “La Lettura” del “Corriere della Sera”, “Robinson” di “Repubblica” e “Tuttolibri” della “Stampa”. Gli sdraiati esce nelle librerie mercoledì 6 novembre 2013 e compare per la prima volta nelle classifiche del weekend del 16 e 17 novembre. Si è preso come punto di riferimento per valutare l’andamento del romanzo l’inserto “Tuttolibri” della “Stampa”, i cui dati sono elaborati da Nielsen BookScan, perché è l’unico che specifica la stima di copie vendute che corrispondono all’indice di vendita cento. Il libro entra direttamente nella Top10 posizionandosi quarto e vi rimane per venti settimane consecutive. Nella classifica del 23 novembre raggiunge il primo posto, mantenuto per quattro settimane e conquistato anche in quella dell’11 gennaio e del 1° febbraio 2014. Considerando invece soltanto la narrativa italiana, Gli sdraiati è presente nelle prime dieci posizioni per ventisette settimane, ossia fino a metà maggio 2014. Inoltre nel numero del 5 gennaio 2014 di “Tuttolibri”, che elenca i più venduti dell’anno appena concluso, Gli sdraiati è all’ottavo posto.
È possibile ricavare una stima delle copie vendute del romanzo di Serra, basandosi sull’indice di vendita attribuito a esso nelle classifiche redatte da Nielsen BookScan. Il periodo selezionato inizia con il 16 novembre 2013 fino al 17 maggio 2014, l’ultima settimana consecutiva in cui appare tra le prime dieci posizioni della narrativa italiana. Approssimativamente il libro vende circa centocinquantamila copie in ventisette settimane. Il direttore editoriale di Feltrinelli Gianluca Foglia, intervistato a fine novembre 2013, fornisce alcuni numeri: «la prima tiratura, di circa quarantamila copie, è andata a ruba. Il mercato ci ha richiesto duecentoquarantamila copie e le abbiamo stampate. Il libro di Serra è destinato a durare».[12]

In un articolo del gennaio 2014 di Raffaella De Santis, pubblicato su “Repubblica”, si afferma che il romanzo in due mesi ha venduto duecentocinquantamila copie mentre a distanza di qualche anno dalla pubblicazione è citato come un best seller da cinquecentomila copie. I dati esposti sono esemplari del successo significativo avuto dagli Sdraiati fin dalla pubblicazione: nel solo novembre 2013 giunge alla quarta ristampa e nel giro di due mesi all’ottava.
Nel 2014 Feltrinelli concede la licenza di stampare Gli sdraiati a Mondolibri che realizza un’edizione venduta per corrispondenza agli associati. Poi nel gennaio 2015 il romanzo è inserito nella collana dei tascabili “Universale Economica”, versione che a febbraio 2022 giunge alla decima ristampa. Nel 2014 è anche registrata la versione audiolibro: prima dal Centro Internazionale del Libro Parlato, che offre gratuitamente numerosi libri letti ad alta voce agli iscritti al servizio con specifiche difficoltà fisiche e/o di apprendimento. Poi Feltrinelli, nella collana dedicata agli audiolibri realizzata in collaborazione con Emons, casa editrice specializzata nel settore, pubblica il romanzo letto da Claudio Bisio con la regia di Flavia Gentili.
Al successo di pubblico corrisponde anche una buona ricezione critica: a partire dall’uscita degli Sdraiati fino a metà maggio 2014 sono pubblicate un’ottantina di recensioni in numerosi quotidiani e riviste italiani.[13] Lo stile e la capacità di Michele Serra sono universalmente riconosciuti e apprezzati, ciò che divide i giornalisti è il contenuto del romanzo, come l’autore abbia deciso di raccontare le nuove generazioni in rapporto con gli adulti. C’è chi, come Massimo Recalcati, definisce Gli sdraiati imperdibile, «un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura».[14] Invece Antonio Polito sull’inserto “La Lettura” del “Corriere della Sera” polemizza contro Gli sdraiati. Il libro si dimostra un concentrato di luoghi comuni tipici di un borghese progressista. Ciò che stupisce è il fatto che il padre si limiti a disperarsi del figlio «iperconnesso» senza davvero interessarsi alle sue passioni. Polito giunge alla conclusione opposta rispetto a Serra: la loro generazione dovrebbe abbandonare il «relativismo etico» e sforzarsi di trasmettere dei precisi valori alle future generazioni.
Dato il significativo successo della prima edizione, Feltrinelli vende ad alcune case editrici straniere i diritti degli Sdraiati che viene tradotto in Europa in sette lingue: tedesco, spagnolo, catalano, olandese, francese, greco e polacco. È trasposto anche in inglese, ma nessun editore sceglie di pubblicarlo. Si ipotizza anche una versione in serbo che non viene realizzata. È interessante notare, analizzando le edizioni straniere, come le case editrici abbiano adattato al proprio pubblico di riferimento il titolo del romanzo e la copertina: ad esempio le traduzioni tedesca e francese sono aderenti alla versione originale mentre quella olandese riprende una delle battute finali del protagonista (Wacht op mij!: «Aspettami!»), invece quella greca (Οι αραχτοί: «Gli orsi») fa probabilmente riferimento al fatto che il figlio è scontroso con il padre. La copertina polacca è identica a quella italiana; il ragazzo disegnato da Gipi è mantenuto anche nelle edizioni spagnola e catalana. La prima però è più sobria perché, su sfondo bianco e incorniciata di blu, ricorda un’edizione di un classico; la seconda è più d’impatto e fa pensare a un libro per ragazzi dato che è di un giallo molto acceso.
Gli sdraiati offre a Claudio Bisio l’ispirazione per uno spettacolo teatrale. Già in un’intervista del novembre 2013 l’attore condivide di star lavorando insieme a Michele Serra al testo della rappresentazione, a cui sono aggiunti alcuni brani tratti da Breviario comico. A perpetua memoria (2008), una raccolta di aneddoti comici della storia contemporanea per una spietata e cinica critica alla società, scritti da Serra per la rubrica Satira preventiva sull’“Espresso”. Lo spettacolo debutta in occasione del Ravenna Festival il 25 giugno 2014 al Teatro Alighieri con il titolo di Father and son in riferimento all’omonima canzone di Cat Stevens, che fa da colonna sonora all’intera rappresentazione e racconta lo stato d’animo di un adolescente incompreso dal padre e desideroso di cominciare una nuova vita. È prodotto dal Teatro dell’Archivolto di Genova, dove è in prima nazionale dal 12 al 14 gennaio 2015. Father and son riscuote un grande successo sin dal debutto, la prima tournée tocca quindici città italiane e ottiene il tutto esaurito in ogni data tanto che viene riproposta nella stagione successiva con altrettante repliche che terminano a gennaio 2016. Dopo l’uscita del film tratto dagli Sdraiati a novembre 2017, in cui Bisio interpreta il protagonista, lo spettacolo ritorna a teatro nella primavera del 2018. La notorietà dell’attore e la sua bravura, apprezzata dai critici e dal pubblico, nel rendere vivi i testi di Michele Serra, che danno voce alle quotidiane difficoltà dei genitori di adolescenti, contribuiscono al trionfo dello spettacolo.

Il libro è riproposto anche in versione cinematografica dalla regista Francesca Archibugi che collabora con Francesco Piccolo per scrivere la sceneggiatura. La commedia, in anteprima all’Anteo-Palazzo del cinema il 20 novembre 2017, esce nelle sale tre giorni dopo ed è prodotta da Indiana Production con Rai Cinema, distribuita da Lucky Red.
Lo scrittore, «che in modo sano è voluto restare fuori dal film, era sorpreso, all’inizio, di trovare una storia molto più ampia, ma poi ci ha accolti e ci ha lasciato andare avanti»,[15] spiega Piccolo. I due sceneggiatori riconoscono negli Sdraiati la propria esperienza di genitori e ampliano il testo di Serra per restituire una storia più complessa e con più personaggi, ma il focus rimane sempre il difficile rapporto tra un padre e il figlio adolescente. La commedia ha un buon successo: nella pagina dedicata allo spettacolo del “Corriere della Sera”, a una settimana dall’uscita nelle sale, si piazza al secondo posto nella classifica del box office con un guadagno di €963 021.

Durante la sua lunga collaborazione con Feltrinelli Serra scrive diversi romanzi i cui protagonisti appaiono in modo più o meno evidente come suoi alter ego. Lo spunto autobiografico è ugualmente presente negli Sdraiati, che però si distingue dai precedenti per la scelta di un tema universale che potenzialmente può riguardare tutti i lettori. Emerge anche tra i libri sulla paternità pubblicati nello stesso periodo per la brevità e per il suo essere “in potenza”, cioè senza una struttura rigida e con margini di sviluppo della storia, che ne permettono facilmente il passaggio ad altre forme come quella teatrale e cinematografica per opera di professionisti di grande fama. Le centinaia di migliaia di copie vendute, le numerose settimane in classifica e le decine di presentazioni in tutta Italia confermano la capacità dell’autore di rivolgersi a un pubblico estremamente ampio. Non soltanto a livello comune, ma anche la critica non ne mette in dubbio le qualità di scrittore e pur talvolta mostrandosi contrari al punto di vista di Serra incuriosiscono il lettore e lo portano a domandarsi se si ritrovano nelle sue parole.
È probabile quindi che dopo l’uscita degli Sdraiati Michele Serra sia riconosciuto e apprezzato come autore di questo specifico libro, in particolare da chi non è lettore assiduo di giornali oppure dai giovani che si approcciano allo scrittore proprio attraverso la sua esperienza di padre.

Sintesi della tesi di Annalisa Barbero Un autore e una casa editrice: Michele Serra e Feltrinelli. Il caso editoriale degli Sdraiati
Relatore: Prof. Roberto Cicala
Anno accademico 2021-2022

[1] Feltrinelli 60. 1955-2015. Catalogo storico, Feltrinelli, Milano 2015, p. 3.
[2] Intervista a Michele Serra di Annalisa Barbero, via e-mail, 15 agosto 2022.
[3] Michele Serra, Sull’editore, in A proposito di libri. Come nascono e diventano questi oggetti di carta dove leggiamo storie, idee e mondi interi, a cura di Arianna Cavallo e Giacomo Papi, Iperborea, Milano 2021, p. 91.
[4] Ibi, p. 92.
[5] Intervista a Michele Serra.
[6] Ibidem.
[7] Michele Serra, Sull’editore, p. 91.
[8] Paolo Pagani, La scrittura è un aeroplano. L’avventura intellettuale di otto grandi firme del giornalismo italiano, prefazione di Enrico Deaglio, Limina, Chiassa-Arezzo 1997, pp. 127-129.
[9] Michele Serra, Sull’editore, p. 92.
[10] Id., Il rapporto tra Padri e Figli nell’inedita “autorecensione” (e spiegazione) del nuovo romanzo, in “Uomo Vogue”, 14 novembre 2013, p. 56.
[11] Fulvio Paloscia, Serra in libreria «I miei sdraiati», in “la Repubblica”, 14 marzo 2014, p. 1.
[12] Antonio Prudenzano, Da Saviano a Serra… per Feltrinelli un ’13 in controtendenza. Ed ecco le novità del ’14, in “affaritaliani.it”, 27 novembre 2013: <https://www.affaritaliani.it/libri-editori
/feltrinelli-bilanci-e-futuro-con-gianluca-foglia.html
> (ultima consultazione: 15 novembre 2022).
[13] Si ringrazia l’ufficio stampa Feltrinelli per aver gentilmente concesso la consultazione della rassegna stampa degli Sdraiati.
[14] Massimo Recalcati, «Mio figlio, questo sconosciuto»: autoritratto di un papà disperato, in “la Repubblica”, 6 novembre 2013, p. 47.
[15] Arianna Finos, Sdraiati, in “la Repubblica”, 17 novembre 2017, p. 52.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Vita e opere di Sebastiano Vassalli https://editoria.letteratura.it/vita-e-opere-di-sebastiano-vassalli/ https://editoria.letteratura.it/vita-e-opere-di-sebastiano-vassalli/#respond Sun, 02 Oct 2022 18:02:39 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8809 La produzione letteraria di Sebastiano Vassalli ricostruita seguendo le vicende biografiche dell’autore. Sebastiano Vassalli nasce il 25 ottobre 1941 «in una città: Genova, e in un Paese, l’Italia, che era in guerra da diciassette mesi».[1] I suoi genitori, una ragazza-madre toscana e un uomo lombardo, si separano a guerra finita e il padre, ottenuto l’affidamento […]

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La produzione letteraria di Sebastiano Vassalli ricostruita seguendo le vicende biografiche dell’autore.

Sebastiano Vassalli nasce il 25 ottobre 1941 «in una città: Genova, e in un Paese, l’Italia, che era in guerra da diciassette mesi».[1] I suoi genitori, una ragazza-madre toscana e un uomo lombardo, si separano a guerra finita e il padre, ottenuto l’affidamento di Sebastiano, lo “consegna” ad un anziano parente che vive a Novara con due zie zitelle. «Orfano di genitori vivi»,[2] il giovane Sebastiano cresce senza affetti familiari e scopre l’interesse per la letteratura ai tempi del liceo, diventando un lettore formidabile. Nel 1958 si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università Statale di Milano, dove consegue la laurea otto anni dopo con una tesi sul rapporto tra arte e psicanalisi discussa con il professore Cesare Musatti. Negli anni universitari, per mantenersi, svolge i lavori più vari, come aiuto imbianchino, fattorino, facchino, aiuto bibliotecario e insegnante nelle scuole medie e nei licei. Nel pieno degli anni Sessanta «straordinari e straordinariamente inconcludenti»,[3] Vassalli inizia a trovare la propria voce anche in campo artistico. In anni portatori di ideologie nuove e spesso confuse, si inserisce la “disperata vitalità” di un giovane uomo, che sente il bisogno di cercare la propria identità e di provare la propria esistenza.

Gli anni della Neoavanguardia

Il suo esordio artistico non ricade nell’ambito letterario, bensì in quello pittorico. L’arte è «l’unica forma di obiettività possibile in questo presente»[4] e Vassalli la esprime in vignette, dai toni sarcastici e provocatori, che si inseriscono nel clima di sperimentazione di quegli anni. Nel 1964 viene allestita la sua prima personale a Venezia, nella galleria del Cavallino, mentre l’anno seguente ne viene presentata un’altra da Edoardo Sanguineti[5] a Milano, nella galleria del Naviglio. Nel 1968 si impegna per allestire la mostra “Oltre l’avanguardia” al Broletto di Novara, dove partecipano artisti internazionali.[6] Prosegue ancora per qualche anno questa sua stagione di ispirazione pittorica, che si materializza in una serie di “Ex voto”, ma nel frattempo Vassalli si avvicina al movimento letterario del Gruppo 63.

Negli anni Sessanta il mondo culturale è scosso dalla Neoavanguardia, o Gruppo 63, un movimento di contestazione della società e della letteratura. Il nome vuole richiamare le grandi avanguardie storiche del primo Novecento, ma allo stesso tempo prenderne le distanze con una diversa concezione del linguaggio. I neoavanguardisti, nelle loro poesie, testimoniano la civiltà contemporanea basata sul consumo, nella quale l’arte non è nient’altro che una merce. Il centro della loro riflessione artistica diventa la parola e il linguaggio, considerato sempre frutto di un’ideologia e pertanto portatore di menzogne. La parola e i segni perdono di significato e lo acquistano invece il collage linguistico e il montaggio di frammenti testuali totalmente differenti: solo così la letteratura può riprodurre la realtà ingannevole e scomposta nella quale si trova ad agire.[7]

Il gruppo 63 era una non-avanguardia, un non-gruppo, un non-tutto-e-il-contrario-di-tutto, tenuto insieme da idee confuse ma forti di quegli anni.[8]

Così Vassalli ricorda questo movimento artistico, di cui entra ufficialmente a far parte nel 1967, quando ottiene la sua seconda laurea, quella di scrittore, in una riunione del gruppo a Fano:

Dopo l’esame di laurea nel luglio del 1966, a maggio dell’anno successivo ho passato l’esame da scrittore, davanti a una commissione composta da notabili del Gruppo 63: i “moderni”. Eravamo a Fano sulla riviera adriatica e l’organizzatore dell’evento, il genius loci, era Alfredo Giuliani. Altri incontri dei moderni con annessa sessione di esami per aspiranti scrittori si erano già svolti a Palermo nel 1963 e a Reggio Emilia nel 1965, e se ne era parlato sui giornali; quello di Fano era il terzo. […] Ricordo che lessi una paginetta di un mio testo (poi pubblicato in Narcisso, 1968), che oggi, se mi venisse di rileggerlo, giudicherei “demenziale”. Ricordo che ricevetti le lodi di Alfredo Giuliani, che pure era un critico intelligente e attento, e le perplessità di Enrico Filippini. Ricordo che, rispondendo a Filippini, cercai di spiegare le ragioni di ciò che avevo scritto, ma che non fui particolarmente brillante. Anche quelle ragioni, di cui poi mi sono completamente dimenticato, se le riascoltassi oggi mi sembrerebbero demenziali. Vivevamo davvero in un altro mondo e in un’altra epoca.[9]

Vassalli viene così influenzato dal clima avanguardistico e la sua prima produzione letteraria è poetica. I suoi versi, carichi di una forte esuberanza immaginativa e di un furore creativo, sottolineano una connessione tra la realtà inquieta di quegli anni e la letteratura nelle sue molteplici parti del discorso.[10] I componimenti sono specchio dei malumori politici e sociali degli anni Sessanta e, con i loro toni satirici, paradossali ed esasperanti, anticipano il clima di contestazione che il Sessantotto porterà in Italia nel 1969.

Le prime pubblicazioni

In questi anni Vassalli compone il suo primo libro in assoluto: Lui (egli), pubblicato nel 1965 da Rebellato editore, una raccolta di prose sperimentali. Tra queste spicca “Narcisso”, testo con cui partecipa alla riunione di Fano del Gruppo 63 e che gli permette di entrare nell’entourage degli scrittori della casa editrice Einaudi. Guido Davico Bonino,[11] allora collaboratore presso la casa editrice, già un anno prima lo aveva contattato, in accordo con l’amico Giorgio Barberi Squarotti, per comunicargli il progetto di una nuova collana interamente dedicata alla poesia, dove avrebbero potuto trovare spazio i suoi componimenti. Così il secondo libro di Vassalli, Narcisso, vede la luce nel 1968 con il marchio Einaudi nella collana “La ricerca letteraria”, curata da Guido Davico Bonino, Giorgio Manganelli e Edoardo Sanguineti.[12] Da questo momento l’autore si lega agli editori di via Biancamano, da cui si staccherà poche volte nell’arco di tutta la vita, e nel 1970 viene pubblicato un altro suo libro, Tempo di màssacro, nato per puro divertimento:

Un giorno di gennaio del 1970 andai a Torino, alla casa editrice Einaudi, per salutare GDB: Guido Davico Bonino, il mio primo editore, e per lasciargli alcune pagine dattiloscritte di uno pseudomanuale cinquecentesco che stavo scrivendo, sull’arte di sterminare gli uomini. Non perché le pubblicasse (quelle pagine), ma perché le leggesse. Era uno scherzo; invece il mio scherzo capitò in mano a Calvino, che se ne entusiasmò al punto di buttare all’aria la programmazione di una sua nuova collana, l’“Einaudi Letteratura”, per inserire il mio libro tra i primissimi titoli. Il manuale, che poi finii di scrivere sulle bozze di stampa, uscì a maggio e si intitolò Tempo di màssacro.[13]

Dopo appena due anni Einaudi di nuovo manda in stampa un’opera di Vassalli intitolata Il millennio che muore, sempre inseribile all’interno del clima sperimentale e d’avanguardia. Continua anche qui una metodica ricerca alla disgregazione della sintassi del discorso, allo sgretolamento dei vocaboli, all’alternarsi di elementi aulici e bassi, per ottenere un effetto caotico e confusionario. Le sperimentazioni letterarie del Vassalli trentenne tendono a rendere percettibile, attraverso la manipolazione linguistica, la disomogeneità e la pluralità che regnano il mondo reale. Ecco quindi che è la lingua ad essere il vero centro di contemplazione e la vera essenza del mondo, il quale senza di essa non esisterebbe.[14] Questa fase di sperimentazione prosegue con Manuale di corpo ovvero Sentenze di scrittori antichi e moderni, scritto nel 1972, ma pubblicato solo nel 1983 su insistenza degli amici Attilio Lolini e Carlo Fini, dove l’indole da collezionista di citazioni e frammenti prende il sopravvento, e AA. Il libro dell’utopia ceramica del 1974, pubblicato dall’editore Longo in una collana autogestita dagli stessi autori, che richiama già nel titolo il concetto di “razo en si” di Jaufré Rudel.[15]

L’attività editoriale del giovane Vassalli

L’eclettismo giovanile di Vassalli e la sua voglia di sperimentare lo portano a occuparsi anche di editoria. In Narcisso già è presente qualche accenno a questa sua occupazione, nel ritratto dell’autore, dove si menziona una raccolta di “collage freddi” dal titolo Nel labirinto pubblicati sotto l’edizione C.d.e. E ancora, in una serie di lettere scambiate tra lo scrittore e l’Einaudi nell’estate del 1968, in relazione ad un volumetto appena finito e spedito in visione alla casa editrice, traspare che la sigla CDE, sebbene «non nasconda alcun editore», stia a significare «Centro di documentazione estetica» e risieda a «Novara c/o Sebastiano Vassalli». L’autore quindi ha iniziato a svolgere anche l’attività di auto-editore, avviando una collaborazione con una stamperia del centro città di Novara, Mora Grafica, i cui mezzi a disposizione permettono di produrre libri economici, in brossura fresata con l’utilizzo del solo inchiostro nero.[16] Con questa piccola impresa editoriale arriva a stampare, fino al 1974, una ventina di libri; la sigla CDE, dopo il breve periodo iniziale, viene presto sostituita da Ant. Ed (con o senza punto), per richiamare un’idea di “anti editoria”.[17] Ricade sotto questo nome anche la rivista che prende vita per iniziativa di Vassalli insieme con Giorgio Barberi Squarotti, Cesare Greppi, Ugo Locatelli, William Xerra e Luciano Caruso:[18] “Ant. Ed Foglio bimestrale di poesia e scienze affini”, il cui primo numero esce nel novembre 1968 e che è destinata a fermarsi dopo il quarto.

La scoperta del genere narrativo e la maturità letteraria

Lasciatosi alle spalle le esperienze del Gruppo 63, Vassalli approda alla narrativa tradizionale nella seconda metà degli anni Settanta, esattamente nel 1976 quando pubblica per Einaudi il suo primo romanzo L’arrivo della lozione. Con questo libro prende rumorosamente le distanze dalle ideologie sessantottine, scegliendo come protagonista Benito Chetorni, un semianalfabeta cresciuto in ambienti malavitosi che diventa picchiatore fascista. Il clima della Neoavanguardia, che in Vassalli aveva assunto toni ispidi e rivoluzionari, cede adesso il passo alla ricerca di una maggiore verosimiglianza e comunicabilità con il lettore. L’arrivo della lozione segna un punto di rottura con il passato, reso ben evidente con la scelta di narrare una storia sull’estremismo di destra.[19] Inizia così la breve fase post-avanguardistica dello scrittore, che prosegue con Abitare il vento (1980) e Mareblù (1982). Se nel primo Vassalli descrive per la prima volta un personaggio completo e reale, nel secondo, pubblicato da Mondadori nella collana “Scrittori italiani e stranieri”,[20] si cimenta in una satira politica nata per intercessione dell’amico Giulio Bollati:

Mi fece conoscere un regista cinematografico che, a suo dire, cercava un soggetto per “una commedia all’italiana” con Alberto Sordi come protagonista. Era una balla, e credo che Alberto Sordi non ne abbia mai saputo niente; ma fu così che nacque Mareblù.[21]

Vassalli raggiunge la maturità narrativa con La notte della cometa (1984):

Sono diventato scrittore a quarant’anni. Da allora, credo di aver fatto alcune cose buone e anche ottime.[22]

Il romanzo ha come protagonista Dino Campana, poeta italiano vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, cui l’autore dedica molti anni di studio, alla ricerca di precise informazioni biografiche. Anche dopo la pubblicazione del libro, questo legame con il «babbo matto che mi sono dato al posto dell’impresentabile babbo anagrafico»,[23] continuerà ad essere un aspetto molto importante della vita dell’autore. Il rapporto che unisce Vassalli a Campana va oltre il semplice interesse artistico, come afferma egli stesso in un’intervista rilasciata in occasione delle Scuole di lettura in biblioteca nel 2001:

Mi avvicinò a Campana una parabola, oltre che artistica anche personale, comune a molti autori italiani, da Dante ai nostri giorni: quella di essere passati attraverso un’avanguardia, e di esserne usciti delusi: […] per Campana [si era chiamata] futurismo, per me, in maniera molto più dimessa, era stato il Gruppo 63.[24]

Questo libro segna uno spartiacque fondamentale nel suo percorso letterario: se da un lato mostra un affetto viscerale nei confronti di Dino Campana, dall’altra sancisce la definitiva consacrazione di Vassalli come scrittore di narrativa. Molto deve all’amico Giulio Bollati, il quale lo affianca nella scelta di lasciare definitivamente la carriera di insegnante nel 1979 e lo sprona a continuare a scrivere, nonostante la titubanza iniziale di Vassalli, che nel 1982 si iscrive alla Camera di Commercio di Novara come venditore ambulante di libri, stampe e oggetti d’arte:

Quando lasciai l’insegnamento, nel 1979, io non pensavo di poter vivere facendo lo scrittore e mi ero registrato alla Camera di Commercio di Novara come venditore ambulante (ho ancora l’attestato) di libri, stampe e oggettistica varia. […] Bollati, in quella circostanza, fu impareggiabile. Da un lato, fingeva di approvare le mie decisioni e di incoraggiarle; dall’altro, mi proponeva di fare dei lavori come scrittore, che non avrebbero intralciato i miei commerci a venire, ma avrebbero dovuto affiancarli.[25]

Il rapporto con Giulio Einaudi e l’approdo al romanzo storico

Con La notte della cometa Vassalli riceve le attenzioni anche del “divo” Giulio Einaudi, nonostante la sua firma facesse parte della casa editrice già da qualche tempo, e dopo pochi anni si sorprende nel vederlo difendere a spada tratta il suo nuovo romanzo, L’oro del mondo (1987):

Giulio Einaudi mi ha scoperto nel 1985, dopo La notte della cometa e dopo avermi ignorato per diciassette anni. Ero un suo autore dai tempi di Narcisso, cioè dal 1968; ma le rare volte che lo incontravo nei corridoi della sua casa editrice, mi guardava senza vedermi e una volta mi scambiò anche per un traduttore. […] Nel 1987, quando chi allora comandava nella ex sua casa editrice mi rifiutò il manoscritto del romanzo L’oro del mondo e mi fece intendere (non so perché…) che dovevo cercarmi un altro editore, Einaudi fece una mattana memorabile. Mobilitò in mia difesa i maggiori autori e consulenti della casa editrice: Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Federico Zeri… Il libro uscì con il marchio dello Struzzo e l’editore scelse personalmente l’immagine di copertina: un’opera giovanile di Sironi, molto bella.[26]

Nonostante questo momento di vicinanza tra Vassalli ed Einaudi, il suo rapporto con la casa editrice non fu dei migliori. Indubbiamente erano anni duri per gli editori di via Biancamano, poiché la crisi che li colpì negli anni Ottanta ebbe notevoli ripercussioni, ma risulta evidente che la considerazione nei confronti dello scrittore era praticamente nulla, come riporta egli stesso in una lettera privata destinata a Giulio Einaudi nel dicembre del 1987:

In questi anni sono riuscito a fare qualche buon libro nella totale indifferenza della casa editrice tua omonima. […] Ciò che ti chiedo è questo: può un libro – anche buono, anche ottimo – avere successo contro tutti e contro la stessa casa editrice che l’ha pubblicato?

La rottura vera e propria si consumò qualche anno dopo, nel biennio 1997-1998; in questi anni Vassalli passa alla casa editrice Baldini & Castoldi diretta da Alessandro Dalai, il precedente editore dello Struzzo e il motivo del litigio tra lo scrittore e Giulio Einaudi. Ma prima di questo scontro, dopo L’oro del mondo, quando i rapporti erano ancora sereni, l’autore lavora ad un nuovo romanzo che esce nel 1990 con il titolo di La chimera: ambientato a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento nella città di Novara e dintorni, ha come protagonista Antonia, una bella trovatella che finisce bruciata sul rogo con l’accusa di essere una strega. Vassalli lavora instancabilmente dal 1987 per ricercare dati e fonti su quel determinato periodo storico nell’area novarese e questo lo costringe anche a ritornare più volte su parti già stese del romanzo, diversamente dal solito, per correggerle o ampliarle.[27] Con questo libro nello stesso anno Vassalli si aggiudica il Premio Strega e arriva tra i finalisti al Premio Campiello, avendo ormai ben chiaro il vero intento della propria vocazione letteraria:

La letteratura di genere non mi interessa. Il giallo, il nero, il rosa… La realtà non è divisa in generi. […] Mi piace estrarre le mie storie anche dal passato, con una tecnica non molto diversa da quella che i geologi chiamano “carotaggio”. Mi piace estrarre dal passato delle storie-campione, che ci aiutano a capire perché il mondo dove viviamo si è venuto formando in un certo modo.[28]

L’autore ha trovato un proprio genere narrativo, quello del romanzo storico, che persevera nel 1992 con la pubblicazione di Marco e Mattio: ambientato nella seconda metà del Settecento nella valle di Zoldo nelle dolomiti, tratta il tema della diversità, della follia e dell’omosessualità con una narrazione sapientemente equilibrata tra spazio naturale e spazio umano, tra storia di un’identità sociale e storia del singolo protagonista.[29] Ancora nel 1993 viene pubblicato, sempre per conto di Einaudi, Il cigno, con cui Vassalli approda nella Sicilia di fine Ottocento per raccontare la storia del delitto di Notarbartolo, compiuto dalla mafia il 1 febbraio 1893 e voluto, a quanto risulta, dall’onorevole Raffaele Palizzolo detto “il Cigno”. Siamo nuovamente di fronte a un fatto effettivamente accaduto, da cui l’autore ricava una storia da raccontare. Toccando nel Cigno il tema della mafia, Vassalli si immette in un filone letterario che oggi è governato da Saviano, ma che fu iniziato da Sciascia. Contrariamente alle aspettative, il giudizio sul suo predecessore del Giorno della civetta (1961) non è dei migliori:

Per criticare gli aspetti negativi del Paese Sommerso, Sciascia ha criticato la polizia dei partiti. Ha detto che gli effetti erano le cause, e che i mali della Sicilia venivano da Roma. La storia di cento e più anni fa che io ho raccontato nel mio romanzo Il Cigno: la storia di Emanuele Notabartolo, di Raffaele Palizzolo e del “Comitato Pro Sicilia” spiega quasi tutto ciò che c’è da spiegare del Paese Sommerso; ma, soprattutto, mostra che anche in Sicilia si parte dalle cause per arrivare agli effetti. […] La visione del mondo di Sciascia si potrebbe riassumere in un gioco di specchi dove gli effetti diventano cause, anzi: gli effetti sono le cause. Uno sguardo penetrante che non svela nulla, e una saggezza che non porta in nessun posto. Una saggezza immobile. Un’illusione di impegno civile.[30]

Dopo questa parentesi siciliana – e un tentativo di genere fantascientifico, molto criticato dai recensori, con 3012. L’anno del profeta (1995) – torna di nuovo in territorio novarese con Cuore di pietra (1997), la cui protagonista indiscussa è una casa nel centro città, palcoscenico delle vicende di molti personaggi che ci accompagnano in un viaggio che dal Regno d’Italia si prolunga per centocinquant’anni. Dopo questa pubblicazione, si acuiscono le tensioni con Giulio Einaudi[31] e per conto della casa editrice Baldini & Castoldi vengono pubblicati, nel 1998, La notte del lupo e Gli italiani sono gli altri.

L’ultima occasione in cui Vassalli si rapporta con Giulio Einaudi è una telefonata la sera di capodanno del 1998; dopo pochi mesi infatti l’editore muore, nell’aprile del 1999. Così Vassalli, in uno dei suoi Improvvisi del 6 aprile 1999, si appella all’amico appena scomparso:

Dal primo libro che tu mi pubblicasti, ignorandomi, nel lontano 1968, alla tua ultima telefonata di qualche settimana fa, con cui riallacciavi, con quell’affetto e con quella generosità che caratterizzavano i tuoi momenti migliori (c’erano anche quelli peggiori, ma alla fine venivano cancellati dagli altri) un rapporto che apparentemente si era spezzato, e di cui ora, davanti alla notizia della tua morte, misuro per la prima volta la profondità e la solidità.

In questa lettera fa anche menzione di nuovo manoscritto a cui sta lavorando e che pensava di spedire, una volta terminato, proprio al defunto Giulio Einaudi. Il romanzo che ne deriva si intitola Un infinito numero, dove l’autore riflette sul tema della scrittura, attuando un confronto tra la civiltà etrusca, totalmente priva di letteratura, e la civiltà romana, totalmente assorbita dalla letteratura.[32]

L’avvento degli anni Duemila

Con l’inizio del nuovo secolo l’autore decide di concedersi un periodo di pausa dai romanzi improntati sulle storie del passato, per concentrarsi invece sul tempo presente: nel 2001 l’Einaudi pubblica Archeologia del presente, romanzo che ripercorre il contesto storico degli ultimi trent’anni del secolo. Negli anni successivi la produzione dello scrittore è molto prolifera e tocca diverse tematiche. Dopo la chiusura della collana dei «Coralli», la casa editrice Einaudi inaugura nel 2002 una nuova collana, «L’arcipelago», con Dux: Casanova in Boemia, ritratto di «un Casanova ormai vecchio che si trova a combattere ironicamente contro la sua stessa immagine giovane».[33] Nel 2005 torna ad essere al centro di un altro suo libro, Amore lontano, una riflessione sulla letteratura, più precisamente sulla poesia:

Racconto le storie di sette poeti per parlare della poesia, e parlo della poesia per arrivare al principio di tutto, cioè alla parola.[34]

Negli anni Duemila scopre anche una predilezione verso il racconto, approfondito in La morte di Marx e altri racconti (2006), L’italiano (2007) in cui offre undici ritratti di italiani, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni (2008). Torna a narrare storie nel 2010 con Le due chiese, ambientato nuovamente nelle alpi piemontesi, in cui si susseguono le vicende di un piccolo paese sullo sfondo degli avvenimenti politici principali del Novecento, e con Terre selvagge del 2014, romanzo sulla sconfitta subita nel 101 a.C. dai Cimbri per opera di Caio Mario. Nel maggio dell’anno successivo riceve la candidatura ufficiale al Premio Nobel per la letteratura, ma dopo pochi mesi muore all’età di settantaquattro anni a Casale Monferrato.

Il «carattere degli italiani»

Nel corso della sua vita Vassalli ha anche svolto l’attività di giornalista. Negli anni della Neoavanguardia inizia a collaborare con alcune riviste, mentre dal 1978 scrive prima recensioni e commenti nella pagina dedicata ai libri su “l’Unità”, poi pubblica con cadenza regolare brevi racconti su “Il Mattino”, raccolti per conto della casa editrice Interlinea in una pubblicazione postuma, I racconti del mattino (2017). Dagli anni Novanta inizia a collaborare con “la Repubblica” e il “Corriere della Sera”, dove propone brevi riflessioni sociali, molto incisive, con il nome di Improvvisi. Mentre dalle opere di narrativa emerge la sua passione verso l’approfondimento e la ricerca storica, Vassalli giornalista predilige concentrarsi sulla realtà che lo circonda, sul paese nel quale si trova a vivere e a scrivere. Questi due diversi ambiti investigativi sono, a dir suo, complementari ed è compito di ogni scrittore interrogare le ragioni profonde della propria nazione:

Quello del carattere nazionale è un tema importante: direi addirittura un tema obbligato, se vuoi fare il mestiere dello scrittore in modo non superficiale. Naturalmente se scrivi romanzi di genere: i romanzi neri, i gialli, i rosa, i verdastri (come diceva Céline…), puoi anche non occuparti di queste faccende, perché ti muovi nell’universalità della superficialità. Sei un “cittadino del mondo”: i sentimenti e gli orifizi, più o meno sono gli stessi dovunque. Ma se vuoi andare al di là dell’intrattenimento non puoi sfuggire alla consapevolezza di appartenere a una lingua, a una storia, a una comunità di parlanti. Ti piaccia o no. Se vuoi arrivare davvero a capire qualcosa della vita e del mondo devi passare attraverso la specificità del tuo carattere nazionale.[35]

Nasce da questo interesse al «carattere nazionale» il libro Sangue e suolo pubblicato nel 1985 da Einaudi, che analizza il rapporto tra la popolazione italiana e quella tedesca in Alto Adige (terra cara a Vassalli, che di lì a qualche anno la sceglierà come ambientazione del romanzo Marco e Mattio). In realtà il libro nasce dalle ceneri di un reportage giornalistico che, su insistenza dell’amico Giulio Bollati, l’autore accetta di scrivere per conto della rivista “Panorama Mese”. Il direttore, rimasto scontento del risultato finale, pubblica nel numero di luglio del 1983 soltanto alcune parti dell’inchiesta svolta. Nello stesso anno, su commissione di Piero Gelli per conto della casa editrice Garzanti, Vassalli torna in Alto Adige in occasione delle elezioni per scrivere un libro sul bilinguismo e sulle difficoltà d’integrazione della popolazione, pubblicato però da Einaudi due anni dopo. Questo segna solo l’inizio di un percorso di analisi sociale e nazionale che, accanto agli articoli scritti per i giornali, viene approfondito anche nella narrativa con Il Neoitaliano (1991), Gli italiani sono gli altri: Viaggio (in undici tappe) all’interno del carattere nazionale italiano (1998) e L’italiano (2007).

Sebastiano Vassalli e la scuola

Negli anni universitari Vassalli si trova a insegnare per potersi mantenere economicamente[36] e svolge questa attività dal 1961 fino al 1979. Lavora come supplente a tempo pieno nelle scuole statali medie e superiori prima a Oleggio, poi a Novara, insegnando letteratura e storia. Il ricordo di questi anni non è dei più felici e il lavoro da insegnante si rivela ben presto non essere la vocazione dell’autore, come testimonia lui stesso:

Io ho fatto come don Chisciotte con i mulini a vento. Ho cercato di contrastare le parole d’ordine di quegli anni, che miravano a demolire i due pilastri su cui si fonda qualsiasi sistema scolastico serio. Gli slogan contro il deprecato “nozionismo” (ma cos’altro può e deve trasmettere la scuola, se non, appunto, nozioni?) e quelli contro l’ancor più deprecata “meritocrazia” (che è il giusto riconoscimento di ciò che si fa. Ma per chi non sa nulla e non fa nulla, la meritocrazia non può esistere se non come spauracchio). Finché non ho avuto la possibilità di andarmene dalla scuola, e di fare altro, ho cercato di essere un buon insegnante. Purtroppo questo comportava una gran fatica e un gran dispendio di energie.[37]

Con questa esperienza acquisisce una certa conoscenza del settore didattico e si adopera per cercare di avvicinare i giovani studenti al mondo della letteratura. La casa editrice Einaudi già aveva una collana specializzata nella pubblicazione di libri adatti agli adolescenti: “Letture per la scuola media”. Proprio per questa collana si propone di lavorare, per «postillare, chiosare o comunque curare» alcuni libri. Tra il 1972 e il 1977 inizia così questa collaborazione e l’autore si occupa di curare le note, le prefazioni e le introduzioni a diverse opere di Sciascia, Dolci, Viganò, Tobino, Malcolm X, Revelli e Gramsci.[38] Nel giro di due decenni, in risposta al successo letterario sempre più crescente di Vassalli, i suoi stessi libri entrano a far parte della collana per ragazzi di Einaudi Scuola “I libri da leggere”: La chimera a cura di Vincenzo Viola, pubblicata nel 1993, e Cuore di pietra a cura di Giovanni Tesio, pubblicato nel 2000.

Lo scrittore inizia a insegnare in un periodo in cui la scuola subisce diverse trasformazioni, complici i tempi di protesta e i cambiamenti di fine anni Sessanta, e proprio nel 1962 la classe dirigente emana un importante provvedimento, con cui viene varata la scuola media unificata con obbligo fino ai tredici anni di età.[39] Da questo momento l’affluenza nelle scuole medie inferiori (come allora si chiamavano) aumenta, e se nel 1961, primo anno di Vassalli come insegnante, la percentuale degli iscritti è il 63,1% dei ragazzi dell’età relativa, nel biennio 1975-1976 si raggiunge il 100%. Per quanto riguarda invece il liceo, l’affluenza è decisamente minore ma comunque in crescita: nel 1961-62 più del 20% dei ragazzi dell’età relativa risulta iscritto, mentre nel 1975 si raggiunge il 50%.[40] La seconda metà del secolo, quindi, registra un’espansione rilevante delle attività scolastiche, come testimoniano questi dati, tanto che si parla di “scolarizzazione di massa”:[41] l’importante crescita demografica di questi decenni e le maggiori possibilità di vita e di lavoro mal si conciliano con i bassi livelli d’istruzione ancora in vigore dalla prima metà del secolo.

Negli anni Sessanta, al crescente numero di studenti nella scuola media unificata, il corpo docenti non riesce però a rispondere in modo adeguato: rimangono ancora in vigore programmi scolastici e tecniche di apprendimento e insegnamento che, anziché garantire una formazione completa, sembrano ostacolarla. Si deve aspettare il 1979 per una nuova legge di revisione dei programmi, ma già nel corso degli anni Settanta molti insegnanti si rendono più inclini all’accoglienza e alla promozione formale degli studenti, così da fornire una spinta per la ricerca di livelli di istruzione ancor più elevata.[42]

Sempre negli stessi anni, si diffonde tra gli studiosi di scienze dell’educazione, sociologiche ed economiche, la convinzione che le scuole gravino troppo sulle risorse dello stato e che questo investimento non sia redditizio: i giovani vengono educati a una cultura standardizzata, fatta di modelli consumistici e incapace di insegnare la promozione sociale che dice di perseguire. La proposta di questi “descolarizzatori” – termine coniato da Ivan Illich in Descolarizzare la società (1970) – è di sancire definitivamente la morte della scuola ed eliminare la figura di insegnante con le proprie pratiche ritenute “autoritarie”.[43] Di tutte queste tappe che la scuola ha dovuto affrontare nei decenni di fine secolo, specialmente negli anni Sessanta e Settanta, Vassalli ne è testimone e ricorda che insegnare ormai non è più considerato una vocazione, ma «una necessità»:

L’insegnamento nelle scuole medie e poi nelle medie superiori, in quegli anni, era un approdo obbligato: una necessità, per chi come me doveva mantenersi fin da subito, prima e dopo la laurea. Cos’altro avrei potuto fare? Ho assistito alla crescita (purtroppo, soltanto quantitativa), e poi all’esplosione della scuola italiana: dagli anni in cui mancavano gli insegnanti e si metteva in cattedra chiunque avesse una laurea o un diploma anche falso (c’erano anche le lauree e i diplomi falsi, sissignore), a quelli in cui arrivò l’onda d’urto dei cosiddetti “sessantottini”, ignorantissimi. Che essendo arrivati al titolo di studio a forza di assemblee e di voti politici e non avendo un bel nulla da insegnare, si impancavano a improbabili “maestri di vita”.[44]

Indubbiamente lo scrittore non ha esercitato la professione di insegnante per voler proprio, ma ha tentato nel suo piccolo di non cadere vittima dei numerosi cambiamenti in atto nella scuola di quegli anni. Forse mai avrebbe pensato di ritornare in quelle aule, dove un tempo aveva insegnato con così tanta fatica, per essere studiato dagli alunni, ma, essendo divenuto una delle figure letterarie più emblematiche dei tempi contemporanei, oggi lo troviamo citato e approfondito in molti manuali di letteratura italiana, come dimostrerò nel secondo capitolo.

[1] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., p.9, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[2] Ivi, p.17.

[3] Ivi, p.41.

[4] Dépliant della mostra di Sebastiano Vassalli alla galleria del Cavallino, Venezia 1964.

[5] Edoardo Sanguineti (1930-2010) è noto per il suo legame con il movimento della Neoavanguardia e per la sua produzione poetica, pubblicata quasi interamente da Feltrinelli. È stato inoltre un italianista, studioso di Dante e della poesia dell’ultimo secolo, e traduttore di opere di classici antichi e moderni.

[6] La nascita di uno scrittore. Vassalli prima della Chimera: 1965-1989, catalogo della mostra (Novara, Biblioteca Civica Negroni, 23 novembre-11 dicembre 2017), a cura di Roberto Cicala e Linda Poncetta con presentazione di Giovanni Tesio, p.33, EDUCatt, Milano 2017.

[7] Giuseppe Langella, Pierantonio Frare, Paolo Gresti, Uberto Motta, Letteratura.it. Storia e testi della letteratura italiana, vol. 3b: La metamorfosi del canone. L’età della crisi. Dalle avanguardie storiche al Postmoderno, pp. N159-N162, Scolastiche Bruno Mondadori, Milano – Torino 2012.

[8] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., p.42, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[9] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., p.43, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[10] Cristina Nesi, Sebastiano Vassalli, pp.23-29, Cadmo, Fiesole 2005 (“Scritture in corso”, 14).

[11] Guido Davico Bonino (Torino, 1938) è un critico letterario e teatrale e un accademico italiano; è stato assunto come collaboratore da Italo Calvino per la casa editrice Einaudi, dove ha lavorato dal 1961 al 1978.

[12] La nascita di uno scrittore. Vassalli prima della Chimera: 1965-1989, catalogo della mostra (Novara, Biblioteca Civica Negroni, 23 novembre-11 dicembre 2017), a cura di Roberto Cicala e Linda Poncetta con presentazione di Giovanni Tesio, p.43, EDUCatt, Milano 2017.

[13] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., p.48, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[14] Cristina Nesi, Sebastiano Vassalli, pp.26-28, Cadmo, Fiesole 2005 (“Scritture in corso”, 14).

[15] Jaufré Rudel (XII sec.) è stato un poeta e trovatore francese, i cui componimenti si distinguono per una ripetizione vocalica posta a chiusura di ogni strofa: «a a», che prende il nome di “razo en si”.

[16] Roberto Cicala, La sperimentazione editoriale del giovane Vassalli, in “Microprovincia” 49 (2011), pp.13-14.

[17] La nascita di uno scrittore. Vassalli prima della Chimera: 1965-1989, catalogo della mostra (Novara, Biblioteca Civica Negroni, 23 novembre-11 dicembre 2017), a cura di Roberto Cicala e Linda Poncetta con presentazione di Giovanni Tesio, p.53, EDUCatt, Milano 2017.

[18] Cristina Nesi, Sebastiano Vassalli, p.22, Cadmo, Fiesole 2005 (“Scritture in corso”, 14).

[19] Ivi, p.43.

[20] La nascita di uno scrittore. Vassalli prima della Chimera: 1965-1989, catalogo della mostra (Novara, Biblioteca Civica Negroni, 23 novembre-11 dicembre 2017), a cura di Roberto Cicala e Linda Poncetta con presentazione di Giovanni Tesio, p.61, EDUCatt, Milano 2017.

[21] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., p.99, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[22] Ivi, cit., p.53.

[23] Ivi, p.64.

[24] Cristina Nesi, Sebastiano Vassalli, p.57, Cadmo, Fiesole 2005 (“Scritture in corso”, 14).

[25] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, pp.97-99, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[26] Ivi, p.99.

[27] Cristina Nesi, Sebastiano Vassalli, p.75, Cadmo, Fiesole 2005 (“Scritture in corso”, 14).

[28] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, p.57, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[29] Cristina Nesi, Sebastiano Vassalli, p.83, Cadmo, Fiesole 2005 (“Scritture in corso”, 14).

[30] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., pp.82-83, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[31] Cfr. p.7.

[32] Cristina Nesi, Sebastiano Vassalli, pp.102-103, Cadmo, Fiesole 2005 (“Scritture in corso”, 14).

[33] Ivi, p.151.

[34] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., p.53, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[35] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., pp.73-74, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

 

[36] Cfr. p.1.

[37] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., pp.33-34, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).

[38] La nascita di uno scrittore. Vassalli prima della Chimera: 1965-1989, catalogo della mostra (Novara, Biblioteca Civica Negroni, 23 novembre-11 dicembre 2017), a cura di Roberto Cicala e Linda Poncetta con presentazione di Giovanni Tesio, p.25, EDUCatt, Milano 2017.

[39] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana: dal 1946 ai nostri giorni, p.69, GFL Editori Laterza, Roma-Bari, 2014 (“I Robinson. Letture).

[40] Ivi, p.72.

[41] Saverio Santamaita, Storia dell’educazione e delle pedagogie, pp.120-121, Bruno Mondadori, Milano 2013 (“UBM: Università Bruno Mondadori”).

[42] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, p.73, GFL Editori Laterza, Roma-Bari, 2014.

[43] Saverio Santamaita, Storia dell’educazione e delle pedagogie, pp.123-124, Mondadori Bruno, Milano 2013 (“UBM: Università Bruno Mondadori”).

[44] Sebastiano Vassalli, Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, cit., p.33, Interlinea, Novara 2010 (“Biblioteca del Centro novarese di studi letterari”, 51).


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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La “locomotora” di via Diaz: Pablo Neruda e i Tallone https://editoria.letteratura.it/la-locomotora-di-via-diaz-pablo-neruda-e-i-tallone/ https://editoria.letteratura.it/la-locomotora-di-via-diaz-pablo-neruda-e-i-tallone/#respond Sun, 02 Oct 2022 17:46:37 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8806 Uno studio che ricostruisce l’insolita relazione tra il poeta Pablo Neruda, la bottega tipografica dei Tallone e una locomotiva parcheggiata nel loro giardino. Fin da piccoli Alberto e Guido Tallone adorano i treni. Ad Alpignano si assiste a una specie di vero e proprio rito, ogni volta che il Roma-Parigi transita per la stazione: cronometro […]

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Uno studio che ricostruisce l’insolita relazione tra il poeta Pablo Neruda, la bottega tipografica dei Tallone e una locomotiva parcheggiata nel loro giardino.

Fin da piccoli Alberto e Guido Tallone adorano i treni. Ad Alpignano si assiste a una specie di vero e proprio rito, ogni volta che il Roma-Parigi transita per la stazione: cronometro alla mano, i due fratelli ne verificano la puntualità, cercano di cogliere con gli occhi i visi dei viaggiatori, a volte mettono addirittura una monetina sui binari – il passaggio del treno l’avrebbe deformata in maniera unica e questo avrebbe significato ogni volta qualcosa di nuovo e di emozionante –.[1]

Siamo nel 1960, l’anno dell’inaugurazione della “casa-bottega” tanto desiderata da Alberto: giunge la notizia dell’ultimo transito di una vecchia locomotiva a vapore, costruita nel 1900[2] dalle Officine di Saronno e attiva presso lo scalo ferroviario interno al Lingotto torinese. Il suo destino è la demolizione, almeno fino a quando i Tallone non intervengono. Alberto e Guido contattano il presidente della Fiat in persona, Vittorio Valletta, e lo convincono ad effettuare uno scambio: classici danteschi e un quadro di Guido in cambio della locomotiva.

Gli operai addetti alle demolizioni erano già con la fiamma ossidrica in mano, ma furono fermati pochi minuti prima che il fuoco cominciasse a violare questo cimelio. Ad Alpignano raccontano che ci rimasero male. Poi la grande locomotiva fu posta nel giardino dei Tallone, venne costruita una linea di 45 metri che collegava le case di Guido e di Madino. Si facevano visita l’un l’altro mettendola in pressione, tirando la sirena dopo gli sbuffi del vapore, ricordando l’epoca dei loro viaggi, quando la natura li raggiungeva ai finestrini di un treno e non si doveva cercarla e scoprirla come una rarità. Diventò una parte della tipografia, anzi per taluni aspetti ne testimoniava il carattere, e ricordava ai visitatori che i padroni di casa avevano un ospite fisso, che un giorno si chiamava sogno e quello successivo fantasia. Per questi e per altri motivi la locomotiva conobbe un successo singolare.][3]

Ben presto il giardino dei Tallone fa spazio a una vaporiera a scartamento ridotto, proveniente dalla Val di Susa, con tanto di vagoncini, pompa per caricare l’acqua nel serbatoio, orologio a muro e panchina in stile liberty. A casa Tallone si fa merenda in giardino, in una vera e propria stazione.

Molti dei celebri ospiti e clienti della casa editrice rimangono meravigliati dall’atmosfera che scaturisce da un “gigante di ferro” in giardino; non pochi chiedono di fare un giro a un entusiasta Alberto, che non perde mai occasione di calarsi nei panni di capotreno e di mettersi alla guida. Rimane perciò piacevolmente sorpreso quando, il 7 giugno del 1962, trova sulla sua locomotiva Pablo Neruda[4] e la compagna Matilde Urrutia,[5] sorridenti e del tutto dimentichi di essere attesi per il pranzo.

Pablo Neruda scopre la figura di Alberto Tallone e le edizioni di classici da lui curate già nel 1955.[6] Questo motiva la presenza, nel finale della sua Oda a la Tipografía, dove innalza alle vette dell’arte i tipografi e i bibliofili, le iniziali A e T, chiaro riferimento ad Alberto Tallone.[7]

È nel 1962 che il poeta cileno ha la possibilità di entrare in contatto con Tallone in persona: si trova a Milano, in galleria, quando scorge nella vetrina della libreria Garzanti una copia delle edizioni Tallone. È un attimo: Pablo entra assieme a Matilde e riesce a farsi combinare un incontro con Alberto per l’indomani, il 7 giugno. La notizia mette in subbuglio la “casa-bottega” alpignanese: mentre Bianca pensa ad allestire un pranzo degno degli ospiti che stanno per ricevere, Alberto prepara la locomotiva: «noi si mise dentro fascine, paglia e gli si fece fumare la locomotiva, per rendere omaggio al poeta».[8]

Quando Pablo e Matilde arrivano in via Diaz rimangono basiti: la visione della locomotiva, delle rotaie e dell’abbondante fumo nero li coglie di sorpresa. «Credemmo di aver sbagliato direzione, forse eravamo giunti alla stazione del paese»,[9] scrive Neruda nell’Addio a Tallone: in realtà il posto è quello, solo l’orario è sbagliato. Sono le due e mezza, gli ospiti erano attesi per pranzo. Quando Alberto, preoccupato per il ritardo, decide di uscire nel parco, è il suo turno di rimanere a bocca aperta: Neruda e Matilde sono sulla locomotiva.

Durante il pranzo il poeta parla con entusiasmo di treni, di locomotoras[10] e di libri, non vede l’ora di esplorare il mondo da lui tanto esaltato della stampa a caratteri mobili; fa il giro dei libri, rimane incantato da I promessi sposi, le Rime dantesche, i testi dei grandi filosofi greci presocratici. Pablo Neruda in quel momento si innamora delle edizioni Tallone, non potrà più farne a meno.

Una settimana dopo arriva ad Alberto la prima di una lunga serie di lettere scritte dal poeta. Con grande affetto Neruda ricorda la permanenza ad Alpignano, piacevole in ogni dettaglio (dalla stamperia, al vino, alla sorprendente e inaspettata locomotiva)[11]; aggiunge inoltre che ha inviato a Bellini[12], traduttore di fiducia, un testo che – il poeta ci tiene molto a sottolinearlo – «c’est totalement inédit même en espagnol».[13] Prospetta anche altre collaborazioni con il traduttore (parla di un Bestiario, di un Herbario e di venti poemi d’amore – che andranno poi a comporre per l’appunto Venti poemi d’amore e una canzone disperata) e concede ad Alberto di scegliere ciò che più gli piace: «le reste jetez le à la locomotive parce que cette fumée rendra justice»,[14] conclude scherzosamente Neruda.

Alberto non perde tempo: la prospettiva di stampare un inedito di Neruda (dal titolo provvisorio di Sumario) è fin troppo allettante; per la prima volta dall’Ange di Valery un poeta contemporaneo va a scuotere il rigido catalogo di classici editi da Tallone. La risposta del poeta non si fa attendere: in una seconda lettera Neruda scrive qualche frase tratta dall’introduzione di Sumario, scusandosi per la brevità della citazione e per la potenziale indecifrabilità della scrittura, per la quale però Bellini, abituato alla calligrafia del cileno, avrebbe sicuramente potuto dare il suo aiuto.

È proprio il traduttore che, in una lettera del 27 novembre, scrive a Neruda che i preparativi stanno andando per il meglio e che «Tallone está cada vez más entusiasmado y pienso salga algo bueno»[15]. Il buon auspicio viene confermato dal poeta stesso che dopo qualche giorno invia un telegramma ad Alberto, con il quale valuta il quartino di prova composto dall’editore-tipografo e spedito a Capri, dove Neruda si trova in vacanza. Il messaggio è incisivo ma chiaro: «bellas rimas gracias y gracias».[16] La composizione può proseguire.

In conclusione del 1962 Neruda scrive all’editore «cher ami» quello che è stato scelto da lui come titolo definitivo e completo: Sumario. Libro donde nace la lluvia.[17] Il rapporto tra i due è già a quest’altezza molto forte: Alberto in una lettera del 2 novembre, oltre a parlare dell’incontro con Bellini e della volontà di inviare a Neruda una prima tiratura del testo per avere la sua benedizione, non manca di ringraziare per i complimenti (che nelle lettere del poeta non mancano mai) e di salutare la consorte Matilde; lo stesso Neruda nella lettera sopra citata augura un buon anno a Bianca (o meglio Blanca, come talvolta gli sfugge) e ai piccoli Aldo e Enrico, chiamati affettuosamente Talloncinos.

Tra i due il più entusiasta per l’uscita di Sumario è sorprendentemente Neruda: scrive più volte che non vede l’ora di avere tra le mani il libro compiuto, la sua prima opera edita da Tallone.[18] Il suo desiderio si realizza il 30 aprile 1963, quando Sumario esce in lingua; la traduzione arriva nel settembre del medesimo anno.[19]

Questo testo si rivela singolarmente adatto nel ricoprire il ruolo di primo collegamento tra le due figure di Alberto Tallone e Pablo Neruda.

Neruda era un poeta popolare, socialista, che credeva nella poesia come educazione e riscatto delle classi umili. Le immagini di Sumario sono tratte dalla concretezza della vita quotidiana. Il ritratto di «mamadre» […] riportava Madino agli anni dell’infanzia vissuti con sua madre nel podere Jaquet. C’è una complicità segreta tra le “povere” e potenti immagini di Sumario e la purezza della stampa artigianale che ce le svela. Foglio dopo foglio. Da un inverno a un altro inverno. La composizione manuale a caratteri mobili richiede un lungo tempo, che affascina Neruda. Ora che la vita si è consumata e ha perduto le scorie impure, i sogni fallaci, l’infanzia assume un valore purificatorio. […] Questa infanzia, vissuta in una natura ostile, la terra delle «Cordigliere, di fiumi e di arcipelaghi che a volte non conoscono il loro nome»,[20] Neruda affidava a Tallone, «rettore della suprema chiarità»,[21] la cui arte era paragonata dal poeta al lavoro incessante delle api; come dal «favo selvatico», così dal suo torchio esce il miele profumato.[22]

Nelle lettere successive il poeta cileno si dimostra soddisfatto del lavoro di Alberto[23], dimostrando medesimo entusiasmo per la versione tradotta da Bellini – in una cartolina della splendida Laguna Azul (presso Magallanes, in Cile) definisce il Sumario italiano «bello come un glaciar» – e rassicura l’amico più volte: «j’écrirais des poèmes en prose pour Tallone».[24] Il livello di confidenza tra i due si fa sempre più alto, tanto che nel 1964, in occasione della pubblicazione a Buenos Aires di Memorial de Isla Negra e del sessantesimo compleanno dell’autore, Alberto riceve da Parigi un poncho, pegno di devozione e amicizia da parte di Neruda.[25]

Ciò nonostante passa un anno prima che riprenda la comunicazione tra Alberto e Pablo: è quest’ultimo a scrivere per primo, adducendo come motivi del suo silenzio «de long voyages, de travaux interminables et embêtants».[26] Non dimentica però quello che lui definisce «orgueil de me sentir ami de Tallone»[27] e gli propone di incontrarsi nel mese di giugno nella città di Londra, dove per l’appunto è in programma la mostra Special Editions of Dante’s Works published by Alberto Tallone presso l’Institute of Italian Culture.

La corrispondenza riprende, i toni sono ora ufficiali ora familiari: ad esempio Alberto (che ha preso a firmarsi Madino nelle lettere rivolte al poeta), in occasione di una celebrazione in onore di Dante presso la stamperia di Alpignano, non manca di sottolineare all’amico appassionato di treni che «dans le même temps j’inaugurerai le petit train complet»,[28] cioè la vaporiera della Val di Susa. Più volte le due coppie si incontrano a Roma, all’Hôtel Inghilterra o al Caffè Greco, e il tempo sembra volare: Bianca non può fare a meno di chiedere notizie di Pablo e di Matilde in un foglietto volante datato 2 ottobre 1966[29], sebbene qualche mese prima avessero inviato ai Neruda una cartolina dalla città di Madrid.[30] In risposta ecco che arriva un’altra cartolina, questa volta personalizzata: una bella foto di Matilde e Pablo, sulla quale con un pennarello verde (spesso usato dal poeta per scrivere) sono disegnati due cuori all’altezza del petto della coppia. Sotto la foto, una didascalia: «A los Tallones, nuestros corazones», l’ultima parola collegata ai due cuori da un tratto. I Tallone, a loro volta, rispondono con i loro «quattro cuori» in una delle ultime lettere: Alberto insiste in maniera sottile sui tanto attesi «poèmes en prose» e propone un incontro per la fine del mese.[31] Pablo Neruda e Alberto Tallone si vedono per l’ultima volta a Roma nel febbraio del 1967; l’editore muore a marzo.

La notizia raggiunge Isla Negra più di un anno dopo e colpisce nel profondo il poeta.

Bianca chérie, «ça» a été terrible pour moi, pour nous. Je ne savais relirea jus’quà bien que j’ai reçu.
Notre grand ami, notre grand homme, ce poète du livre!
Mais vous avez choisi la ligne du courage, qu’il aurait approuvé. C’est merveilleux que vous continuez son travail.
J’écrirai une dédicace pour lui et je vous fait arriver un autre chapitre que j’avais oublié.
Bianca, Matilde et moi nous vous embrassons avec tout notre cœur.[32]

La lettera, datata 7 maggio 1968, è carica di dolore e nostalgia, ma anche di profonda ammirazione per Bianca, che con coraggio ha deciso di portare avanti il mestiere del marito.

È il 23 maggio: Pablo inizia la sua lettera intestandola ai «queridísimi Tallone» e la imposta con toni ben diversi rispetto a quelli sommessi e trattenuti della missiva  precedente; in lui la gioia, l’entusiasmo, il ricordo del caro amico compianto e la volontà di aiutare la lodevole Bianca hanno avuto la meglio sul rammarico e sul lutto. Finalmente i «poèmes en prose» sono pronti: la vecchia promessa è stata mantenuta.

 Queridísimi Tallone:
Le silence est fini! Je vous aime et vous admire!
Bonjour, Bianca Leonardina!
Bonjour, imprimerie!
Bonjour, locomotive!
J’avais beaucoup de honte parce que je n’avais pas ancore fait ce livre de poèmes en prose que Tallone, me faisant grand honneur, m’avais demandé. Maintenant le voici: il est très court mais il n’est pas mal. Je me permets de conseiller à mon plus admiré typographe-éditeur que les caractères soient très, très grands. Comme ça, le livre ne sera pas trop petit.
Edition de peu d’exemplaires? Enfin, vous fairez ce que vous voudrez. Le livre est votre.
Je vous salue avec grande amitié et émotion. L’année prochaine nous voulons boire avec vous à votre trattoria.
Adieu, au revoir, à tantôt.
Abrazos de Matilde y Pablo[33]

L’opera in questione, La Copa de Sangre, si conclude, per volere stesso del poeta, con un toccante saluto all’amico Alberto, «maestro moderno della tipografia».[34] I «pochi esemplari» prospettati da Neruda in realtà eccedono di gran lunga quella che è la normale tiratura dei Tallone: del libro, edito nel 1969, vengono realizzate oltre cinquecento copie, a dimostrazione di quanto Bianca abbia preso in considerazione l’affermazione dell’autore, «le livre est votre».

La giovane vedova viene invitata alla presentazione di La Copa de Sangre a Santiago del Cile, il 12 settembre 1970. Il viaggio è pagato da Neruda in persona, ma all’ultimo Bianca è costretta a rinunciare: «non potevo muovermi dovendo gestire da sola la stamperia e i figli erano ancora piccoli»,[35] scrive in una lettera del 2003. Va così sprecata l’unica occasione per la donna – e, in qualche modo, anche per il compianto Alberto – di visitare quella Isla Negra tanto amata dal poeta.[36]

Gli anni passano: Bianca si occupa della stamperia di Alpignano con impegno, osservando da lontano quello che accade oltreoceano. Così nel 1971 viene a sapere che il premio Nobel tanto ambito, dopo un “volo” piuttosto lungo (per dirla con le parole usate dal poeta nel 1963), è finalmente atterrato in grembo a Pablo Neruda.[37] È datata 19 marzo 1972 la lettera in cui il cileno fa dono a Bianca del discorso pronunciato a Stoccolma in occasione della cerimonia;[38] ancora una volta Pablo vuole che l’arte dei Tallone consacri alla storia una sua opera, ancora una volta il profondo sentimento di amicizia e affetto nei confronti di Alberto e Bianca lo porta ad aiutare come può la stamperia di Alpignano e chi la vive ogni giorno.[39]

Bianca Tallone e Pablo Neruda si incontrano per l’ultima volta qualche tempo dopo, a Milano. Il poeta da qualche tempo è malato, ma non riesce a rinunciare all’incarico di ambasciatore del Cile a Parigi, né tantomeno alla mostra sui pittori della Resistenza spagnola organizzata nel capoluogo lombardo, a cui assiste con interesse.

Bianca lo vede all’Hôtel Duomo, mentre mangia scampi fritti, la sua passione.[40]

Appena lui mi ha visto, mi è corso incontro, mi ha abbracciato e mi ha detto: «Ho un regalo per te», e mi ha dato una scatolina di legno e argento. «Questi gemelli li ho fatti fare apposta per te da un artigiano che lavora l’argento, in Cile». Erano due gemelli a forma di locomotiva. Uguale uguale a quella del nostro giardino. Guarda caso quella sera avevo proprio la camicetta giusta, con le asole. Allora lui si è avvicinato e ha infilato i due gemelli ai polsini bianchi della mia camicetta. Quella è stata l’unica volta in cui li ho indossati.[41]

Il 23 settembre 1973 Pablo Neruda si spegne guardando il mare della sua Isla Negra. È Matilde, quasi un mese dopo, a dare il triste annuncio a Bianca, con una telefonata proveniente dal Venezuela.[42] Tra le due donne, entrambe giovani vedove, la corrispondenza continuerà, in nome dell’amicizia profonda che le lega e che animava i due uomini da loro molto amati.

Pablo ha però in serbo per i Tallone un’ultima sorpresa “postuma”: è l’inizio di novembre quando Matilde scrive a Bianca per ringraziarla del conforto dopo il lutto.[43] La informa che il poeta ha lasciato sei libri inediti; uno di questi è stato riservato appositamente per Bianca, qualora avesse interesse nel pubblicarlo.

La vicenda di questo caso, che unisce per l’ultima volta il nome di Neruda a quello dei Tallone, è degna di nota: l’inedito arriva ad Alpignano il 26 novembre, la lettera che lo accompagna lo presenta con lo stravagante titolo di 2000.[44] La stampa tanto attesa cade improvvisamente nell’oblio, il manoscritto scompare. Solo trent’anni dopo, aprendo un cassetto, il ritrovamento. 2000 viene composto, assieme alla lettera di Matilde e a un saggio dello storico traduttore Giuseppe Bellini, nel 2004, in occasione del centenario della nascita di Neruda.[45]

Anche a distanza di tempo, Alberto Tallone e Pablo Neruda rimangono uniti indissolubilmente; a rappresentare questo legame profondo e straordinario, la locomotora, simbolo del loro destino condiviso.

Valentina Giusti

 

[1] Cfr. Maurizio Pallante, I Tallone, p. 95.

[2] È ad oggi la più antica macchina italiana conservata.

[3] Armando Torno, La tipografia dei Tallone, un carattere per il futuro, in “Corriere della Sera”, 10 ottobre 2010.

[4] Pablo Neruda, pseudonimo legalmente riconosciuto di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, nato nel 1904 a Parral (Cile), è tra le più importanti personalità della letteratura latino-americana contemporanea. Ricopre anche diverse cariche politiche: console in Birmania, a Barcellona, a Batavia, a Singapore; riceve l’incarico di console generale a Città del Messico, dove ha la possibilità di rappresentare la propria patria. Il 4 marzo 1945 ottiene la sua prima nomina ufficiale come senatore indipendente in Cile e pochi mesi dopo prende la tessera del Partito Comunista. A causa però dei rapporti tesi tra Neruda e il candidato ufficiale del Partito Radicale per le elezioni presidenziali, Gabriel González Videla, per il quale in un primo momento dirige la campagna elettorale, il poeta culmina in un drammatico discorso (il celebre Yo acuso del 1948) dove vengono elencati i nomi dei minatori tenuti prigionieri nella regione di Bío-Bío, a Lota, per reprimere uno sciopero. Videla emana un ordine d’arresto contro Neruda, per sottrarsi al quale il poeta è costretto all’esilio. Può ritornare in patria solo con l’avvento al potere dell’amico Salvador Allende. Definito da Gabriel García Márquez «il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua» e considerato da Harold Bloom tra gli scrittori più rappresentativi del canone occidentale, è insignito nel 1971 del Premio Nobel per la letteratura – si ricorda anche il premio Lenin per la Pace (1953) e una laurea honoris causa presso Oxford (1965) –. Pablo Neruda muore a Santiago del Cile poco dopo il golpe del generale Augusto Pinochet – a causa del quale stava per andare nuovamente in esilio – nel 1973 (il mistero aleggia attorno alla sua morte: anche se ufficialmente archiviata come causata da un tumore, non si può ancora escludere l’ipotesi di omicidio).

[5] Matilde Urrutia (1912-1985) è una cantante cilena. Incontra per la prima volta Pablo Neruda a Santiago nel 1946, con il quale inizia una relazione clandestina; il poeta, una volta rientrato in Cile, lascia la seconda moglie Delia del Carril per Matilde, con la quale resta sposato dal 1966 fino alla morte. È lei a curare la pubblicazione postuma del libro di memorie di Neruda, Confieso que he vivido (Confesso che ho vissuto). Queste e altre attività l’hanno portata in conflitto con il governo di Pinochet, che ha più volte cercato di sopprimere la memoria di Neruda.

[6] «Quindici anni fa il poeta cileno vide per la prima volta un libro stampato dal tipografo-editore piemontese: erano le poesie di Baudelaire, senza note né commento, presentate in una veste che giudicò perfetta. Da allora nutrì il desiderio di conoscere Alberto Tallone». Da Pablo Neruda parla dei poeti italiani, in “La Stampa”, 8 giugno 1962.

[7] Questa ode vede la stampa nel 1983, tradotta in Ode alla Tipografia, quando il poeta e il suo stampatore sono già morti: la composizione è a cura dei figli di Alberto, Aldo e Enrico. Così scrive Pablo Neruda in questo poema: «Lettere, / continuate a cadere / come pioggia necessaria / sulla mia strada. / Lettere di tutto / ciò che vive / e che muore, / lettere di luce, di luna, / di silenzio, / d’acqua, / vi amo, / e in voi / raccolgo / non solo il pensiero, / e il combattimento, / ma i vostri vestiti, / i sensi / e i suoni: / A / di gloriosa avena, / T / di trigo [frumento] e di torre / e M / come il tuo nome / di mela». Oltre alle iniziali del futuro amico Alberto è presente la lettera M, riferita all’amata Matilde. Cfr. Pablo Neruda, Oda a la Tipografía, Tallone Editore, Alpignano 1983: Id., Ode alla Tipografia, a cura di Giuseppe Bellini, ivi, 2010; «Ode alla Tipografia»: Neruda e Tallone rivivono con Colophon, in “Corriere delle Alpi”, 4 gennaio 2011.

[8] Giorgio Calcagno, La locomotiva di Neruda, in «La Stampa», Torino, 23 ottobre 1997.

[9] Pablo Neruda, Addio a Tallone, in La Coppa di Sangue, traduzione italiana di Giuseppe Bellini, Tallone Editore, Alpignano 1997, p. 83.

[10] «A pranzo ci ha raccontato che il suo babbo di mestiere faceva il conducente di locomotive e che spesso lui, da piccolo, lo aveva accompagnato in uno dei suoi viaggi attraverso il Cile. Era pieno di gioia perché la nostra locomotiva gli ricordava tanto quella del padre», così Bianca ricorda il primo incontro con Neruda in un’intervista rilasciata a Sara Beltrame e contenuta in Ricardo Neftalí Reyes Basoalto, supplemento a “Colors”, 62 (2004) realizzato da Dipartimento Scrittura Creativa di Fabrica.

[11] «Querido maestro, amico y hermano, je vous envoie seulement deux mots de joie à cause du grand bonheur de vous avoir connu, votre compañera Blanca, votre maison, votre imprimerie légendaire, le vin (j’ai oublié une bouteille), la vieille maison au salon rougeorangegranate, le bistrot magnifique et last but not last la locomotive dont la fumée cordiale est encore dans nos cœurs»; Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Arezzo, 14 giugno 1962, lettera manoscritta, Archivio Tallone. Tutte le lettere di Neruda e Matilde sono state dattilografate in «Cher ami…». Lettere di Pablo Neruda a Alberto e Bianca Tallone, a cura di Antonio Motta, in “Nuova Antologia”, 2229 (2004), pp. 178-189.

[12] Giuseppe Bellini, nato nel 1923, ha insegnato presso diverse università italiane: tra le cattedre ricoperte si ricorda quella di Letteratura Spagnola e di Letteratura ispanoamericana presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università Bocconi di Milano e di Lingua e Letteratura spagnola presso l’Università Cattolica di Brescia e di Milano. Ha tenuto conferenze in università europee e americane e diretto missioni culturali per incarico del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È stato premiato con molti riconoscimenti ufficiali e gli sono state conferite ben quattro lauree honoris causa (presso le università di Mérida, Salamanca, Perpignan e Napoli). Ad oggi ha pubblicato fino ad oggi 58 volumi di critica letteraria nell’ambito ispanico e americano, più di 500 tra saggi e recensioni, circa 100 volumi di traduzioni e edizioni di testi (specialmente di letteratura spagnola medievale, teatro spagnolo e americano e autori contemporanei).

[13] Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Arezzo, 14 giugno 1962, lettera manoscritta, Archivio Tallone.

[14] Ibidem.

[15] Giuseppe Bellini a Pablo Neruda, Roma, 27 giugno 1962, copia dattiloscritta, Archivio di Santiago.

[16] Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Capri, 29 giugno 1962, telegramma, Archivio Tallone.

[17] «Cher ami: voici le titre complet: Sumario Libro primero donde nace la lluvia on peut supprimer Primero et si vous preferez aussi Libro restant seulement donde nace la lluvia». Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Isla Negra, dicembre 1962, lettera manoscritta, Archivio Tallone.

[18] «Je suis heureux de voir approcher le moment où le livre sera né». Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Isla Negra, 20 gennaio 1963, lettera manoscritta, Archivio Tallone.

[19] L’edizione originale in spagnolo fu stampata in 300 esemplari: 15 su Japan Kifì nacré, 50 su vergata Van Gelder Zonen e 235 su Magnani di Pescia.

[20] Pablo Neruda, prefazione a Sommario. Libro dove nasce la pioggia, a cura di Giuseppe Bellini, Tallone Editore, Alpignano 1963, p. 11.

[21] Ibidem.

[22] «Cher ami…». Lettere…, pp. 5-6.

[23] In una lettera gli chiede addirittura dove acquistare l’edizione talloniana di Sumario a Parigi (scrive che alcuni suoi amici «l’ont cherché sans succès»). Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Isla Negra, 28 agosto 1963, lettera manoscritta, Archivio Tallone.

[24] Neruda in questa lettera si dimostra un poco abbattuto: «Au revoir, le Nobel a volé sur moi et s’est perdu dans le ciel grec», così scrive; il premio Nobel del 1963 infatti viene assegnato al poeta, saggista e diplomatico greco Giorgos Seferis, “volando” al di sopra del poeta cileno. Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Isla Negra, 25 ottobre 1963, lettera manoscritta, Archivio Tallone.

[25] «Cher ami, cet poncho est pour vous. Je l’apporte de notre Amérique avec toute mon amitié et admiration». Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Parigi, 7 aprile 1964, biglietto manoscritto, Archivio Tallone.

[26] Pablo Neruda ad Alberto Tallone, Isla Negra, 19 febbraio 1965, lettera manoscritta, Archivio Tallone.

[27] Ibidem.

[28] Alberto e Bianca Tallone a Pablo Neruda, Alpignano, 7 settembre 1965, copia dattiloscritta, Archivio di Santiago.

[29] Nel medesimo biglietto compare un altro messaggio: «Quando torna nella mia officina?», firmato Madino T..

[30] La cartolina, destinata al “Poeta” Pablo Neruda, reca: «Il tipografo di Neruda che aspetta un nuovo testo: i Poemi in prosa. Con affetto, l’amico Tallone e la sua Bianca». La promessa fatta dal poeta tre anni prima è fissa nella mente dell’editore, anche mentre è impegnato nella mostra madrilena sulle edizioni dantesche. Alberto e Bianca Tallone a Pablo Neruda, Madrid, 25 maggio 1966, cartolina, Archivio di Santiago.

[31] «Hier soir nous étion dans une assemblée très élevée et Bianca a lu plusieurs poèmes de Sumario. […] J’ai annoncé que j’attends de vous les “poems en prose”. Quand on pourrait se revoir? Vers la fin du mois je me rends à Paris». Alberto (Madino) e Bianca Tallone a Pablo e Matilde Neruda, Alpignano, 7 gennaio 1967, copia dattiloscritta, Archivio di Santiago.

[32] Pablo Neruda a Bianca Tallone, Isla Negra, 7 maggio 1968, lettera manoscritta, Archivio Tallone.

[33] Pablo e Matilde Neruda ad Alberto e Bianca Tallone, Isla Negra, 23 maggio 1968, copia dattiloscritta, Archivio Tallone.

[34] Pablo Neruda, Addio a Tallone, in La Coppa di Sangue, p. 80. Per l’opera e le edizioni talloniane si veda il capitolo II.2.

[35] Bianca Tallone ad Antonio Motta, 19 novembre 2003, lettera.

[36] «[Pablo Neruda] Mi raccontava sempre di Isla Negra. Ci sedevamo al tavolo, qui, per mangiare – per lui era sempre una festa mangiare insieme e bere il vino rosso – e iniziava a raccontare di Isla Negra. “Devi venire a vedere Isla Negra. Perché non è come tutti i posti di mare che si trovano nel mondo. Lei ha dei fiori, Bianca, dei fiori che arrivano magari fino al soffitto!”. Mi aveva spedito il biglietto per Isla Negra, un giorno, ma io avevo i due bambini piccoli, mio marito era morto, ero sola e così non sono potuta partire. Non ci sono mai andata»; Bianca Tallone nell’intervista di Sara Beltrame in Ricardo Neftalí Reyes Basoalto.

[37] Questa la motivazione dell’assegnazione del premio: «per una poesia che con l’azione di una forza elementare porta vivo il destino ed i sogni del continente [americano]». Cfr. <http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1971> (ultima consultazione 8 gennaio 2016).

[38] «Chère et belle amie Bianca, je vous envoie le Premier Discours, très court. Je pense che peut être on pourrait le faire en cursive (bastardilla) très grande, même 22, comme dans les éditions Foppens, flamandes du XVII ou certaines Bodoni. C’est à vous, charmante autorité, de décider». Pablo Neruda a Bianca Tallone, Normandia, 19 marzo 1972, lettera manoscritta, Archivio Tallone. I caratteri olandesi richiesti da Neruda in questa lettera non vengono adoperati (la stamperia infatti non ne possedeva di tale tipo), si opta invece per i “talloniani” Garamond. Dell’edizione, in lingua spagnola, vengono impressi 270 esemplari su carta Sant’Ilario di Pescia, 35 su carta Japan Hosho, 25 su carta Torinoko Kozu, 10 su carta Torinoko Elfenbeine. La prima copia del Discorso di Stoccolma viene inviata al presidente del Cile Salvador Allende, amico fraterno di Neruda.

[39] «Siamo diventati subito amici, dal primo giorno. Quando mio marito è morto lui mi ha detto: “Bianca, tu devi continuare!”, così mi ha detto e mi ha dato da pubblicare il discorso di Stoccolma, quello del premio Nobel. Allora mi son fatta coraggio e ho iniziato a lavorarci e, mentre stampavo, insegnavo ai miei due figli questo mestiere e loro poi lo hanno insegnato ai loro figli. Era un uomo straordinario!»; Bianca Tallone nell’intervista di Sara Beltrame in Ricardo Neftalí Reyes Basoalto.

[40] Cfr. Bianca Tallone ad Antonio Motta, 1 dicembre 2003, lettera.

[41] Bianca Tallone nell’intervista di Sara Beltrame in Ricardo Neftalí Reyes Basoalto.

[42] «Si era rifugiata da amici fedeli, dove si sentiva più tranquilla e molto più sicura»; Bianca Tallone ad Antonio Motta, 23 novembre 2003, lettera.

[43] «Queridísima Bianca, muchas gracias por tus cariñosas palabras, que me han servido de consuelo en estos duros momentos de immenso dolor». Matilde Neruda (Urratia) a Bianca Tallone, Isla Negra, 1 novembre 1973, copia dattiloscritta, Archivio Tallone.

[44] «Bianca queridísima, aqui te mando este libro de Pablo que lo tituló 2000». Matilde Neruda (Urratia) a Bianca Tallone, Caracas, 26 novembre 1973, copia dattiloscritta, Archivio Tallone.

[45] Cfr. Pablo Neruda, 2000, Tallone Editore, Alpignano 2004.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Promotori e pionieri di un’editoria “sin fronteras”: l’avventura di Formentor https://editoria.letteratura.it/promotori-e-pionieri-di-uneditoria-sin-fronteras-lavventura-di-formentor/ https://editoria.letteratura.it/promotori-e-pionieri-di-uneditoria-sin-fronteras-lavventura-di-formentor/#respond Sun, 02 Oct 2022 17:35:22 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8803 La presentazione di uno studio sul premio Formentor che ricostruisce gli sviluppi che il famoso riconoscimento letterario ha avuto nel corso degli anni. Obiettivo primario di questa tesi è stato definire e storicizzare i premi letterari di Formentor, riassumendo le loro principali funzioni e le modifiche susseguitesi nel corso degli anni, tanto nell’impostazione degli eventi, […]

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La presentazione di uno studio sul premio Formentor che ricostruisce gli sviluppi che il famoso riconoscimento letterario ha avuto nel corso degli anni.

Obiettivo primario di questa tesi è stato definire e storicizzare i premi letterari di Formentor, riassumendo le loro principali funzioni e le modifiche susseguitesi nel corso degli anni, tanto nell’impostazione degli eventi, quanto nei contenuti. Il Premio Formentor e il Premio Internacional de los Editores sono riconoscimenti letterari introdotti nel 1961 da Carlos Barral – direttore della casa editrice catalana Seix Barral –, con la fondamentale collaborazione dell’editore italiano Giulio Einaudi e l’appoggio di una decina di altre case editrici internazionali, nonché dei proprietari dell’Hotel Formentor di Maiorca, convertitosi in quell’epoca in importante centro letterario. Gli eventi tenuti sull’isola sono quindi determinati da un clima internazionale unico per quegli anni, soprattutto in riferimento alla situazione politica e culturale della Spagna del tempo. In un contesto di controllo e censura asfissianti da parte del regime franchista, che pretende di filtrare tutte le pubblicazioni spagnole e impedire la circolazione di quelle straniere, gli incontri di Formentor riescono a creare un ponte di collegamento tra il Paese iberico e il resto del mondo, permettendo un confronto culturale e un dibattito letterario senza eguali. Ma cosa davvero può spingere tredici editori di tutto il mondo – e i loro inseparabili autori – a ritrovarsi ogni anno per parlare di letteratura, nonostante i rischi politici e il dispendio economico che questo comporta?

Cercando di dare una risposta alla questione, il lavoro prende il via da un’analisi delle origini degli incontri di Formentor, seguendone gli sviluppi degli anni successivi. La vera sfida nel far questo, si è rivelata la ricerca del materiale bibliografico da utilizzare. Il tema risulta, infatti, poco trattato in lingua italiana, sia dai libri di letteratura sia da quelli dedicati agli editori e alle relazioni con la Spagna del periodo franchista. Il lavoro si è svolto, perciò, principalmente su testi e fonti d’archivio in lingua spagnola, come l’Archivo General de la Administración (AGA) di Alcalá de Henares e i fondi dedicati a Carlos Barral e Josep Maria Castellet contenuti presso la Biblioteca Nacional de Catalunya a Barcellona. Le biblioteche frequentate più assiduamente sono state la Biblioteca dell’Universidad de Alcalá de Henares e la Biblioteca Nacional de España, nelle due sedi di Madrid e Alcalá, dove è stato possibile consultare diversi libri, utili soprattutto per calarsi in maniera precisa nel contesto storico del periodo interessato. I testi ritenuti più utili, in ogni caso, restano quelli contenenti le memorie di Carlos Barral, vera essenza di pensieri, fatti storici e considerazioni del grande editore, fondamentali per capire la mentalità e la personalità di chi stava dietro ai colloqui tenuti sull’isola. Partendo dal fatto che la carenza di testi dedicati all’argomento si riscontra in lingua italiana, è stata presa la decisione di tradurre sempre tutto ciò che veniva riportato nell’elaborato, cercando di mantenere il più possibile il significato originale. Dopo una prima parte d’introduzione al difficile quadro storico in cui nascono e si sviluppano i premi di Formentor, sono riassunte, in maniera sintetica ma significativa, le vicende biografiche del poeta e editore Carlos Barral, figura di spicco dell’editoria spagnola del secolo XX, e gli stretti legami d’amicizia da lui creati con gli intellettuali barcellonesi del suo tempo, che avrebbero contribuito attivamente agli ambiziosi progetti letterari di Seix Barral. Per quanto riguarda i rapporti della casa editrice catalana con gli editori e autori internazionali, tre sono i punti sui quali si è voluto insistere: i contatti con l’Italia, basati soprattutto sull’amicizia con Giulio Einaudi e i suoi collaboratori, tra i quali spiccano Italo Calvino ed Elio Vittorini; le relazioni con il francese Gallimard e i suoi agenti, fondamentali per avvicinarsi a molti altri editori internazionali; l’importanza degli autori ispanoamericani, conosciuti in Europa proprio grazie a Seix Barral e sostenuti, in seguito, da molte altre case editrici.

Prima d’intraprendere il vero e proprio discorso sull’avventura di Formentor, è stato inserito un capitolo sulla dibattuta questione dei premi letterari in Spagna, numerosi già nel secolo scorso, ma tra loro differenti per stile e fini ricercati.

Segue un’esposizione dettagliata della storia del Prix International des Editeurs e del Prix Formentor. Sebbene l’elaborato si concentri prevalentemente sulla prima fase storica di tali riconoscimenti, nella seconda sezione si tratta della recente riapertura degli incontri di Formentor, avvenuta nel 2008, insieme alla ripresa dell’omonimo premio, reintrodotto nel 2011 e assegnato ancora oggi. Per chiudere la prima parte, viene narrato un caso di censura di un testo vincitore del premio, utile per evidenziare il genere di controlli ai quali doveva essere sottoposto ogni libro in uscita nella Spagna del periodo franchista. Quel che si è cercato di verificare con questa tesi è il grande risultato ottenuto in quegli anni da uomini che vedevano nella letteratura una delle poche armi per combattere le situazioni di difficoltà e censura del complesso ventesimo secolo, e il migliore strumento per promuovere la libertà d’espressione e la collaborazione tra i popoli come possibile via di scampo e dialogo.

Sofia Di Capita


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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“Primi scritti” e “Appunti sparsi e persi” di Amelia Rosselli https://editoria.letteratura.it/primi-scritti-e-appunti-sparsi-e-persi-di-amelia-rosselli/ https://editoria.letteratura.it/primi-scritti-e-appunti-sparsi-e-persi-di-amelia-rosselli/#respond Sun, 02 Oct 2022 17:16:34 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8798 Una ricerca d’archivio per ricostruire l’iter creativo di due opere miscellanee di Amelia Rosselli, figura poliedrica del Novecento letterario. La scelta di porre al centro l’opera omnia di Amelia Rosselli, partendo dalle opere d’invenzione poetica e proseguendo per le opere miscellanee, nacque dalla lettura di Sleep, cioè l’ultima raccolta poetica della poetessa. La lettura della […]

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Una ricerca d’archivio per ricostruire l’iter creativo di due opere miscellanee di Amelia Rosselli, figura poliedrica del Novecento letterario.

La scelta di porre al centro l’opera omnia di Amelia Rosselli, partendo dalle opere d’invenzione poetica e proseguendo per le opere miscellanee, nacque dalla lettura di Sleep, cioè l’ultima raccolta poetica della poetessa. La lettura della sua poesia inglese portò a due quesiti: il primo riguardava la cronologia dell’opera e perché Sleep abbia veduto la luce, in forma completa, solo nel 1992; il secondo, invece, riguardava la scelta di rivolgersi a una figura esterna, Emmanuela Tandello, per la traduzione – quando Rosselli era famosa anche per le sue traduzioni di poesia inglese, ed era capace di fare lo stesso anche con le proprie.

A quel punto si è deciso di approfondire la genesi dell’opera rosselliana, e solo allora, leggendo le lettere private e le fonti archivistiche, si è vista l’abitudine della poetessa a pubblicare dopo lunghe revisioni, e di richiedere spesso l’aiuto di redattori e studiosi. In questo modo è nato lo scopo di approfondire tutta la sua produzione, andando incontro a problemi di carattere filologico e linguistico che spesso restano irrisolti, magari per il materiale di revisione perduto. Questa ricerca, infatti, non si pone con l’obiettivo di sciogliere totalmente le intricate matasse che riguardano la produzione di Rosselli, non ne ha l’ardire. Tenta, piuttosto, di guardare con ampio spettro questi fattori, sottolineando come sia imprescindibile analizzare la lingua, la genesi delle opere, la loro diffusione e l’esistenza stessa di Rosselli in modo corale.

Come già Emmanuela Tandello, Stefano Giovannuzzi e Andrea Cortellessa hanno dimostrato nei loro molteplici studi su Amelia Rosselli, culminati nell’edizione dei “Meridiani” Mondadori e in altri afferenti, ci sono stati diversi momenti in cui la ricerca filologica si è fatta più complessa. È cosa certa che le fasi di riorganizzazione di Documento e Appunti Sparsi e persi saranno quelle più complesse da studiare, perché molte carte di Documento sono andate perdute e perché la selezione che ha composto le due opere non sia particolarmente chiara. Soprattutto, andare a fondo nello studio delle bozze di stampa, e nelle correzioni inviate dall’autrice alle case editrici, è stato fondamentale per capire alcuni meccanismi linguistici e di formalizzazione nella stampa. Questi sono tutti aspetti necessari per comprendere l’evoluzione del testo dalla macchina per scrivere di Rosselli alla carta stampata, ma anche il corrispettivo tra la sua idea di poesia e la prassi editoriale di stampa. Questo verrà studiato nei particolari rispetto a case editrici di rilevanza come Garzanti rispetto a Il Saggiatore, Studio Editoriale e San Marco dei Giustiniani.

Per cercare di rilevare informazioni tecniche da un punto di vista linguistico e filologico si è pensato di strutturare questa ricerca scandendo quattro capitoli con una ricca appendice iconografica, necessaria per vedere come Rosselli operava sul testo per mezzo di annotazioni manoscritte di ogni tipo: linguistiche, letterarie e per l’impaginazione. Di seguito si riproduce una parte del terzo capitolo della tesi, fondato sulle opere miscellanee.

«Je suis un qui a seulement rêvé». Primi scritti (1980)

La raccolta di Primi scritti, come già si vede dal frontespizio manoscritto dell’autrice,[1] viene dichiarata composta tra gli anni 1952-1963: si tratta di una miscellanea in cui ci sono per lo più testi poetici come, Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro), Adolescence, October Elizabethans, Diario in tre lingue, Palermo ’63, e poi una selezione di prose, come My Clothes to the Wind, Sanatorio 54, A birth, Le chinos à Rome, Prime prose italiane.

In realtà, proprio per quanto già affrontato in particolar modo per le raccolte d’invenzione poetica, si è già ampiamente dimostrato come spesso le date indicate da Amelia Rosselli nelle sue opere siano sommarie e arbitrarie: nel caso di Primi scritti, per esempio, in una lettera inviata a John Rosselli il 18 luglio 1951, Rosselli invia una prima versione dello scritto ancora incompleto: «have begun writing a piece in English: it is enclosed. You must give me some sort of parere upon it. Might come to 20 pages circa, a stop right where it is, in discouragement».[2] Prima di vedere la luce, però, Primi scritti dovrà attendere diversi anni: posto che la sua data di composizione reale vada considerata tra il ‘50-‘51 – viste le lettere a John in merito alla costruzione dell’opera –, verrà pubblicato per Guanda nel 1980, dopo aver tentato di progettare una stampa da Einaudi per mezzo di Guido Davico Bonino[3] nel 1967.

La prima traccia di pubblicazione dell’opera, o meglio, della prima sezione che la compone (My clothes to the wind) la si ritrova qualche mese dopo la prima lettera scritta a John a riguardo, dove Rosselli scrive:

«The Botteghe will publish my writing, I have been assured of it, but I doubt that i twill come out in this number. If not, then jin six months’ time. May have therefore the possibility of adding a good many pages to it, which I am taking notes for».[4]

Il titolo di questa prima sezione, tuttavia, comparirà in un’altra lettera a John datata al 25 gennaio 1952 – sarà per questo che Rosselli indica come data di creazione di My clothes to the wind il 1952? – insieme a Forqueless o Bridled.

Per quanto concerne il tema trattato nelle varie sezioni dell’opera, come già spiegato in precedenza, Primi scritti lo si può considerare una miscellanea. In questo senso, tutte le sezioni presenti trattano di un tema a sé, e vengono riunite con l’idea di guardare a quei testi come incapaci di trovare una collocazione da sé in volume unico, e da qui l’idea di creare una raccolta. In quest’ottica, si potrebbe considerare anche il tentativo di Rosselli di tornare alla scrittura e alle carte, visto il modo che lei aveva di rivederle, correggerle e suggerire le impostazioni tipografiche.

Guardando al contenuto, le poesie dedicate a Rocco Scotellaro, ad esempio, sono legate ai temi condivisi con il poeta: si parla di campagna e di ambiente rurale, con gli ambienti un po’ rarefatti e che, presto, diventeranno comuni a entrambi.[5]

Sicuramente la sezione Cantilena è una delle più importanti per via del legame che intercorreva tra Amelia Rosselli e il poeta lucano, che verrà a mancare nel 1953. «Quando capii il suo nome non so se mi si rafforzò il pensiero di essere amico e innamorarmi di lei o piuttosto di venerarla come la figlia di un grande martire»:[6] questa citazione di Scotellaro, riportata dal convegno in cui i due si conobbero, non lascia spazio a dubbi. Il legame che Rosselli e quest’ultimo intrecciarono è ancora oggi fumoso e di difficile connotazione, ma sicuramente basato su un profondo affetto e intesa, entrambi di carattere sia amicale che professionale. L’influenza di Scotellaro nella poesia di Rosselli la si potrà ritrovare non solo nelle descrizioni di ambienti rurali e anche nell’impegno politico espresso in poesia, che accomunava sia l’amico che il padre della poetessa, ma anche nei testi da lei prodotti che riguardavano il lutto, la morte e la perdizione.[7]

Sicuramente, la figura del poeta lucano influì sulle opere italiane in prosa: non per Prime prose italiane, che come già scritto, è appena precedente alla morte del poeta, ma per quelle successive, come Diario Ottuso e la Nota.

Anche Sanatorio 54, che come My clothes to the wind, pare abbia più una struttura confessionale e legata alla morte. La natura di queste sezioni vede la scrittura di brani che si intrecciano con la biografia complessa dell’autrice, e soprattutto legato alla defunta madre di Rosselli, Marion Cave. Soprattutto, Sanatorio 54 è importante non solo per la struttura tecnica (appunto, questa forma confessionale prosastica), ma anche perché, con Adolescence, Le chinois à Rome e una parte di Diario in tre lingue, emergono le prime tracce in francese lasciate da Rosselli in un’opera scritta e autonoma, al di là di quelle linguistiche che disseminava nelle sue opere in inglese e in italiano. Il legame con il francese ha una natura diversa rispetto alla lingua inglese: se la seconda è stata quella legata alla sua crescita e maturità, nonché ai suoi studi, il francese era la lingua natia di sua madre. Non sarà un caso che la scelta, in quegli anni, ricada sul francese. La composizione di questi scritti è infatti attorno al 1953-1954: se le sezioni in italiano sono legate a Rocco Scotellaro, quelle in francese alla madre Marion Cave, scomparsa nel 1949.

Bozze e varianti

Come si è già visto, Rosselli ha sempre avuto una ben precisa autonomia nel disporre indicazioni di stampa. Per questo, tra le prime questioni che emergono dai dattiloscritti di Primi scritti – composti sempre con la sua macchina per scrivere IBM e inchiostro nero – è proprio in merito all’organigramma dell’opera stessa, nonché agli spazi da lei indicati tra i paragrafi e, in generale, alle correzioni da lei suggerite.

Prima di tutto, su ogni prima carta delle varie sezioni è presente una lettera alfabetica, chiaramente utilizzata per capire come disporre ciò che compone Primi scritti. Questo denota, considerando la presenza di fogli dattiloscritti pressoché puliti – se non per qualche piccola correzione manoscritta – che il fascicolo analizzato debba essere una bozza pre-stampa, con il tentativo di Rosselli di costruire l’opera nella sua interezza, sia nella sua disposizione che nel dare indicazioni di stampa.

Questo è un dettaglio importante, se si considera che, in virtù di questo, le correzioni da rivedere sono poche e sparute: lo si può vedere già con l’analisi di My clothes to the wind. Nella sua pseudo-confessione, infatti, ci sono diverse correzioni linguistiche, per esempio: souffled (poi corretto in scoffled) discomection (al posto di disconnection, poi corretto a matita); that (corretto in when); atmosphère corretto in atmosphere; lurics in lyrics; miracoulously in miraculously, e poi qualche cancellatura o difetto di composizione della macchina per scrivere, che ha determinato delle parole in cui le lettere sono più vicine di quanto dovrebbero essere.

Per quanto concerne, invece, Cantilene. Poesie per Rocco Scotellaro, a parte il testo molto arioso –tipico della disposizione delle poesie di Rosselli – c’è un tentativo di epurazione dalla raccolta a p. 6, prima esclusa e poi riproposta in coda al dattiloscritto. Nella bozza di stampa di Guanda,[8] però, c’è una nota manoscritta dall’autrice, che sottolinea l’importanza sia della numerazione, per capire la progressione delle poesie – e l’inserimento della poesia n. 6 nell’organizzazione generale – che la separazione tra i brevi componimenti per mezzo di un asterisco.[9] Poco prima della stampa viene, infatti, inclusa la poesia n. 6 che, nella copia del dattiloscritto,[10] era stata indicata come esclusa. Si può immaginare che il fascicolo, che consta di tutta l’opera e delle sue sezioni, sia una copia dell’originale in cui Rosselli ha posto le sue correzioni. Nel caso specifico di My clothes to the wind è stata aggiunta la carta della poesia n. 6, a seguito della scelta tematica.[11] Probabilmente la copia è stata composta poco prima di ricevere la bozza di stampa di Guanda: il motivo di questa teoria trova una ragione nelle carte di Sanatorio 1954.

L’analisi del dattiloscritto appena menzionato, infatti, risulta appena più complessa in virtù della carta scura scelta da Rosselli per il dattiloscritto in francese, scure e consunte: da ciò che risulta dalla lettura delle carte, le correzioni apposte dall’autrice sono per lo più accenti mancati – che in francese sono fondamentali nella pronuncia – e qualche pronome o negazione sfuggite alla poetessa. Sono anche in questo caso correzioni manoscritte, e invece che usare la solita matita – o pennarello, se si ricordano le cancellature di Documento – qui è chiaro l’intervento di una biro blu posteriore.

Rispetto alla considerazione fatta poco sopra, circa alla creazione di questa copia di tutta l’opera di Primi scritti, la ragione che spinge in questa direzione è la nota manoscritta di Rosselli: sbaglio di stampa di Guanda,[12] segnalato a p. 3. Questo può voler dire che l’autrice abbia ricopiato i testi dalla prima bozza di Guanda, e poi abbia avuto dei ripensamenti sulla bozza successiva – da qui l’aggiunta, per esempio, di una poesia che aveva deciso di epurare.

Sulla bozza di stampa di Sanatorio, Rosselli fa le precisazioni indicate già sulla propria copia dattiloscritta, ma soprattutto indica al redattore di 1) iniziare gli ‘a capo’ al terzo spazio e 2) di abbassare le righe divisorie.[13] È proprio in queste carte che Rosselli dà la possibilità di pensare alla teoria descritta sopra: viene segnalata la stessa correzione da lei apposta nel dattiloscritto, cioè on per en. Quindi, vuol dire che la scrittura di quel dattiloscritto o deve essere di poco precedente alla prima bozza di Guanda, oppure contemporaneo. Del resto, entrambe le teorie sembrano valide: Rosselli aveva una cura spasmodica per le proprie carte, ed era solita ricopiare più e più volte.

Adolescence è invece la seconda sezione in francese, con la differenza che, se per Sanatorio 64 si può parlare di un lungo testo in prosa quasi come un ‘confessionale’ – tanto quanto la prima sezione di ASP – rispetto alla morte e al senso di perdita,[14] con questa sezione è definita dalla stessa autrice come esercices poétique 1954-1961.

Per quanto già definito poco sopra, il dattiloscritto presenta già le 9 poesie corrette[15] e predisposte per la stampa, se non per qualche piccola correzione negli ultimi componimenti – per esempio nei casi a p. 6, p. 7, p. 8, p. 9 – che indicano qualche errore di battitura o la mancanza di segni diacritici su alcune lettere[16] per via dell’inchiostro doppio della macchina per scrivere. Diverso è invece il caso di Le chinos a Rome, composto nel 1955, che non solo prevede diverse correzioni in sé per sé, ma prevede anche una ‘nota per l’editore’ posta in calce al dattiloscritto. Ci sono alcune segnalazioni in merito a dove posizionare il rientro,[17] nonché di spostare a sinistra una parentesi a p. 2 per via di uno spazio battuto in più, o correzioni sparute poste a penna sul dattiloscritto.

La novità, tuttavia, resta nella cosiddetta note pour l’éditeur, che Rosselli indica da non stampare: è lì che la poetessa spiega la ragione di alcune scelte linguistiche, alcune «Puis sont incluse peu à peu des mots d’origine douteuse, ou inventés, ou de formation mi-italienne, ou, quelquefois, d’origine anglaise».[18] Di seguito vengono spiegate poi alcune scelte linguistiche, e tra le più interessanti si segnalano: esilaration, dall’italiano esilarare che, in francese, troverebbe corrispondenza in égayer; métapontexes, dalla città italiana di Metaponto; béons, dall’italiano beone; lo stesso vale per l’utilizzo di parole come stand che, in realtà, corrisponderebbe a se tenir debout.[19]

La prima cosa che invece si nota sul fascicolo contenente October Elizabethans (scritto nel 1954) è che il titolo, pensato da Rosselli, doveva essere diverso: The taming of the shrew doveva essere quanto immaginato dall’autrice al momento di concepimento dell’opera, poi corretto con una nota manoscritta con il titolo conosciuto oggi. Ci sono diverse modifiche fatte in corso d’opera: la prima è sicuramente per la p. 2, dove poi, in basso a destra, c’è l’indicazione ‘cut’, come a p. 19; in seguito, persistono delle correzioni minime, come quella che riguarda la p. 8, dove Rosselli indica, con un semplice punto di domanda, se possa essere il caso di modificare la lettera maiuscola di Fantaisies.[20] Si può supporre, in virtù delle minime correzioni, che questa sia una delle ultime copie – ormai corretta, come indicato sul frontespizio – in cui Rosselli ha messo mano. C’è tuttavia una nota interessante, a livello linguistico: a p. 21 viene riportato quello che sembra essere un interrogativo della stessa poetessa. Lepures, usato infatti nel terzo verso, viene accomunato ad hares (lepri in inglese): ma la sua origine è però tutta italiana. O, per meglio dire, latina. Quella parola deriva infatti da una forma arcaica di italiano, cioè lepore, derivata dal latino prima di perdere la o per sincope della vocale intertonica.

Diario in tre lingue, dalla sua, ha la particolarità di contenere testi di lingue diverse, quali appunto quelle care a Rosselli e da lei più utilizzate. Il fascicolo in oggetto è identificato come copia dattiloscritta originaria e riveduta. Eppure, la composizione linguistica dell’opera non è l’unico punto peculiare: anche la disposizione grafica ha una sua ideazione, che però non si limita più a un verso poetico esteso, alla mancanza di lettere maiuscole o a componimenti che possono essere definiti più delle massime che delle vere e proprie poesie,[21] quanto alla composizione forse disordinata delle stesse poesie.

Le prime correzioni riguardano per lo più il discorso grafico: dove inserire parentesi e linee, spazi, nonché qualche parola che viene trascritta male, come Esthétique, corretta più e più volte dall’autrice. Il fattore più importante in una sezione come questa però non sono le solite, ormai perpetrate correzioni di Rosselli, quanto la particolarità dell’impaginazione e la fluidità che viene data al testo, capace di piegarsi alla volontà non solo di Rosselli stessa, ma anche alle variabili del suono da lei tanto ricercate e spiegate nei suoi studi.[22] Come si può evincere dal titolo dato a questa sezione, Diario in tre lingue ha tutta l’aria di essere un canovaccio linguistico di Rosselli, dove sperimenta nuove musicalità e nuove parole. In questo senso però, la bozza in esame presenta solo qualche indicazione circa gli spazi da usare nella disposizione grafica. Infine, dopo un’ampia sezione con una predominanza di francese, – si dipana dalla sezione I alla sezione V – nella VI siamo di fronte ad un pastiche tra inglese e italiano: solo dalla sezione VII inizia ad esserci un maggiore equilibrio tra le tre lingue.

Parlando dell’articolazione del testo e della sua probabile ricomposizione dattiloscritta, guardando il fascicolo è ben evidente dalla differenza di inchiostro che alcune pagine sono state ricopiate in tempi diversi: risulta difficoltoso ricostruire la stesura di queste pagine, ma si parla di almeno due momenti diversi.

Il primo tipo di inchiostro deve essere molto più nuovo e meno consumato: lo si vede dalla scrittura più pulita e dalla migliore visibilità; ci sono però delle altre pagine, mescolate a queste che appaiono più nuove, in cui Rosselli fa uso di un inchiostro più consumato. Se le due sezioni fossero più “ordinate”, si potrebbe considerare l’ipotesi di una sezione finale di Diario in tre lingue composta ormai con un inchiostro vecchio: è però la mescolanza tra questi due tipi di inchiostro che fa capire come Rosselli abbia operato in momenti diversi, di cui però non c’è traccia.

Se per A birth ci sono le carte ormai ultimate con solo un paio di annotazioni sugli spazi,[23] è su Palermo ’63 che la copia riveduta presenta non solo le solite indicazioni sugli spazi, ma è anche prodotta da un altro tipo di carta copiativa, segno che, anche qui, il labor limae ha determinato più e più copie da parte di Rosselli, non solo per assicurarsi di avere sempre a disposizione le tracce di quanto prodotto, ma anche per ritornare liberamente sui suoi testi.

Importante, in questo senso, è la testimonianza della lettera di Amelia Rosselli ad Armando Marchi,[24] con il quale discute, il 10 o 11 agosto[25] del 1987 – poco dopo per la stampa di La Libellula presso Studio Editoriale – in merito alla seconda edizione di Primi scritti, coadiuvata dalle bozze. Tuttavia, in merito a questa stampa, Rosselli ha diversi quesiti rispetto agli appunti da lei già lasciati: le bozze in sé saranno poi analizzate nel paragrafo seguente sui materiali preparatori.

Prima di tutto, Rosselli non si limita più a suggerire sparute modifiche, ma anzi le sue descrizioni sono abbastanza precise, rispetto alla vera struttura dell’opera. Per esempio, per quanto riguarda Adolescence, suggerisce di usare il metodo di una pagina per pagina, visto che l’autrice stessa considera importante quella sezione per mostrare la sua evoluzione letteraria. Per lei, la sezione sopra nominata diventa molto importante, tanto da andare a discapito di Diario in tre lingue, che vorrebbe «prendesse meno spazio nel libro», rispetto alla prima edizione e che, in effetti, Rosselli lamenta «di soverchia importanza». Rispetto alla questione note manoscritte sull’opera, ci sono le normali indicazioni tipografiche sulle spaziature e il carattere più piccolo, decisione in contrasto con la struttura della collana “La Piccola Fenice” in cui era stata stampata l’opera stessa.  Tra le alte cose, Rosselli lascia una traccia abbastanza evidente nella struttura del libro in un’intervista: «Ho preso otto quaderni, ne ho trattenuti, trascritti com’erano a macchina per scrivere, e buttati gli altri. […] Ma ho dovuto buttar molti, se no proprio era un eccesso inutile».[26] Questo segnala che anche qui Rosselli abbia lavorato con le cesoie, un po’ come per Documento.

Preso in esame Le chinois à Rome, Rosselli spiega che lo vorrebbe strutturato proprio come il dattiloscritto originale, che lei stessa allega alla lettera: la motivazione dietro tale scelta è quella di non essere stata ascoltata durante le prime e seconde bozze, né di aver ricevuto la terza bozza promessa. In generale, l’autrice forse appare un po’ infastidita da come siano state gestite alcune cose nella prima edizione di Guanda, e ha tutta l’intenzione di rimediare in questa sede. C’è menzione anche per le note pour l’éditeur, che per lei potrebbe essere posto in calce alla sezione o prima\dopo l’indice.

Di base, comunque, da questa lettera si evincono due cose: per prima cosa, che Rosselli aveva molto a cuore la sezione di Adolescence, ma che soprattutto aveva intenzione di cambiare totalmente la struttura del libro in oggetto, tanto da suggerire un cambio di impaginazione e struttura del volume per dar lustro, in particolare, alla sezione sopracitata. Dettaglio importante, tuttavia, per la ricostruzione della stampa delle opere rosselliane, è il seguente. Nell’ultima parte, infatti, Amelia Rosselli esplicita di voler avere il tempo per seguire «la traduttrice di Sleep»[27] a metà settembre, quindi libera da ogni impegno con Guanda e Marchi. In quella sede si parlò di un volume di circa cento pagine in inglese, che però doveva essere tagliato. Come già visto in precedenza, la questione non si risolverà così facilmente, e la struttura di Sleep le occuperà più tempo del previsto.

Materiali preparatori

La bozza di stampa è stata utile per ricostruire il processo di evoluzione del testo, da semplice dattiloscritto a revisione della seconda edizione, che però non vedrà mai la luce. Dalle indicazioni fatte da Rosselli sulla bozza, si può immaginare che questa sia la bozza inviata ad Armando Marchi, soprattutto in virtù della poesia di Cantilena, inserita nella bozza di stampa e menzionata nelle righe del 10\11 agosto proprio come nuova poesia da pubblicare insieme a tutto il resto del volume.

Il voluminoso plico si apre con le solite, ormai abitudinarie annotazioni in merito agli spazi di stampa: ma è con Cantilena che abbiamo il primo, vero intervento formale. Infatti, Rosselli indica in modo ben preciso lo spazio in cui inserire la poesia dattiloscritta ex novo, cioè tra le poesie numerate come 5 e 7. Se Adolescence, invece, reca solo le condizioni espresse già nella lettera e nel paragrafo in questione, è da Le Chinois à Rome che la minuzia di Rosselli diventa preponderante – non che in precedenza non ci sia stato spazio per la sua voce. Le opere in precedenza, quindi Sanatorio 1954 e Prime prose italiane, infatti, non hanno particolari ingerenze se non quelle degli spazi o delle linee tra i paragrafi rese meno doppie.

Per quest’altra sezione in francese, già di per sé importante per Rosselli tanto da inserire una note pour l’éditeur, Rosselli si cura soprattutto della sezione Promenade.

Importante, tra le altre cose, a livello d’impaginazione la nota «originariamente era sistematicamente la parola intera ad essere unità, e graficamente anche, come si nota dai margini a destra». È in effetti una particolarità richiesta proprio da Rosselli in virtù del testo, e dal dattiloscritto si vede chiaramente le parole ai margini destri non vanno mai a capo,[28] così come si nota anche che nella bozza di stampa era stato totalmente ignorato. Come già visto in edizioni precedente a questa,[29] Rosselli vedeva nella pagina non solo un mezzo per produrre i propri scritti, ma uno spazio vero e proprio dove le sue parole dovevano collocarsi con un preciso ordine. E soprattutto, quando questa sua prerogativa – non sempre capita – non veniva rispettata, spesso determinava anche frequenti cambi di editore.[30]

Tornando comunque al discorso sulla note pur l’éditeur, che Rosselli pensava di inserire in calce alla sezione o prima\dopo l’indice, trasmette alcune note linguistiche sul francese. È in questa sede che Rosselli spiega che diversi termini:[31] «Sono inclusi poco a poco parole di origine dotta, o inventati, o dati dall’influenza del mio italiano o, talvolta, di origine inglese».[32] Tra le parole inventate è giusto menzionare bruier, proveniente da “bruit”, oppure décolorisé e avidvide, tutti inventati.

La sezione seguente è, invece, la problematica Diario in tre lingue: fin da subito considerata da Rosselli come una sezione da “rendere più piccola” in virtù di altre, evidentemente da lei preferite, l’impaginazione resta di certo il tratto peculiare di questa parte dell’opera. Anche solo definirla è difficile: è una raccolta poetica? Di prose, inframezzate da segni grafici relativi agli schemi del suono, o semplicemente uno spazio che Rosselli ha definito per ragionare sui suoi tecnicismi? Forse la cosa migliore sarebbe definire Diario in tre lingue in questo modo, come un’opera fluida e di difficile definizione.

Venendo però a quello che è oggetto di questi studi, la questione è la seguente: rispetto ad opere meno complicate da un punto di vista grafico – come per esempio Chinos à Rome, appena precedente – i tecnicismi di Rosselli nelle bozze sono meno evidenti, forse perché, in quest’occasione, il tipografo è stato capace di seguire i dettami della poetessa. Sorprendentemente, nelle bozze riviste si trovano solo delle minime indicazioni per gli spazi, che forse sulla carta stampata sono più stretti rispetto a quelle di una macchina per scrivere. Con un enorme paradosso, le ultime due sezioni, quindi A birth e Palermo ’63 presentano molte più indicazioni, se si considera che persino i titoli vengono rivisti da Rosselli – come già segnalato nella lettera a Marchi – e, con essi, gli spazi. Sorprende tuttavia che, nonostante sia questa una bozza rifatta dalla prima edizione di Guanda del 1980, presenti degli errori che l’autrice stessa deve correggere. Si tratta della poesia a p. 127 dove è l’autrice a segnalare che, forse, è il caso di non inserire il rientro per far stare una parola non isolata.[33]

«La libertà è perduta». Appunti sparsi e persi (1983)

«È chiamata Appunti, con una mia prefazione, ma sono in realtà molte poesie con tutta una sezione finale di appunti scritti a mano o estrapolati da poesie che ho scartato».

Così Rosselli, in un’intervista a cura di Guido Galeno,[34] descrive l’opera frutto di una seconda rielaborazione di Documento. Come già suggerito più e più volte fin dal paragrafo dell’opera appena citata, le due sono imprescindibili l’una dall’altra: e soprattutto, per quanto in Appunti confluiscano solo alcuni degli scarti dell’opera del 1979, in realtà altrettanto importanti sono anche i nuovi componimenti.

La stessa poetessa definisce come Appunti quelle brevissime poesie, spesso composte solo da un paio di versi: è per questo che la struttura di Appunti sparsi e persi si può dire consti di un principio fondamentale, già espresso da Rosselli nella prefazione all’opera: «intendevo essere casuale nel mettere insieme sia poesie sia appunti che avevo scritto contemporaneamente a Documento».[35] Dunque, il processo di analisi delle carte non si conclude nemmeno con la pubblicazione dell’opera sopracitata: Rosselli ci ritorna per capire quali poesie possono essere raccolte in questa miscellanea, in cui solo pochi componimenti si considerano posteriori a Documento: si tratta delle due sezioni nominate Nonnulli e Sequenze. Di altra natura importante per comprendere la nascita differente delle poesie contenute nella raccolta, sono le carte che chiamate Appunti sparsi, in cui Rosselli dattiloscrive le poesie brevissime che, l’autrice aggiunge, sono da «leggersi una dopo l’altra ma separatamente».[36] L’autrice ne fa duplice copia: in una sono riportate le date di composizione, nella seconda invece sono segnalate le pagine del dattiloscritto da lei realizzato. Proprio per questo motivo, si presume che queste carte abbiano avuto più una natura privata che di referenza per la pubblicazione.

La raccolta vede la luce nel 1983 per mezzo della casa editrice-cooperativa AeliaLaelia. Rosselli informa il fratello John con una lettera del 6 febbraio 1983: ciò che però determina gli accordi di stampa è una lettera di Beppe Sebaste[37] – che infatti è spesso citato anche nel dattiloscritto di ASP.1 – indirizzata a Piero Gelli e Garzanti per chiedere il consenso di pubblicare Rosselli.[38] «[…] È il libro più comprensibile alle persone non addette ai lavori, il meno letterario».[39]

Bozze e varianti

La parte più consistente dell’opera è, come già preannunciato, composta per lo più da componimenti esclusi da Documento. La scelta che ha spinto Rosselli a costituire questa nuova raccolta è stata dettata dal desiderio di stampare quelle poesie, nonché dalla richiesta di riviste di ricevere nuovi pezzi, e di consegnare alla stampa una parte di ciò che aveva escluso nell’opera sopracitata.

Si è già detto come Documento fosse composto, per informazioni trapelate dalle lettere con John, di circa 500 poesie: se si sommano le circa 190 dell’opera stampata sotto il nome Documento e quelle di ASP.1, circa 90, si comprende come in realtà sia andata perduta una parte molto consistente dell’opera stessa.

L’organizzazione del dattiloscritto che compone Appunti sparsi e persi è analoga a quella già vista in Documento: ancora una volta ritornano le datazioni in alto a destra, ancora una volta ritornano le copie in carta carbone[40] – segno che i gruppi in sequenza dei componimenti, già citati nell’analisi di Documento, erano molto più ampi di quanto si credesse. Numerosi sono comunque i casi di poesie non più inedite, come per esempio p. 6, ceduta a Gualtiero de Sanctis,[41] p. 9, in cui si segnala la cessione della poesia alla rivista “Tabella di marcia”, per il giugno dello stesso anno di Appunti sparsi e persi; per la poesia[42] a p. 10, destinata alla rivista “Stilb”;[43] p. 11 per la rivista “Contrappunto” e confluita in un’antologia.

Al di là delle poesie di Documento, che come già spiegato, constano del periodo intercorso tra il 1966 e il 1973, in Appunti sparsi e persi ci sono anche delle poesie totalmente inedite, che poi comporranno le sezioni Nonnulli (settembre 1977) e Sequenze (1974-1976). Saranno però le riviste più care a Rosselli ad accoglierle per prime, anche prima della pubblicazione del volume. I primi esempi di pubblicazione di queste sezioni grazie a “il Manifesto” insieme a “Nuovi Argomenti”, le riviste con cui Rosselli ha avuto da sempre un legame stretto. Infatti, sono state inviate le quattordici poesie di Sequenze alla redazione di Luigi Pintor.[44] Mentre, per quanto concerne la rivista di Alberto Carocci[45] e Alberto Moravia,[46] stamperà le dieci poesie di Nonnulli nel n. 61.

Stesso discorso vale per le 12 poesie destinate alla rivista “Alfabeta” per suggerimento di Antonio Porta. Le poesie sono indicate con le date di composizione e il numero di pagina dal dattiloscritto ASP.1, cioè a p. 2, p. 23, p. 25, p. 27, p. 33, p. 34, p. 36, p. 42, p. 43, p. 49, p. 52, p. 55. Come di consueto, Rosselli darà indicazioni al grafico rispetto all’impaginazione, sottolineando il suo desiderio di evitare la manipolazione delle poesie. A quel punto, preferirebbe piuttosto inviarne altre più adatte alle esigenze richieste dalla rivista stessa[47] che rischiare un taglio, una aggiunta e in generale una modifica, di quelle già inviate.

Sono numerose le scelte adottate da Rosselli in merito a questi componimenti: che non siano stati ritenuti tematicamente adatti a Documento sembra ovvio, soprattutto considerando che molti sono stati pubblicati, in momenti diversi e spesso isolati, in riviste. Sempre ad avvallare la tesi per cui le date impresse da Rosselli sono da considerarsi sommarie, si guarda al caso del componimento a p. 57, in cui l’autrice segna probabilmente 10/2/72. È per questo motivo che si è proceduto a sezionare sia Documento che Appunti sparsi e persi e, in generale, tutta la sua opera omnia, cercando di ricostruire i gruppi di componimenti ricopiati insieme, con la sommaria cronologia che è stata data all’opera.

Materiali preparatori

Il secondo dattiloscritto di Appunti sparsi e persi non si limita a raccogliere, come in ASP.1, notizie relative alle stampe in rivista dei singoli componimenti, ma si tratta di un vero e proprio studio per l’impaginazione. La memorizzazione e l’appunto relativo alla lunghezza dei componimenti, ai versi che li compongono, al numero di stanza, sono tutte funzioni volte a immaginare la stampa del testo stesso.

È per questo che Rosselli individua quelle che sono le poesie più brevi, con l’annotazione da leggersi una dopo l’altra separatamente.[48] Saranno però le due sezioni sopracitate ad avere maggior lavoro di limatura, sicuramente perché si tratta di materiale nuovo e inedito. L’unica eccezione si tratta con la poesia a Pier Paolo Pasolini, già presente in ASP.1. e scritta dopo tre-quattro settimane dalla morte di Pasolini.[49] Le correzioni manoscritte visibili su ASP.2. sembrano comunque frutto di una fotocopia\carta carbone, quindi si è sprovvisti del passaggio intermedio di correzione del componimento. Senonché è corretto a favore di sennonché, rinvendoti è modificato in rinvenendoti. L’influenza del francese nel primo caso è piuttosto visibile (le doppie vengono spesso pronunciate come se ci fosse una sola consonante), mentre nel secondo caso sembra una mescolanza tra il verbo rinvenire e vedere (rinvenendoti+vedendoti): solo alla fine viene utilizzata la forma italiana in uso. Un discorso analogo accade anche per assopì, che Rosselli corregge con assoppì: la teoria dietro l’invenzione linguistica proviene da assoupir francese, che succeduto alla parola pallida nel v. 20, nella lettura può provocare la sovrapposizione dei suoni – o almeno, così poteva essere nella mente di Rosselli.

Per quanto concerne la costruzione di Sequenze, invece, la trascrizione delle poesie (o meglio, dei loro titoli) non è molto chiara: o quantomeno, non sono chiari i suoi simboli e il loro uso. I simboli utilizzati da Rosselli per appuntare qualche componimento sono descritti come appunti con cerchietti per “Il Cabold,[50] ma a parte questo, l’unica teoria individuabile è che i cerchi a destra indicano le selezioni per la rivista sopracitata, mentre i cerchietti a sinistra quelli della rivista “Stilb”.

Vista la sua natura di «quaderno di appunti», come in realtà sarebbero anche gli altri volumi indicati in questo capitolo, Appunti sparsi e persi ha la funzione, non solo letteraria, di apportare nuove poesie che altrimenti, dopo Documento, sarebbero andate perdute. L’opera in questione, infatti, resta importante perché questi sono gli ultimi tentativi di Rosselli di tornare alle carte poetiche: se Impromptu resta l’ultima opera effettivamente scritta ex novo e tutte le altre sono solo rimaneggiamenti di carte del passato, queste rappresentano anche il tentativo della poetessa di tornare al suo mestiere, o quantomeno avvicinarvisi ancora.

Il tentativo, però, sarà quasi fallimentare: a parte l’ultima pubblicazione in rivista nel 1995 con il componimento Pavone/Prigione, Amelia Rosselli smetterà di scrivere.

Conclusioni

Analizzare verso per verso le poesie di Amelia Rosselli ha determinato il raggiungimento di diversi obiettivi: il primo riguarda sicuramente l’approccio alle carte editoriali che ha permesso la valutazione un mondo a sé stante e capace di trovare una definizione univoca. Fin da Pasolini c’è stato il tentativo di attribuire al lapsus rosselliano una componente casuale, automatica. In realtà, i suoi tecnicismi trovavano le proprie radici in una profonda conoscenza della metrica e della musicologia, determinando uno studio analitico anziché casuale. Soprattutto, se si considerano gli studi fatti sulle bozze, sulle note all’editore e anche sulle lettere editoriali in cui si motivano certe scelte – come il caso di Impromptu, dove persino Giovanni Giudici muoveva obiezioni su certe scelte lessicali che Rosselli voleva preservare e mostrare al pubblico – si comprende che nulla è lasciato al caso: questo vale per la scrittura, per i temi trattati, per la lingua e anche per l’impaginazione delle opere stesse. Che Rosselli abbia dovuto adattarsi ai sistemi editoriali dell’epoca, soprattutto in casi come quelli di Garzanti, è un dato di fatto: questo però vuol dire che tutta la sua opera vada rivista come un organigramma completo, che inizia dalle sillabe e termina con l’impressione su carta. Dopo la scomparsa di Rosselli, gli studi a lei dedicati si sono per lo più rivolti alla prospettiva tematica delle sue poesie e studiandone il significato, con il fine di analizzare concetti spesso oscuri che emergevano dai suoi versi e dalla rara prosa da lei scritta.

Da qui il secondo punto risultato di questa ricerca. Non sono mancati di certo i tentativi di ricostruire l’intricata storia editoriale delle sue opere, dove Documento resta ancora un enorme punto interrogativo nel mondo letterario italiano. Se studiato in una prospettiva più globale e funzionale all’evoluzione della lingua rosselliana, Documento non è più solo la raccolta da cui molte poesie sono confluite in un volume ulteriore o di cui molte sono andate perdute, ma rappresenta l’evoluzione e il distacco da questa metrica nuova – da qui l’idea di definirla lingua rosselliana, né lapsus né altro. Impromptu, da questo punto di vista, è solo la normalizzazione di Documento in poemetto.

Se si considera che la mente di Rosselli fuggiva da una lingua all’altra, o meglio, da un’opera all’altra – da Primi scritti a Documento dal 1953 al 1973, con una interruzione fino a Impromptu nel 1981 – e che gli esercizi letterari variavano a seconda degli studi da lei compiuti, si comprende che, in un’ottica globale, Documento assume tutta un’altra forma. Non è più l’opera di difficile contorno, ma anzi, il raggiungimento di una struttura poetica soddisfacente. Del resto, Amelia Rosselli non scriverà nulla per ben sette anni, e se di certo si può pensare che fosse concentrata sulla sua salute psichica così fragile, dall’altro la parte di sé dedita alla poesia doveva cercare una nuova forma in cui pensare le parole e la metrica.

Le due questioni, quindi, si fondono: la risoluzione degli esperimenti linguistici e la complessa salute psichica portano Rosselli a non scrivere più dopo Impromptu, se non per qualche sparuto intervento su riviste o le traduzioni a sua cura. Un cambio di prospettiva di rapporto al testo inizia con Sleep, raggiunge il suo apice con Documento, e con Impromptu la sua fase finale: anche le bozze sono più pulite e la lingua rosselliana si normalizza. La vena creativa, lo studio, la pazienza anche di dedicarsi a note all’editore, spiegazioni e tentativi di rendere la pubblicazione lineare con il testo prodotto, si esauriscono.

Così emerge il terzo punto di analisi di questa ricerca: con il distacco progressivo dalla poesia, anche il carattere combattivo di Rosselli atto a far rispettare le sue decisioni sulla stampa inizia ad affievolirsi. Sembra riecheggiare in Rosselli lo stesso «non scriverò più» di Cesare Pavese. C’è un certo abbandono alle decisioni degli altri, lei che aveva sempre impiegato lettere su lettere a spiegare persino gli spazi da inserire tra un distico e l’altro. Rosselli fa addirittura emergere, in una lettera a Giorgio Devoto, una delle sue turbe psichiche relative alla CIA e al timore di non sopravvivere: mai accaduto prima di quel momento nelle lettere editoriali analizzate, né dopo. Il suo carattere muta, diventa più arrendevole, fino a diventare meno attaccato alla poesia, allo studio e alla vita.

Questo comporta lo sviluppo che tutti sanno, quando la solitudine e la malattia prendono il sopravvento, insieme all’estraneazione dalla poesia e dalle parole che l’avevano accompagnata per tantissimi anni. C’è un tentativo di ritornare alle carte scritte anni prima, da qui la pubblicazione di La Libellula, Diario ottuso, Appunti sparsi e persi e Sleep, ma non è sufficiente nemmeno questo: Rosselli non torna a scrivere. Sembra quasi darsi un’altra occasione, facendo scorrere altri sette anni da Sleep (1989, Rossi&Spera) e alla revisione necessaria, al 1996: come accadde, del resto, tra le poesie che composero Documento e gli anni di vuoto per Impromptu. Quei sette anni però non bastano: «stona la vita si spegne da sé», recitava in Documento. Dopo l’11 febbraio del 1996 anche la sua si spegne, e con essa tutte le domande a cui oggi si tenta di rispondere, lasciando inevitabilmente degli spazi vuoti e irrisolti.

Serena Gherghi

 

 

[1] Fotografia in Appendice n. 75. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[2] C’è anche una correzione dell’autrice in merito al numero di pagine contenute: il 20 riportato è in realtà prodotto da una modifica del numero 40 nel manoscritto autografo di Rosselli. «Ho iniziato a scrivere un testo in inglese: è ancora incompleto. Dovresti darmi un parere a riguardo. Dovrà essere di circa 20 pagine e non oltre, anche se sono dubbiosa». Traduzione a nostra cura.

[3] Guido Davico Bonino (1938-) è un critico letterario e saggista che, dal 1961 al 1978 collaborò con la casa editrice Einaudi grazie a Italo Calvino.

[4] «Le Botteghe (Oscure; rivista, ndr.) pubblicherà quanto ho scritto, è confermato, ma dubito che sia pubblicato in questo ultimo numero. Altrimenti, accidenti, si perderanno altri sei mesi. Potrei però aggiungere altre pagine “buone”, per cui sto già lavorando e prendendo appunti.» Traduzione a nostra cura.

[5] Amelia Rosselli si ritroverà a viaggiare molto per la zona rurale: e per questo, si sentirà non solo legata ai luoghi, ma ancora di più a Scotellaro.

[6] Rocco Scotellaro, Un lago nella memoria in Trasparenze, a cura di Emmanuela Tandello e Giorgio Devoto, San Marco dei Giustiniani, Genova 2016.

[7] Un esempio può essere anche quanto contenuto in Diario Ottuso.

[8] Fotografia in Appendice n. 76, 77, 78. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[9] Rosselli chiamava l’asterisco “stellina”, ed è così che è nominato all’interno della sua nota manoscritta.

[10] Il fascicolo di riferimento è PS.16, cartella 23.

[11] La motivazione utilizzata da Rosselli nella bozza di stampa è la seguente: «crea ritmicamente rapporto con la 17esima poesia».

[12] Fotografia in Appendice n. 79. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[13] Fotografia in Appendice n. 80. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[14] Sicuramente ci sono riferimenti al suo mon amie, Rocco Scotellaro, scomparso nel 1953 e con cui Rosselli aveva sviluppato un legame poetico e amicale di una certa rilevanza.

[15] Segnalato per mezzo di nota manoscritta dell’autrice.

[16] È il caso della poesia a p. 7, dove una correzione manoscritta segnala l’utilizzo della i con dieresi (ï).

[17] Rosselli indica il 24esimo spazio con una nota manoscritta a matita.

[18] «Sono incluse, in modo graduale, parole di origine dubbiosa, o inventata, o dovute all’influenza della mia lingua italiana o, a volte, dall’influenza della lingua inglese.» Traduzione a nostra cura.

[19] Fotografia in Appendice n. 81. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[20] Fotografia in Appendice n. 82. Poi, come si vede dalla bozza di stampa, Fantasies rimane con la lettera maiuscola. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[21] Si fa riferimento a diverse poesie di Rosselli, che hanno la peculiarità di essere composte da un solo verso, spesso eponimo.

[22] Un esempio potrebbe essere il saggio introduttivo a Variazioni belliche.

[23] Al contrario di Diario in tre lingue, A birth è stato ricopiato in una sola sessione, con la sola ipotesi delle ultime due pagine composte in carta copiativa, per via dell’inchiostro un po’ irregolare.

[24] Armando Marchi (1955-2008) è stato redattore di Guanda dal 1986 al 1988, per cui non curò la prima edizione, pubblicata invece nel 1980. Questa appena menzionata, infatti, venne curata da Giovanni Raboni.

[25] La data è incerta: infatti, Rosselli ne propone due diverse, prima di riscrivere l’11 agosto a matita: si può pensare che questa sia la data effettiva, ma non sapendo quando sono state apposte le note manoscritte, può essere solo un’ipotesi – come spesso accade quando Rosselli pone delle date.

[26] Guido Galeno, Orazio Converso, Non è la mia ambizione essere eccentrica in Amelia Rosselli, È vostra la vita che ho perso, Le Lettere, Firenze 2010, p. 206.

[27] Si tratta sempre di Emmanuela Tandello, l’attuale curatrice dell’opera in inglese di Rosselli.

[28] Tra le altre cose, il dattiloscritto reca anche la dicitura ‘versione originale per spaziatura originale’.

[29] Il riferimento è soprattutto a Variazioni belliche.

[30] L’unica eccezione è poi il ritorno a ‘casa Garzanti’, che detiene oggi diverse opere poetiche di Rosselli.

[31] Fotografia in Appendice n. 81. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[32] Testo originale: «Sont inclus peu à peu des mots d’origine douteuse, où inventés, où de formation m-italienne, où, quelquefois, d’origine anglaise». Traduzione a nostra cura.

[33] Fotografia in Appendice n. 83. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[34] Guido Galeno, Orazio Converso, Non è la mia ambizione essere eccentrica in Amelia Rosselli, È vostra la vita che ho perso, Le Lettere, Firenze 2010, p. 204.

[35] Amelia Rosselli, L’opera poetica, Mondadori Editore, Milano 2013, p. 688.

[36] Fotografie in Appendice n. 84-85. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[37] Beppe Sebaste (1959-) è fondatore della casa editrice AeliaLaelia insieme a Carlo Bordini, Giorgio Messori, Daniela Rossi e Charles Debiere.

[38] Si ricorda infatti che Rosselli è stata pubblicata, per la maggior parte del tempo, dalla casa editrice Garzanti.

[39] Guido Galeno, Orazio Converso, Non è la mia ambizione essere eccentrica, in Amelia Rosselli, È vostra la vita che ho perso, Le Lettere, Firenze 2010, p. 204.

[40] La sequenza in copia carbone blu consta delle carte a p. 4, 15, 18, 21, 43, 49, 50, 51, 59.

[41] Sequenza in dattiloscritto nero: p. 6, p. 7, p. 11, p. 12, 17, 19, 22, 23, 24, 25, 27, 29, 30, 32, 33, 37, 39, 41, 42, 44, 45, 46, 47, 48, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 60, 63, 65, 66.

[42] Questa nuova sequenza di componimenti, riferibili con un’altra copia carbone nera, vede le p. 8, 10, 13, 14, 16, 20, 26, 28, 31, 34, 35, 36, 38, 40, 61, 62, 64.

[43] Rivista fondata da Fabio Doplicher, durata solo dal 1981 al 1983, era nata con l’idea di una cadenza bimestrale, in seguito non sempre rispettata.

[44] Luigi Pintor (1925-2003) fu giornalista e scrittore, fondatore de “il manifesto” e autore di opere come Parole al vento e La signora Kirchgessner.

[45] Alberto Carocci (1904-1972) è stato giornalista e scrittore italiano, noto per aver fondato la rivista “Solaria” e, solo in seguito, “La riforma letteraria” e “Argomenti”. È grazie a lui se autori come Gadda o Vittorini riuscirono a emergere nel panorama letterario nazionale.

[46] Alberto Moravia (1907-1990) è stato scrittore e saggista, e tra le sue opere più note si ricordano: Gli indifferenti, La ciociara, Il conformista, La noia. Era cugino di Rosselli (poiché nato da Carlo Picherle, fratello di Amelia Picherle, nonna di Amelia Rosselli).

[47] Nel fascicolo ASP.1 è contenuta una lettera, datata al 7 maggio 1983, per la rivista “Alfabeta”.

[48] Fotografia in Appendice n. 84. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).

[49] Si riporta la nota manoscritta dell’autrice.

[50] Si riporta la nota manoscritta dell’autrice. Fotografia in Appendice n. 86. Archivio Rosselli (Centro Manoscritti di Pavia).


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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Antologie e riadattamenti dei “Promessi sposi” https://editoria.letteratura.it/antologie-e-riadattamenti-dei-promessi-sposi/ https://editoria.letteratura.it/antologie-e-riadattamenti-dei-promessi-sposi/#respond Sat, 01 Oct 2022 17:44:38 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8776 L’analisi di alcune edizioni dei Promessi sposi, di progetti editoriali antologici e di riadattamenti del capolavoro manzoniano che varcano il confine del testo letterario, come, ad esempio, i fotoromanzi o le edizioni teatrali e cinematografiche. Il successo dell’opera manzoniana è stato tale da incentivare anche una serie infinita di opere che non contengono il testo […]

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L’analisi di alcune edizioni dei Promessi sposi, di progetti editoriali antologici e di riadattamenti del capolavoro manzoniano che varcano il confine del testo letterario, come, ad esempio, i fotoromanzi o le edizioni teatrali e cinematografiche.

Il successo dell’opera manzoniana è stato tale da incentivare anche una serie infinita di opere che non contengono il testo del romanzo integralmente, ma ruotano intorno ad esso. Queste opere possono contenere estratti di testo o citazioni più o meno lunghi oppure riadattamenti e parodie del testo.

Casi di edizioni antologiche

Molte sono le opere dedicate a personaggi emblematici del romanzo: sono delle edizioni antologiche contenenti gli estratti di testo che riguardano i protagonisti: i casi più affrontati sono quelli della monaca di Monza o dell’Innominato, ma non mancano monografie dedicate alla figura del Sarto, a don Ferrante, all’avvocato Azzecca-Garbugli o agli altri personaggi religiosi. Letture Manzoniane ’87[1] è una raccolta edita dal Centro Nazionale di studi Manzoniani di Milano nel 1988 in cui ci sono saggi che hanno per oggetto alcuni dei personaggi dei Promessi sposi e che fanno riferimento ai relativi capitoli del romanzo: Don Ferrante o la genialità del concreto di Edoardo Villa, Azzecca-Garbugli e il dispregio della parola di Sergio Pautasso e Dove si scopre un don Abbondio solitario e infelice di Geno Pampaloni.

Non mancano poi editori che pubblicano opere con un’ampia serie di estratti di testo del romanzo che ripercorrono solo alcuni capitoli ma nella loro interezza, oppure ripropongono i punti salienti del capolavoro offrendo al lettore il «sugo di tutta storia». Nel 2000 ad esempio, viene ultimata la stampa, presso la casa editrice Beretta per Lecco, a cura di Riello SpA, di un volume[2] intitolato I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta contenente i capitoli dal XXII al XXV, il cui testo è preceduto da un saggio di Danilo Zardin, Federico Borromeo: “Chi era costui?”, tradotto anche in inglese e seguito dai riassunti dei capitoli presenti nell’edizione. Partendo dalla domanda messa in bocca a don Abbondio, Zardin cerca di ricostruire il profilo del cardinale, protagonista dei capitoli in questione e riprodotti in questa edizione: «la domanda può essere adattata anche al potente cardinale che governava su Milano al tempo in cui sono ambientati i fatti dei promessi sposi». Si tratta di un’opera con la copertina cartonata, rivestita di tessuto blu. All’interno delle pagine sono presenti ampi spazi bianchi attorno al testo dei capitoli e sono inserite alcune pagine in carta patinata a colori che riproducono frasi tratte dai capitoli o immagini del cardinale di proprietà della Biblioteca Ambrosiana.

Sono poi molto frequenti le edizioni antologiche scolastiche che offrono agli studenti degli assaggi del romanzo, alcuni esempi tra quelle più recenti sono spesso accompagnate da supporti digitali come I promessi sposi. Antologia,[3] editi nel 2011 da Petrini o l’omonimo volume[4] pubblicato nello stesso anno dalla Loescher e curato da Gilda Sbrilli che cerca di catturare l’interesse del lettore inserendo sulla quarta di copertina la celeberrima frase tratta dall’introduzione del romanzo «nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanere tuttavia sconosciuta; perché…a me era parsa bella, come dico, molto bella».[5] Altri esempi sono I Promessi Sposi[6] del 2010 della casa editrice Bulgarini, un’edizione antologica con guida alla lettura[7] e commento a cura di Enrico Ghidetti, nata dalla collaborazione con il Centro Nazionale di Studi Manzoniani o l’edizione[8] di Edisco del 2008 a cura di Marco Romanelli e Giuseppe Battaglia nata proprio per rispondere alle esigenze[9] imposte dai tempi scolastici.

 

 

Copertine delle edizioni scolastiche antologiche edite da Petrini nel 2011, Loescher nel 2011, Bulgarini nel 2010 ed Edisco nel 2008.

Leggendo i Promessi sposi: il sarto

Angelo Restelli fece pubblicare nel 1927 presso la scuola tipografica Istituto san Vincenzo di Milano il libro intitolato Leggendo i promessi sposi: il sarto.[10] Si tratta di un’opera dedicata ad uno dei personaggi abbastanza secondari del romanzo la cui scelta è dovuta ad una vicenda biografica dell’autore: per caso un giorno ritrova in un cassetto sei foglietti sparsi contenenti delle annotazioni e degli appunti da lui scritti durante la lettura dei Promessi sposi riguardanti proprio questo personaggio. Il ritrovamento lo porta a realizzare un libro: «Raccolsi i foglietti, li ordinai, li ripulii, li rimpolpai, li numerai e, infine, li cucii assieme. Quando li ebbi ben cuciti…mi ritrovai tra le mani un libro bell’e fatto. E quando s’è fatto un libro…non resta che pubblicarlo».[11] Sempre nella prefazione l’autore aggiunge una nota di merito e di devozione a Manzoni, sostenendo che il lettore nel suo scritto avrebbe trovato molto più materiale appartenente all’autore dei Promessi sposi che a lui. Indica poi l’edizione seguita per le citazioni: quella speciale per il centenario 1821-1921 fatta da Ulrico Hoepli e illustrata da Gaetano Previati. Le citazioni di porzioni di testo tratte dal romanzo sono molto frequenti e sono seguite dalle indicazioni dei capitoli e delle righe.[12] Da un punto di vista contenutistico si dedica in prima battuta al ritratto del personaggio sottolineando il suo lato debole con le dovute attenuanti, poi si sofferma sulla famiglia, la moglie e i figli. Passa poi alle sue qualità: la carità declinata nell’ospitalità e nell’altruismo come l’episodio dell’elemosina alla vedova.

Manzoni e la Monaca di Monza

A Milano nel 1964, presso la casa editrice Cino del Duca, Le Edizioni Mondiali S.p.A., esce il libro[13] di Mario Mazzuchelli Manzoni e la Monaca di Monza.[14]

Nel primo capitolo Mario Mazzucchelli si dedica alle fonti storiche e letterarie a cui si rivolge Manzoni per il personaggio analizzato: principalmente La Religieuse di Diderot del 1796, ispirata alla vicenda di una monaca di Longchamp e il dramma di Jean François la Harpe Melanie ou la Religieuse scritto nel 1778 e rappresentato solo nel 1791. Di queste fonti l’autore riporta estratti di testo che mette a confronto con quelli tratti dai Promessi sposi. Nel secondo capitolo si concentra sull’episodio di Geltrude nel Fermo e Lucia e di Gertrude[15] nei Promessi sposi. L’autore riporta il testo delle due edizioni su due colonne «in modo che il lettore possa agevolmente constatare le diversità di concezione, proporzione, svolgimento e stile fra l’episodio della monaca di Fermo e Lucia e quello dei Promessi Sposi dell’edizione definitiva del 1840».[16] Il testo dei Promessi sposi è in corsivo, più breve di quello del Fermo e Lucia: ci sono delle pagine che contengono solo il testo nella colonna dedicata al Fermo, mentre la colonna accanto è vuota perché quella parte è stata tagliata nell’edizione definitiva. Nel terzo capitolo l’autore si sofferma sul raffronto tra Gertrude e suor Virginia nei riguardi di Egidio e dell’Osio: riporta il testo del Fermo e Lucia a confronto con quello di Ripamonti che testimonia la vicenda di questa monaca. Nel quarto capitolo si concentra sulle due edizioni dei Promessi sposi e sul loro rapporto con la critica e nel quinto sulla psicologia di Gertrude ed Egidio riportando il testo delle due edizioni a confronto. Nell’ultimo infine offre una panoramica sul personaggio di Gertrude in relazione al tempo in cui vive.

Con quest’opera l’autore si pone come obiettivo quello di colmare una lacuna di molti italiani riguardo questo personaggio diventato così popolare tanto che conclude in questo modo la prefazione:

troppi italiani, nonostante tanti congressi e conferenze, ignorano ancora – ed è tutto dire – come fra la sventurata del Manzoni e la de Leyra esista più vivo che mai anche il personaggio di Suor Geltrude, quello di «Fermo e Lucia», molto più vicino alla realtà storica della sua stupenda ma affievolita sorella e in pari tempo, pur sempre creazione autentica di Alessandro Manzoni, anche se da lui implicitamente sconfessata.[17]

Copertina dell’opera. Mario Mazzuchelli, Manzoni e la monaca di Monza, Cino del Duca. Le edizioni mondiali S.p.A., Milano 1964.

Pagina 37: il testo del romanzo a confronto con il testo delle fonti. Mario Mazzuchelli, Manzoni e la monaca di Monza, Cino del Duca. Le edizioni mondiali S.p.A., Milano 1964.

 

Riadattamenti linguistici, teatrali, cinematografici, satire, parodie e reinterpretazioni

Come molti altri capolavori, anche l’opera di Manzoni non è stata relegata al solo piano letterario, ma ha varcato anche le soglie della drammaturgia e del cinema. Possiamo quindi trovare edizioni contenenti il testo del romanzo manzoniano riadattato per la scena o il grande schermo oppure opere che documentano i processi di preparazione dei Promessi sposi a questi due ambiti. Ne sono alcuni esempi Lucia Mondella ovvero I promessi sposi. Dramma per Ferdinando Villani[18] edito a Lanciano presso Masciangelo nel 1869 nella cui prefazione[19] l’autore sottolinea il suo impegno a rispettare il più possibile le intenzioni messe a punto da Manzoni rispetto, ad esempio, ad Adolfo de Cesare nell’ Atto notorio, un’altra opera teatrale modulata sul romanzo manzoniano del 1853:

Però egli [Adolfo de Cesare] (e tralascio qualunque altra osservazione) vagheggiò in preferenza il tipo comico, e burlesco, e, non che seguire lo accaduto, soffermassi ad una parte sola del romanzo, mettendo a maggior vista i casi, e gl’impacci di don Abbondio. Cangiato costui in un notaio, immagina che Cecco Mondella abbia abbandonata da molti anni la sua famiglia, senza dare di sé più notizia, e che dovendosi maritar Lucia, sua figlia, con Renzo Tramaglino, vi sia mestieri di un atto notorio, attestante l’assenza del padre di lei per supplire al consenso richiesto. Di qui lo incarico e le resse a don Abbondio, notaio del paese, da parte degli sposi; di qui pure il divieto datogli da don Rodrigo, che aveva post’occhio a Lucia, perché le nozze non avvenissero. […] Dalla quale narrazione chi ha letto i Promessi Sposi, e ne ricorda lo argomento, già scorge di quanto se ne allontani il de Cesare per riuscire nello scopo proposto, laddove poi dal mio libro risulterà ben chiaro che, postomi per diverso cammino, io vidi il soggetto in una sfera più alta, e mi attenni più strettamente al romanzo, serbando nel miglior modo possibile lo schema istesso de’ dialoghi, e quasi talvolta i concetti medesimi dell’autore. Ma non è già che il mio dramma sia esente da licenze, a cui ricorsi anch’io.

Altri esempi sono I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti[20] di Antonino Catulli, I promessi sposi. Riduzioni teatrali[21] di Anne-Christine Faitrop Porta, I promessi sposi nel cinema[22] di Vittorio Martinelli e Matilde Tortora e Promessi sposi d’autore: un cantiere letterario per Luchino Visconti[23] in cui i due curatori Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti ricostruiscono la storia del cantiere di scrittura cinematografica dei Promessi sposi raccogliendo e ordinando i progetti di scrittori e intellettuali come, ad esempio, Alberto Moravia, Emilio Cecchi, Giorgio Bassani. Tra i vari riadattamenti che sono stati fatti del capolavoro di Manzoni spiccano quelli linguistici, eccone alcuni esempi: Nuizes, libera traduzione e interpretazione de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni in vernacolo ladino[24] di Debettin Giovanni, edito a Milano da Tetragono nel 1983; “Ste spusalizi un’ s’à da fè!” I promessi sposi in dialetto romagno[25] di Farneti Duilio, edito da Stilgraf a Cesena nel 1986; I Promessi sposi in poesia napoletana[26] di Raffaele Pisani, edito a Catania nel 2013 presso la Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di Magistero. Non mancano poi le edizioni satiriche come i celebri Promessi sposi[27] di Guido da Verona o I Promessi topi[28] o I Promessi paperi[29] editi dalla Walt Disney rispettivamente nel 1989 e 1976 su “Topolino”.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti

Un esempio interessante di reinterpretazione dei Promessi sposi[30] in chiave teatrale è offerto dall’opera di Antonino Catulli: I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti.[31] Nella prefazione troviamo esplicitato il motivo che ha spinto l’autore a scegliere come oggetto della sua commedia proprio I promessi sposi:

Ho procurato di trascegliere un soggetto il quale riproducesse l’amore di due sposi e in pari tempo disvelasse in esso il suo senso cristiano.
Quest’argomento con brio e leggiadria di stile ritrovo svolto nel tanto divulgato romanzo: “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, il quale mentre fa vedere l’amore casto, costante, sincero di Renzo e Lucia, manifesta altresì la loro fedeltà al Signore in mezzo alle più dure traversie. Da questo romanzo ho estratto la presente commedia.[32]

L’intreccio dell’opera, divisa in sei atti, non segue l’ordine delle vicende descritte nel romanzo per esigenze prettamente drammaturgiche; ciò è ben evidente nell’atto quarto in cui viene narrato il ritorno di Lucia dal castello dell’Innominato. Catulli pubblica la sua opera nel 1900 a Roma presso la casa editrice Artigianelli.

Copertina dell’opera. Antonino Catulli, I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti, Artigianelli, Roma 1900.

 

I Promessi sposi di Guido da Verona

Una delle edizioni satiriche più famose dei Promessi sposi è quella realizzata da Guido da Verona nel 1930.[33] L’opera, pubblicata dalla Società Editrice Unitas di Milano, mantiene il titolo dell’originale manzoniano I Promessi Sposi,[34] ma con annesso il sottotitolo di Alessandro Manzoni e Guido da Verona. Di quest’opera sono stati impressi anche cento esemplari su carta speciale numerati da uno a cento.

A causa delle sue caratteristiche l’opera viene messa al bando[35] nel 1929 sia da parte dell’autorità religiosa, sia da parte del regime fascista, infatti l’autore decide di riprendere la vicenda di Renzo e Lucia trasportandola, con molta ironia, negli anni venti, inserendo aspetti poco conformi alla morale e al clima del regime, come dice la seconda di copertina dell’edizione del 1998:

Lucia è una bellezza provinciale che parla francese e che, per farsi strada a ogni costo, non si rifiuta a nessuno, tranne che a Renzo. Quest’ultimo viaggia in Fiat 525, mentre Don Rodrigo, più comodamente, in Chrysler. L’astuto Don Abbondio invece, va a letto con la perpetua e converte i vecchi Buoni del Tesoro in Prestito del Littorio. Per non parlare della Monaca di Monza, lascivissima e con spiccate tendenze lesbiche. Il rifacimento del capolavoro manzoniano risulta divertente quanto intelligente.[36]

Quest’opera segna una sorta di svolta nel rapporto tra Guido Da Verona e Alessandro Manzoni: più volte Guido da Verona manifesta il suo disappunto nei confronti dell’autore milanese, sia per le sue opere in versi, sia per quelle in prosa[37] ma leggendo la sua Introduzione ai Promessi sposi i toni nei confronti di Alessandro Manzoni sono molto più pacati e positivi.

Copertina dell’opera. Guido Da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice 1998.

 

I fotoromanzi

Il fotoromanzo è un genere di letteratura popolare nato in Italia nel 1946[38] e poi diffusosi in tutta Europa e nel mondo intero, destinato principalmente ad un pubblico femminile. Si tratta di una sorta di racconto in sequenze, accompagnato da disegni, fotografie, dialoghi e didascalie. La cosa che più incuriosisce di questo fenomeno editoriale è la sua popolarità, come sottolinea Anna Bravo nell’introduzione alla sua monografia dedicata proprio al fotoromanzo:

quello che importa è però la sua popolarità, immediata, fragorosa, e di dimensioni tali da farne il massimo boom editoriale del dopoguerra. Giovane, più femminile che maschile, più proletario, contadino o piccolissimo borghese che la classe media, il pubblico è fra i meno raggiungibili dagli altri mezzi di comunicazione, e infatti in buona parte è nuovo.[39]

I principali protagonisti di questo fenomeno sono “Grand Hotel” della casa editrice Universo, “Bolero film” di Mondadori e “Sogno” di Rizzoli. Negli anni cinquanta è proprio “Bolero Film” che dà alla luce la serie “Le Grandi Firme” che riadatta il testo di romanzi classici alle linee del nuovo genere con un fine anche pedagogico. Tra gli autori scelti per queste rivisitazioni non può mancare Alessandro Manzoni con i suoi Promessi sposi.[40] Mondadori presenta questa novità editoriale con grande entusiasmo senza rinunciare però a un tono provocatorio nei confronti di un lettore scettico e sfavorevole al fotoromanzo e alla sua ormai raggiunta maturità:

Per quelli che non considerano ancora il fotoromanzo come una forma d’arte o per lo meno come un moderno linguaggio «volgare» nel senso classico e nobile della parola; per quelli insomma che ancora dubitano che questo nostro tempo dinamico e atomico sia all’affannosa ricerca di un nuovo mezzo d’espressione adeguato al secolo della rapidità e della televisione, una riduzione a fotoromanzo dei Promessi sposi potrebbe apparire in qualche modo come una fatica per lo meno arrischiata, se non vana. Proprio a coloro che si mostrano dubbiosi, siamo lieti di offrire questo Albo-Bolero che racchiude, in immagini fotografiche, l’immortale capolavoro. […] In questa riduzione, personaggi ambienti, costumi, paesaggi, sono rigorosamente aderenti al testo manzoniano, e soprattutto il dialogo del grande scrittore milanese è stato, perfino nelle virgole, scrupolosamente rispettato. Tutte le figure del libro, da Lucia a Renzo, da don Abbondio a padre Cristoforo e don Rodrigo, appaiono vive così come il lettore del romanzo le vede balzare da quelle mirabili pagine. È dunque con giustificato orgoglio che offriamo ai nostri lettori questo nuovo Albo-Bolero che può essere definito il gioiello della Collana Capolavori.[41]

Un caso editoriale dunque, questo, particolare rispetto agli altri: un tentativo di avvicinamento dell’opera manzoniana a un pubblico più vasto, femminile e popolare che altrimenti, con molta probabilità, non si sarebbe mai avventurato nella lettura di un romanzo di una portata tale. Una sorta di sfida, intrapresa da Mondadori che per l’ennesima volta ha raggiunto un grande successo seguendo tre aspetti fondamentali: «primo aver creato nuovi canali di vendita – secondo offerta di opere di alto valore letterario – aver fede costanza e coraggio nelle imprese nelle quali si crede».[42]

Copertina dell’opera. I Promessi sposi. Grande fotoromanzo del capolavoro di Alessandro Manzoni, Mondadori, Milano 1953.

Inizio del fotoromanzo. I Promessi sposi. Grande fotoromanzo del capolavoro di Alessandro Manzoni, Mondadori, Milano 1953.

 

Casi di edizioni saggistiche

Moltissime sono le opere dedicate all’analisi di caratteristiche e aspetti particolari del romanzo e delle loro trasformazioni nelle diverse edizioni.[43] Molte forniscono delle chiavi di lettura per affrontare l’opera[44] offrendo una preparazione di fondo sui temi toccati da Manzoni: ad esempio le condizioni storiche dell’epoca in cui è ambientato il romanzo e quelle contemporanee all’autore o l’epidemia di peste e tutto ciò che ne consegue; riguardo a quest’ultima è un esempio significativo il saggio di Antonio Guadagnoli presente nell’anonimo volume Storia della famosa peste di Milano, edito da Pagnoni, intitolato Elegia episodio estratto dalla descrizione della peste di Milano inserita nel romanzo “I promessi sposi” di A. Manzoni.[45] Sono frequenti anche saggi critici sulla lingua del Romanzo che contengono porzioni di testo interessanti proprio da questo punto di vista oltre alle guide di lettura sulla poetica dell’autore o sul suo rapporto con il vero e con i modelli.

I Promessi sposi è un romanzo ambientato in luoghi precisi toccati da eventi storici di grande importanza come, ad esempio, l’epidemia di peste, i tumulti a Milano, le visite pastorali del cardinale o la sottomissione a potenze straniere, proprio per questo molti studiosi si sono soffermati sulle località che sono state teatro di queste vicende e di quelle vissute dai protagonisti del romanzo. Alcuni di essi si concentrano su singole città come Giuseppe Belotti nell’opera Bergamo nei promessi sposi[46] o Empio Malara che invece si sofferma sulla città di Milano nell’opera I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della grande Milano svelate da Alessandro Manzoni[47] nata in collaborazione con il Centro Nazionale di Studi manzoniani.

Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua

La casa editrice Rechiedei nel 1874 pubblica un breve libro[48] di Luigi Morandi: Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua.[49] L’obiettivo dell’autore è espresso nell’avvertenza: «offrire al pubblico la storia e insieme un saggio delle correzioni nelle quali abbiamo la miglior prova della bontà della dottrina manzoniana sulla lingua giacchè ce la troviamo attuata pienamente e con ottimi effetti».[50]

L’opera contiene una lettera inedita di Alessandro Manzoni ad Alfonso della Valle di Casanova datata 30 marzo 1871 il cui permesso di pubblicazione è stato ricevuto dalla casa editrice da parte dell’autore stesso. In questa lettera Manzoni parla delle correzioni, soprattutto linguistiche, che ha inserito nell’ultima edizione del suo capolavoro, correzioni di cui, esibendo la sua consueta modestia dice «Ma ahimè! Anche di queste non posso farmi bello, perché non vengono a me; vanno a un tutt’altro e ben altro autore, voglio dire a un popolo, cioè a uno di quegli enti composti e multiformi, ognuno de’ quali, però, nelle cose in cui è uniforme, costituisce una grande e distinta unità».[51] Dopo la lettera inizia la sezione del libro dedicata al discorso di Luigi Morandi riguardo ai pregiudizi letterari sorti intorno al romanzo dopo la pubblicazione dell’edizione riveduta dei Promessi Sposi nel 1942. Le modifiche che l’autore milanese inserisce in questa edizione definitiva, «a detta d’alcuni,» producono un caso «in tutto simile a quello della Gerusalemme liberata».[52] Morandi riporta esempi di termini presenti nella prima edizione e le relative correzioni in quella successiva, ma anche esempi di cambiamenti sintattici e semantici, anche se rari soprattutto nei primi capitoli. Le correzioni sintattiche «mirano tutte a togliere al libro quanto c’era d’artifizioso e di contorto, e a conformarlo all’andatura piana e disinvolta dell’Uso».[53]

L’ultima sezione è riservata a un saggio comparativo della prima edizione dei Promessi Sposi con la seconda in cui il testo dell’una e dell’altra edizione sono posti su due colonne distinte: il lettore può, in questo modo, prendere atto subito delle differenze tra le due stesure avendole entrambe sott’occhio nella stessa pagina

La topografia del romanzo I promessi sposi

Nel 1895 Giuseppe Bindoni pubblica presso l’editore Enrico Rechiedei di Milano un’opera intitolata La topografia del romanzo I promessi sposi,[54] corredata da carte topografiche, tipi e vedute.[55]

L’autore ripercorre i luoghi del romanzo inserendo molte citazioni e riferimenti tratti dal testo di Manzoni che descrivono precisamente gli ambienti per cercare di trovarne un riscontro nella realtà. In alcuni casi Bindoni si concentra sulle abitazioni dove si svolgono le vicende come accade nelle sezioni riservate alla casa di don Abbondio[56] e a quella di Lucia:[57] riporta degli estratti di testo per cercare di capire dove sono collocate le case e come sono strutturate al loro interno. Nella sua indagine topografica Bindoni inserisce anche delle piantine di città o paesi oltre che a illustrazioni di Francesco Gonin che riproducono quei luoghi secondo le volontà di Manzoni: un esempio emblematico è offerto dal paesino di Olate, quello dei due protagonisti.[58] In quest’ultimo caso, ad esempio, Bindoni passa in rassegna diversi paesini nei dintorni di Lecco, da Rancio a Castello, da Germanedo a San Giovanni alla castagna, da Olate ad Acquate, cercando di rintracciare nel testo del romanzo informazioni che gli facciano capire quale di questi sia il paese scelto da Manzoni per essere il luogo teatro delle vicende dei due promessi; li esclude uno ad uno per varie motivazioni come il numero delle campane della chiesa per citarne uno, per arrivare ad affermare che il paese di Renzo e Lucia è Olate.

Alla fine dell’opera una sezione è dedicata ad uno dei luoghi dove visse Manzoni per un certo periodo, il palazzo al Caleotto, in cui ha iniziato a progettare il suo romanzo.[59]

Il testo sopra riportato è tratto dalla tesi di laurea di Simona Bressan, intitolata I volti di un classico: itinerario tra casi editoriali dei Promessi sposi, discussa il 14 dicembre 2016 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, avente come relatore il Professor Roberto Cicala.

 

[1] Geno Pampaloni, Sergio Pautasso, Edoardo Villa et al., Letture Manzoniane ʼ87, Centro Nazionale di studi Manzoniani, Milano 1988.

[2] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta, Beretta per Lecco, Lecco 2000.

[3] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Vincenzo Jacomuzzi, Attilio Dughera, Petrini, Torino 2011.

[4] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Gilda Sbrilli, Loescher, Torino 2011.

[5] Ibi, quarta di copertina.

[6] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Enrico Ghidetti, Bulgarini, Firenze 2010.

[7] Sulla quarta di copertina si legge: «Non un ennesimo libro, quindi, sostanzialmente finalizzato a far svolgere esercizi standardizzati e ripetitivi. Al contrario, una proposta di lettura la cui valenza didattica si esprime nel far cogliere al lettore, in modo non meccanico, ma consapevole, gli aspetti narrativi dell’opera, i temi sempre attuali affrontati dall’Autore, la qualità letteraria di un testo che può essere colta solo se la lettura riesce ad essere altamente motivante»: ibidem.

[8] Alessandro Manzoni, I Promessi sposi. Antologia, a cura di Marco Romanelli, Giuseppe Battaglia, Edisco, Torino 2008.

[9] Sulla quarta copertina del volume, oltre alle informazioni sugli strumenti didattici dell’edizione e sulla Guida per l’insegnante che la accompagna, si legge: «Le motivazioni che hanno spinto a offrire una scelta antologica dei Promessi sposi nascono dalla pratica scolastica che spesso deve fare i conti con i tempi e la programmazione che obbligano a tagli e raccordi difficili da proporre»: ibidem.

[10] Angelo Restelli, Leggendo i Promessi sposi: il Sarto, Scuola tipografica Istituto san Vincenzo, Milano 1927.

[11] Ibi, p. 3.

[12] Il numero di capitolo è in numero romano seguito dal numero della riga in cifre arabe.

[13] Mario Mazzucchelli, Manzoni e la monaca di Monza, Cino del Duca. Le edizioni mondiali S.p.A., Milano 1964.

[14] La copertina, in brossura, riporta l’immagine della monaca di Monza realizzata dal pittore Renato Vernizzi. Il blocco libro è costituito da fascicoli in carta uso mano avorio. Sono presenti anche dieci illustrazioni su carta patinata. Il titolo dell’opera è riportato anche sul dorso della copertina.

[15] Già nel titolo del capitolo l’autore sottolinea una delle diversità che si possono riscontrare tra il Fermo e Lucia e I promessi sposi evidenziando il cambiamento linguistico nel nome della monaca.

[16] Ibi, p. 50.

[17] Ibi, p. 10.

[18] Ferdinando Villani, Lucia Mondella ovvero I promessi sposi. Dramma per Ferdinando Villani di Foggia, Masciangelo, Lanciano 1869.

[19] Ibi, pp. 3-12.

[20] Antonino Catulli, I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti, Artigianelli, Roma 1900.

[21] Anne-Christine Faitrop Porta, I promessi sposi. Riduzioni teatrali, Olschki, Firenze 2001.

[22] Vittorio Martinelli, Matilde Tortora, I promessi sposi nel cinema, La mongolfiera, Cosenza 2004.

[23] Salvatore Silvano Nigro, Silvia Moretti, Promessi sposi d’autore: un cantiere letterario per Luchino Visconti, Sellerio, Palermo 2015.

[24] Giovanni Debettin, Nuizes, libera traduzione e interpretazione de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni in vernacolo ladino, Tetragono, Milano 1983.

[25] Duilio Farneti, “Ste spusalizi un’s’à da fè!” I promessi sposi in dialetto romagnolo, Stilgraf, Cesena 1986.

[26] Raffaele Pisani, I Promessi sposi in poesia napoletana, Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di Magistero, Catania 2013.

[27] Guido da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice, Milano 1998.

[28] Bruno Sarda, I Promessi topi, The Walt Disney Company, in “Topolino”, XXX (1989), 1769-1771.

[29] Edoardo Segantini, I Promessi paperi, The Walt Disney Company, in “Topolino” XXVII (1976), 1086-1087.

[30] Antonino Catulli, I promessi sposi di Alessandro Manzoni: commedia in 6 atti, Artigianelli, Roma 1900.

[31] È un’edizione in brossura, con il blocco libro cucito e formato da fascicoli in ottavo, con carta uso mano avorio. La copertina riporta tutte le informazioni presenti nel frontespizio incorniciate da motivi geometrici e floreali. Il titolo e il luogo di pubblicazioni sono stampati in rosso.

[32] Ibi, p. 3.

[33] Guido da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice, Milano 1998.

[34] È un’edizione in brossura, con il blocco libro, in carta uso mano avorio, cucito e costituito da fascicoli in sedicesimo. Sulla copertina sono riportati il titolo, il sottotitolo, il genere dell’opera e, sopra all’indicazione della casa editrice, i ritratti dei due autori inseriti in due ovali; il tutto è incorniciato da un motivo geometrico a forma rettangolare in arancione. Sul dorso sono indicati il titolo in arancione e i due autori con il genere del romanzo in nero, mentre sulla quarta di copertina il simbolo della casa editrice.

[35] «A pochi giorni dall’uscita, l’opera venne ritirata dal commercio perché presentava sulla copertina e sulla prima pagina intera il nome e l’effige di don Alessandro accanto a quello di un da Verona beffardamente ritratto insieme a uno dei suoi cani; apportate le necessarie mende, fu bloccata […] questa volta con l’accusa di vilipendio alla religione, alla morale e all’ideologia fascista»: Giuseppe Sergio, “I Promessi Sposi” di Guido da Verona: appunti sulla lingua e sullo stile, in “ItalianoLinguaDue”, II (2010), 1, p. 221.

[36] Guido da Verona, I Promessi sposi, La Vita Felice, Milano 1998, seconda di copertina.

[37] In particolare nel Mio discorso all’Accademia degli Immortali.

[38] «Una filiazione del fumetto, rivelata dalla ormai mitica testata delle edizioni Del Duca, ma intitolata con preciso riferimento ad una forte sedimentazione e concentrazione dell’universo multiplo e scorrevole hollywoodiano, “Grand Hotel”, che uscì nel 1946 con storie sceneggiate e disegnate da Walter Molino e da Giulio Bertoletti, per poi trasformare le “figure” da disegno a fotografia. Una filiazione risolutamente cinematografica con “Bolero film”, nata nel 1947 come ramificazione popolare del grande apparato mondadoriano, diretta da Luciano Pedrocchi»: Alberto Abruzzese, Fotoromanzo, in Alberto Asor Rosa, Letteratura italiana. Storia e geografia, Giulio Einaudi editore, Torino 1989, vol. 3: L’età contemporanea, p. 1269.

[39] Anna Bravo, Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003, p. 8.

[40] I Promessi sposi. Grande fotoromanzo del capolavoro di Alessandro Manzoni, “Albi Bolero Film”, Mondadori, Milano 1953, (“Grandi firme”).

[41] Ibi, frontespizio interno.

[42] Elena Brancati, Beatrice Porchera, La promozione degli “Oscar”: «aver fede costanza coraggio nelle imprese nelle quali si crede», in Libri e scrittori da collezione. Casi editoriali in un secolo di Mondadori, a cura di Roberto Cicala, Maria Villano, Gian Carlo Ferretti, EDUCatt Università Cattolica, Milano 2007, (“Quaderni del laboratorio di editoria”), p. 165.

[43] Alcuni esempi significativi sono:

Luigi Morandi, Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua, Fratelli Rechiedei Editori, Milano 1874; Natale Busetto, La genesi e la formazione dei Promessi sposi, Zanichelli, Bologna 1921; Grazia Raffa, Lingua e stile nei “promessi Sposi”, S.E.I., Roma 1935; Enzo Girardi, Struttura e Personaggi dei Promessi sposi, Jaca Book, Milano 1994; Jones Verina, Le dark ladies manzoniane e altri saggi sui «Promessi sposi», Salerno, Roma 1998; Luigi Russo, Personaggi dei Promessi sposi, Laterza, Bari 2002; Carlo Annoni, Eraldo Bellini, Luca Badini Confalonieri et al., Questo matrimonio non s’ha da fare: lettura de I promessi sposi, Vita e Pensiero, Milano 2005; Giovanni Acerboni, Manzoni e il vero falsificato. Saggio sui Promessi sposi e sulla poetica manzoniana, Aracne, Roma 2012; Giovanni Fighera, Il matrimonio di Renzo e Lucia. Invito alla lettura de «I Promessi sposi», Itaca, Castel Bolognese 2015.

[44] Gino Tellini riguardo ai Promessi sposi parla di «bifrontismo di un’opera insieme facile e difficile, dolce e amara, affabile e severa, limpida e complicata, scritta dall’“infinita potenza di una mano che non pare aver nervi”. I Promessi sposi sono in apparenza una bella favola a lieto fine e di fatto una contro favola piena di veleni»: Gino Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, p. 47.

[45] Antonio Guadagnoli, Elegia episodio estratto dalla descrizione della peste di Milano inserita nel romanzo “I promessi sposi” di A. Manzoni, in Storia della famosa peste di Milano, Pagnoni, Milano s. d..

[46] Giuseppe Belotti, Bergamo nei promessi Sposi, Grafica e Arte, Bergamo 1984.

[47] Empio Malara, I paesaggi dei Promessi Sposi. Le bellezze della grande Milano svelate da Alessandro Manzoni, Chimera, Milano 2014.

[48] Luigi Morandi, Le correzioni ai Promessi Sposi e l’unità della lingua, Fratelli Rechiedei Editori, Milano 1874.

[49] Il libro presenta una copertina cartonata blu, senza scritte. Il titolo sintetizzato è riportato sul dorso. Il blocco libro, cucito, è costituito da fascicoli di formato diverso tra loro.

[50] Ibi, p. 6.

[51] Ibi, pp. 10-11.

[52] Ibi, p. 25.

[53] Ibi, p. 54.

[54] Giuseppe Bindoni, La topografia del romanzo I promessi sposi, Enrico Rechiedei, Milano 1895.

[55] Questa informazione è riportata sul frontespizio dell’opera.

[56] Ibi, pp. 42-43.

[57] Ibi, pp. 64, 65 e 69.

[58] Ibi, p. 47.

[59] Ibi, pp. 234-235.

 

 

 


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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“Il Cigno” di Vassalli, caso editoriale tra cronaca e letteratura https://editoria.letteratura.it/il-cigno-di-vassalli-caso-editoriale-tra-cronaca-e-letteratura/ https://editoria.letteratura.it/il-cigno-di-vassalli-caso-editoriale-tra-cronaca-e-letteratura/#respond Fri, 30 Sep 2022 17:16:37 +0000 http://editoria.letteratura.it/?p=8772 La ricezione critica del romanzo Il Cigno di Sebastiano Vassalli ricostruita grazie alle carte d’archivio conservate nella casa dell’autore. Il Cigno, pubblicato nel 1993 nei “Supercoralli” Einaudi, è il romanzo storico in cui Sebastiano Vassalli racconta l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, realmente avvenuto in Sicilia nel 1893 per mano della mafia, e i processi che ne […]

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La ricezione critica del romanzo Il Cigno di Sebastiano Vassalli ricostruita grazie alle carte d’archivio conservate nella casa dell’autore.

Il Cigno, pubblicato nel 1993 nei “Supercoralli” Einaudi, è il romanzo storico in cui Sebastiano Vassalli racconta l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, realmente avvenuto in Sicilia nel 1893 per mano della mafia, e i processi che ne sono seguiti. È un evento che si spiega soltanto se collocato all’interno della cornice storica che delinea l’ascesa del potere mafioso e la connivenza dello stesso con la politica. L’autore dichiara di aver incominciato a occuparsi di questo argomento, nel 1991, quando trova per caso, «su una bancarella di libri usati, un’opera documento di Napoleone Colajanni, Nel regno della Mafia, stampato nel 1900 dalla Camera dei deputati».[1] Lui stesso racconta questo incontro con il tema del suo libro:

Colajanni mise tutto nero su bianco, scrivendo che era nota l’identità del mandante, l’onorevole Palizzolo, che si conoscevano gli esecutori, un capocosca di Villabate e gli uomini della sua banda. Allora andai a vedere sui giornali dell’epoca e subito capii che lavorando negli archivi avrei avuto in mano il bandolo della matassa.[2]

Nel 1992 Vassalli si reca due volte in Sicilia, a Palermo, per documentarsi. Durante le visite, cerca i documenti e fa «dei sopralluoghi sulla linea ferroviaria»,[3] luogo del delitto narrato nel Cigno. Il punto di partenza dell’autore è dunque in un documento della Camera dei deputati, al quale fanno seguito indagini sui giornali dell’epoca e negli archivi e perfino delle ispezioni sui luoghi dell’omicidio: tutto ciò attesta la serietà scientifica di un lavoro che si basa innanzitutto su atti e reperti storici, la cui affidabilità appare indiscussa. Quanto alla struttura dell’opera, in un’intervista del 1993 per “L’Unità”, l’autore, paragonando il romanzo a un edificio, afferma che «i diversi piani»[4] sono costituiti da un epilogo che segue tre scene: il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio. Il richiamo dantesco è però rovesciato: nell’avanzare verso il Paradiso, infatti, non c’è una redenzione, ma un’involuzione della vicenda, che si conclude con il fallimento dei processi giudiziari e con la vittoria della mafia.

Nella scena dell’Inferno è ricostruito il momento dell’assassinio e da subito sono individuati tutti i responsabili, i liuni,[5] riuniti a festeggiare con il loro mandante, Raffaele Palizzolo. Il delitto viene definito dallo stesso onorevole come un gesto da compiere per il bene della società.[6] Dalla Sicilia poi, l’autore sposta la narrazione a Roma, dove Palizzolo, chiamato da subito “Cigno”, incontra Francesco Crispi, ex capo del Governo. I due parlano del Banco di Sicilia e dal discorso emergono le preoccupazioni del Cigno riguardo le perdite che potrebbe dover affrontare se il Banco chiudesse o finisse nelle mani sbagliate, cioè in mani pulite. Durante la discussione, però, Crispi fa intendere al Palizzolo di non aver intenzione di salvare né il Banco, né tantomeno lui; così il Cigno capisce di essere solo e che Crispi ha avuto comportamenti positivi nei suoi confronti soltanto per suo interesse personale.[7] Intanto i contadini dell’isola, che versano in situazioni di grave indigenza, si riuniscono nei Fasci siciliani, di ispirazione socialista, ma quando scendono in piazza per rivendicare i loro diritti vengono sterminati a colpi di fucile.

Il Purgatorio, che tratta l’evolversi della storia tra il 1896 e il 1899, si apre con Filicetta, una delle mogli dei manifestanti, la quale, accorsa per cercare il marito, viene ferita e rimane vedova. Dopo essere fuggita per non finire in carcere e dopo un lungo periodo di latitanza, le viene consigliato di rivolgersi all’onorevole Palizzolo, l’unico in grado di aiutarla, pur se «grandissimo mafioso»[8]. Ed effettivamente, in cambio di intimità con l’onorevole, Filicetta ottiene soldi e favori, anzi, quando il Cigno è a Roma, lei si prostituisce con dei clienti mandati dallo stesso Palizzolo, diventando così una prostituta a tutti gli effetti.[9] Con un flash back, Vassalli racconta a questo punto la storia della famiglia Palizzolo, venuta dal nulla, arricchita a Caccamo e diventata «nobile»[10] a Palermo, attraverso la creazione di uno stemma e di un cognome nobiliare. Intanto sono passati quattro anni dall’omicidio Notarbartolo e la polizia di Palermo pensa che il colpevole sia Giuseppe Fontana di Villabate, cioè Don Piddu Facci di lignu, uno dei liuni. Il racconto quindi si sposta al 1899, nei giorni del primo processo per l’omicidio, trasferito a Milano per tutelare i testimoni.[11] In tribunale, Leopoldo Notarbartolo, il figlio dell’ucciso, afferma di sapere che il padre è stato ammazzato dalla mafia, per mandato dell’onorevole Palizzolo e per mano di Giuseppe Fontana. Intanto a Montecitorio il Cigno è aspramente contestato dai rappresentanti di tutti le fazioni politiche presenti, che vogliono la verità e sono convinti che lui sia colpevole, e finalmente a Villarosa viene arrestato.

La sezione intitolata Paradiso copre gli anni 1901-1904 e si apre con una breve autobiografia di Francesco Crispi, il quale, sul letto di morte, ripercorre velocemente la sua ascesa al potere, ammettendo anche le truffe e gli ammanchi provocati al Banco di Napoli e di altre banche. Palizzolo nel frattempo è stato condannato a trent’anni di carcere durante un secondo processo, tenutosi a Bologna e a Palermo. Il 9 agosto 1902, varie personalità dell’aristocrazia siciliana si ritrovano per discutere della condanna: sono sdegnate per la sentenza e ancor più per l’immagine barbara che l’Italia ha della Sicilia. Decidono allora di dar vita al Comitato Pro Sicilia, per difendere l’Isola dalle ingiurie del resto del Paese: «La mafia è un pregiudizio degli italiani del nord contro i siciliani».[12] Il 31 luglio 1904 il Cigno rientra trionfante in Sicilia, dopo cinque anni di carcere e dopo un’assoluzione per assenza di prove, avvenuta durante un altro processo tenuto a Firenze. Tutta la città festeggia il suo rientro come se si trattasse di un santo:[13] è il trionfo dell’illegalità, cioè del Paese sommerso, come lo chiamerà Vassalli, ma anche del sicilianismo, ovvero di quel malinteso senso di orgoglio isolano, che contrappone i siciliani al resto della penisola.

L’Epilogo porta la data del 1920 e descrive il Cigno a 75 anni,[14] quando ormai è diventato un anziano insignificante. Dopo l’assoluzione al processo di Firenze, egli aveva cercato per anni di riacquistare il seggio elettorale, ma era stato sempre sconfitto, ricevendo poche decine di voti.[15] In seguito qualcuno attenta alla sua vita e, poiché sopravvive, si reca a Lourdes, dove a suo dire gli appare la Madonna, la quale gli dà «conferma della sua storica missione di eroe nazionale siciliano»[16] e gli consiglia di dedicarsi alla letteratura. Egli finisce così col «recitare per strada le sue poesie d’argomento patriottico».[17] Diventato solo e povero, va a vivere dall’antica amante Filicetta e i due convivono «come padre e figlia».[18] Sembra che la giustizia, che aveva disertato i tribunali, venga ora ripristinata dalla vita.

Un confronto puntuale tra la ricostruzione storica dell’omicidio Notarbartolo e la trama del Cigno appena sintetizzata dimostra che la narrazione di Vassalli si mantiene fedele ai fatti realmente accaduti. Cause del delitto e suo svolgimento, ambienti, personaggi: tutto, nel passaggio dalla realtà alla narrazione, rimane invariato, anche se, trattandosi di un romanzo, il racconto si nutre anche di invenzioni.

Il contesto sociale dei primi anni ’90 e la pubblicazione del Cigno

 Nel mese di agosto del 1993, il quotidiano “La Stampa”, nella rubrica “tuttolibri”, pubblica una rassegna delle opere la cui uscita è prevista per l’autunno seguente. Tra gli autori presentati viene citato anche Vassalli: «Sebastiano Vassalli scava tra i malaffari del Cigno […]: lo scandalo di un ieri “contemporaneo”».[19] Anche la rivista “Panorama”, il 17 ottobre 1993, nella rubrica “Cultura”, cita Il Cigno: «Arriva i primi di novembre Il Cigno, atteso libro di Sebastiano Vassalli (185 pagine, 28 mila lire) […] Una storia che sembra dei nostri giorni e invece è accaduta un secolo fa».[20]

Come si vede, entrambi i contributi puntano sull’attualità del tema trattato nel romanzo. Dal 1992, infatti, la società italiana assiste alla nota vicenda di “Tangentopoli”, sistema di corruzione tra la politica e l’imprenditoria italiana, emerso a seguito di una serie di inchieste giudiziarie chiamate dai giornali “Mani pulite”. Si tratta di un giro molto ampio di tangenti, per aggiudicarsi e gestire appalti di diverso tipo; le inchieste coinvolgono anche le principali imprese pubbliche (come l’Enel, l’Eni, le Ferrovie e le Poste italiane) e le maggiori imprese italiane (come l’Olivetti e la Fiat).[21]

Questo è dunque il clima nel momento in cui Il Cigno viene offerto alla lettura degli italiani: sembra proprio che in 100 anni nulla sia cambiato, anzi il sistema basato su corruzione/concussione, che un secolo prima riguardava soltanto alcune regioni del sud, tocca ormai più o meno tutta la Penisola e gli “onorevoli Crispi” si sono moltiplicati. Si può quindi immaginare quanto sia attesa l’uscita del Cigno, da parte di chi conosce e apprezza Vassalli, sapendo, grazie ai suoi romanzi precedenti, che si tratta di uno scrittore che non ha, come si suol dire, peli sulla lingua. E Vassalli, con la sua prosa asciutta e con il suo amore per la verità, non deluderà le attese del suo pubblico.

La ricezione del Cigno tra entusiasmo e critiche feroci

All’uscita del romanzo, nei mesi di novembre e dicembre del 1993, escono molti articoli che presentano Il Cigno: si trovano in circa trenta quotidiani e almeno in undici periodici italiani.[22] La risonanza è quindi vasta e non manca di suscitare discussioni e polemiche a vari livelli.

Il 5 novembre del 1993, Franco Marcoaldi, del quotidiano “la Repubblica”, pubblica un’intervista con Vassalli[23] e il giorno dopo anche sul “Manifesto” esce un articolo breve di Rino Cascio.[24] Da questi due contributi emergono molte idee che alimenteranno la discussione dell’opera: l’attualità del sistema mafioso nella società italiana; la riduzione al genere giallo delle opere sulla mafia fino al momento disponibili, per cui il libro appena uscito appare veramente come una novità; la difficoltà degli autori siciliani, tra cui Sciascia, ad analizzare un fenomeno nel quale sono nati e cresciuti e la loro latitanza nel far capire la differenza tra mafia e delinquenza comune; il problema del regionalismo; la dichiarata fedeltà ai fatti nel racconto della vicenda Notarbartolo; l’unicità dell’evento riguardante il trionfo del suo assassino e infine l’insinuazione circa la dimensione pirandelliana della vicenda Palizzolo. Ce n’è abbastanza per suscitare la curiosità dei lettori: Il Cigno è appena uscito, ma già se ne profila il successo e nel contempo si accendono le micce della polemica.

Complessivamente, nel mese  dell’uscita del romanzo vengono avanzate dai critici moltissime osservazioni elogiative, con un paio di note negative, che riguardano il linguaggio (considerato dal Bonura dell’“Avvenire”[25] didascalico e appesantito dal realismo documentario) e qualche caduta di tensione, con scene reiterate, a detta di Paccagnini del “Sole 24 ore.[26] Esprimono opinioni ampiamente favorevoli i giornalisti Carlo Fini,[27]  Titta Madia Junior[28] e Saverio Vertone,[29] lo scrittore e poeta Mario Bernardi,[30] i critici letterari Luigi Baldacci, [31] Giuseppe Amoroso[32] e Geno Pampaloni,[33] il docente universitario Ermanno Paccagnini[34]  e lo storico Pasquale Chessa.[35]

Il rilievo più frequente, presente in quasi tutti i contributi, consiste nella sottolineatura dell’attualità del romanzo, il quale addirittura permette al giornalista e scrittore Saverio Vertone[36] e allo storico Pasquale Chessa[37] di stabilire corrispondenze tra i personaggi del libro e quelli della politica corrente. In generale sono poi apprezzati la fedeltà ai fatti, lo stile narrativo e l’abilità nel tratteggiare i ritratti dei personaggi, attraverso lo studio dei loro caratteri. Elogiato è anche il realismo delle descrizioni di paesaggi e situazioni: in particolare è giudicata apprezzabile la descrizione della Sicilia ripresa dal punto di vista paesaggistico, antropologico, aneddotico e comico. Un possibile motivo di polemica è rilevabile nell’appunto di Chessa, il quale si chiede come mai Pirandello, Sciascia e altri scrittori siciliani non si siano mai occupati dell’omicidio Notarbartolo, delitto che sembrava proprio adatto alla loro penna.[38]

Questa notazione ci offre l’occasione per affermare che l’esame delle opere precedenti sulla mafia, comparato con un’analisi del Cigno, mostra la novità dirompente di quest’ultimo, rispetto, non solo agli scritti che presentano il ben noto mafioso aureolato, ma anche allo stesso Sciascia, il quale, rimanendo con i suoi romanzi all’interno del genere poliziesco e del racconto giallo, aveva sottratto forza e verità alla denuncia del sistema mafioso. Questa potrebbe essere una risposta all’interrogativo di Chessa: Sciascia e altri scrittori siciliani avrebbero dovuto cambiare il genere letterario per parlare del delitto Notarbartolo, il quale non è un giallo (dato che si conosce tutto subito) e quindi non può essere nemmeno un poliziesco.  Soltanto la scelta di Vassalli di parlare di mafia attraverso un romanzo storico, raccontandone senza indulgenze le manifestazioni violente, poté cambiare la prospettiva dalla quale guardare al fenomeno, permettendo di scoprirne la vera essenza.

Anche nel mese di dicembre la risonanza alla ricezione del Cigno è ampia: il romanzo fa parlare moltissimo di sé, ma, insieme alla veloce salita nelle vendite e al palese apprezzamento di tanta parte della critica, raccoglie anche commenti negativi. È chiaro che siamo ormai di fronte a un caso editoriale non usuale.

Si schierano con Vassalli, proponendo una lettura favorevole del romanzo, studiosi come l’accademico, filologo e scrittore svizzero Renato Martinoni,[39]  i saggisti Renzo Crivelli,[40] Stefania Casini[41] e Giovanni Bonalumi,[42] gli scrittori Roberto Cotroneo[43] e Silvio Ferrari,[44]  i giornalisti Lucio Petronio,[45]  Simonetta Fiori,[46] Claudio Toscani,[47] Paolo Mauri,[48] Alessandra Melli,[49] Ottorino Burelli[50] e  Corrado Augias,[51] i critici Luigi Baldacci,[52] Geno Pampaloni,[53] Giuseppe Amoroso,[54] Lorenzo Mondo,[55] Pino Arlacchi,[56] Nando Dalla Chiesa[57] e Walter Binni.[58] Esprimono invece opinioni contrarie al romanzo, assumendo posizioni anche molto dure, il giornalista e scrittore Gigi Speroni,[59] gli intellettuali siciliani Gesualdo Bufalino,[60] Manlio Sgalambro[61] e Vincenzo Consolo,[62] lo storico contemporaneista Paolo Pezzino,[63] il regista Pasquale Scimeca,[64] lo scrittore Giuseppe Marci,[65] il giornalista Domenico Pecile[66] e perfino un nipote di Notarbartolo.[67]

Tra le note favorevoli, la più comune continua ad essere quella che riguarda la capacità dell’autore di narrare il presente raccontando il passato, ma è largamente sottolineata anche la sua fedeltà al contesto storico. È inoltre messa in luce la passione civile dello scrittore, che sa andare oltre i freni imposti dall’omertà. Nel Cigno non è nemmeno presente l’intellettualismo proprio di tanta letteratura del tempo, a vantaggio del gusto per il racconto e per una dissacrazione che si dispiega frequentemente attraverso un sano umorismo. Altre osservazioni positive riguardano il ritratto fedele della mentalità e della cultura siciliane. La descrizione della mafia nel Cigno è giudicata originale, ma soprattutto capace di denunciare il sottofondo culturale che l’alimenta, cioè il sicilianismo. Quanto alla prosa, appare lineare e quindi di facile lettura. Il Cigno presenta inoltre una grande ricchezza espressiva e i personaggi sono inventati ma realistici.

Le osservazioni negative invece enfatizzano i presunti pregiudizi ideologici e razzistici dell’autore. Al romanzo, viene poi affermato, manca la tensione morale e l’autore non sa penetrare la complessità e la drammaticità dell’argomento: Vassalli denuncia senza aver compreso.  Il Cigno non è una storia vera, perché manca di rigore e di documentazione, è colmo di incongruenze storiche e di vicende inventate. I personaggi sono macchiette televisive, tipi standardizzati.

Alle critiche, Vassalli oppone alcune argomentazioni difensive. Contro le accuse di carenze nella documentazione storica, egli presenta la fonte del suo romanzo e cioè l’eccellente libro del Magrì, L’onorevole padrino[68] e quanto alla distanza che lui, non siciliano, avrebbe dal sicilianismo, risponde con tre argomentazioni molto forti: 1. la distanza di un narratore da ciò che racconta è sempre la stessa, di qualunque cosa parli; 2. uno scrittore non è legato alla regione di provenienza, perché ha una sola patria, la lingua; 3. descrivendo la Sicilia, lui non si serve di impressioni, ma si immedesima in un personaggio e lo segue nelle vicende concrete della sua vita. Respinge poi con fastidio le accuse di leghismo e di accanimento etnico nei confronti dei siciliani. Per ciò che riguarda la dichiarazione sull’omertà degli autori siciliani, che più crea scompiglio, lo scrittore si limita per ora a dichiarare di aver detto cose scontate che non avrebbero dovuto sollevare un tal polverone. Soltanto nel libro intervista Un nulla fatto di storie,[69] Vassalli esporrà meglio il suo pensiero su Sciascia e la percezione di quest’ultimo del Paese Sommerso (cioè del mondo dell’illegalità e della mafia): «Per criticare gli aspetti negativi del Paese Sommerso, Sciascia ha criticato la politica dei partiti. Ha detto che gli effetti erano le cause».[70] In questo modo Sciascia, e con lui altri scrittori siciliani, avrebbero evitato di guardare con obiettività al problema

Fino al mese di marzo del 1994 rimane comunque vivo l’interesse dei giornali e della critica per Il Cigno, interesse che va poi naturalmente a scemare. Molti articoli usciti in questo periodo presentano più che altro in maniera sintetica la trama del romanzo, fermandosi tutt’al più su questioni già viste e dibattute. Altri contributi risultano di maggiore interesse, anche se in essi appare evidente soprattutto la continuità tra il 1993 e il 1994.

Gli autori degli articoli a favore sono i giornalisti Elisabetta Stefanelli,[71]  Fabio Maj[72] e Michele Trecca,[73] il critico Leone Piccioni[74] e la novellista Giusi Baldissone.[75] Esprimono invece critiche negative i giornalisti Renato Barilli[76] e Silvana La Spina. [77]

Quanto alle note favorevoli, come in precedenza emergono gli apprezzamenti sull’attualità dell’opera, seguiti dai complimenti per l’impegno e il coraggio dell’autore nel comunicare una nuova visione del tema. Vassalli viene dichiarato addirittura il più grande scrittore della fine del 1900, o almeno uno dei pochi da seguire con interesse.

Sul versante delle osservazioni negative, invece, nonostante le argomentazioni difensive già declinate dall’autore, alcuni critici ribadiscono l’immagine denigratoria attribuita alla Sicilia: Vassalli, non essendo dell’isola, non può capirne la mentalità e quindi inventa episodi inverosimili. Egli viene definito arrogante e pressapochista, autore di un pasticcio che si nutre di stereotipi.

Per la verità una differenza tra i contributi critici del ’93 e quelli del ’94 e oltre c’è: nel secondo caso sembra aumentata la virulenza e la tracotanza degli attacchi, ma proprio per questo gli articoli suonano meno credibili. Una prima difesa contro chi accusa Vassalli per l’immagine falsa della Sicilia viene da Giusi Baldissone, che parla di un malinteso meridionalismo.

Per il resto, è bene tornare all’intervista del 2008 rilasciata a Ferlita per “Repubblica”, durante la quale Vassalli racconta le polemiche seguite all’uscita del Cigno, una quindicina di anni prima:

Si attaccarono a tutto pur di demolirmi […] Il fatto è che avevo messo il cucchiaio nella minestra degli altri, dando parecchio fastidio. […] Non avevo nessuna intenzione di dir male dei siciliani, volevo solo raccontare quei fatti, rimanendo fedele alle fonti.[78]

In questa intervista tuttavia Vassalli aggiunge qualcosa su cui non è facile essere d’accordo: «Devo poi dire che Il Cigno mi fu bruciato dall’attualità, con Tangentopoli che di lì a poco avrebbe messo sotto sopra il Paese». È più ragionevole pensare che Tangentopoli abbia aumentato l’interesse per Il Cigno che non viceversa.

Valutando complessivamente la ricezione critica, possiamo dire che gli studiosi dicono tutto e l’opposto di tutto: ciò che per gli uni è un pregio per gli altri è un difetto e ad ogni elogio corrisponde una critica. Ad esempio, c’è chi dice che Vassalli è sempre fedele al contesto storico e chi giura il contrario; c’è chi pensa che non formuli giudizi, limitandosi ad esprimere l’eloquenza dei fatti, e chi ritiene invece che Il Cigno sia il frutto dei suoi pregiudizi. Lo stesso si può dire della prosa, a volte esaltata a volte denigrata, oppure della descrizione della società siciliana o della mafia, per alcuni fedele alla realtà, per altri superficiale e stereotipata.

Conclusione

Al termine dell’indagine sul Cigno, ci si chiede quali furono in definitiva le cause che determinarono il suo successo e i motivi per i quali divenne un caso editoriale di vaste proporzioni. Si potrebbero individuare all’incirca una decina di motivazioni, che andavano dalla fama dell’autore (il quale nel 1990 aveva vinto il premio Strega per il romanzo La chimera, aumentando la sua notorietà in Italia e all’estero) alla bellezza indiscussa dell’opera.

Per ciò che riguarda le circostanze temporali favorevoli, che accompagnarono l’uscita del romanzo, occorre ricordarne almeno tre, di diversa importanza: il contesto sociale di corruzione generalizzata nel quale stavano vivendo gli italiani, che sembrava riprodurre per certi versi il sistema mafioso, rendendo la narrazione attualissima e aumentando quindi curiosità e aspettative; la coincidenza con il centenario della morte di Notarbartolo e con tutte le celebrazioni che lo ricordavano, riportandone alla ribalta la storia; l’uscita del romanzo nelle vicinanze del Natale, per cui varie riviste inserirono il libro tra i consigli per le strenne natalizie. Ad ampliare la conoscenza del romanzo concorse inoltre l’attribuzione tempestiva del premio “Grinzane Cavour – Terre del Piemonte”.

La veste editoriale grafica agile e piacevole, inoltre, e il titolo del romanzo, che incuriosiva e sembrava aggiungersi al gattopardo e alla civetta, formando una trilogia di opere accumunate non soltanto dagli accenni alla mafia ma anche dal riferimento a un animale preciso, che evocava somiglianze e differenze tra le narrazioni, potrebbero aver avuto un peso non indifferente nella riuscita dell’opera. Come si è visto, poi, l’intervista dell’autore con Marcoaldi per “Repubblica” e l’articolo del giornalista Cascio sul “Manifesto”, usciti in concomitanza con la pubblicazione dell’opera, offrirono osservazioni capaci di interessare e attrarre i lettori.

E tuttavia nessuna opera, per quanto ben presentata e capace di accendere delle aspettative, incontrerebbe fortuna se non fosse “bella”, cioè se non portasse con sé quell’elemento indeterminato e non facilmente definibile, in grado non solo di attrarre, ma di creare legami e luoghi dello spirito in cui abitare. Ecco, il Cigno ha in sé la bellezza di un romanzo serio ma piacevole, fedele alla realtà storica ma ricco di fantasia, con il fascino del passato e il sapore dell’attualità, capace di immergere il lettore nella storia e di nutrire l’immaginazione, di dare emozioni forti e di attivare il ragionamento, in grado di comunicare il piacere di una scrittura chiara e lineare, ma anche forte e asciutta, “nuovo”, infine, rispetto alle opere che l’hanno preceduto. Un romanzo che avvince e fa pensare, un libro dal quale ci si stacca a fatica, perché apre le porte di un mondo sconosciuto e misterioso e lo rende leggibile, un mondo brutale, violento, ma anche a tratti struggente. Insomma tutto ciò che è stato detto dalla critica a favore.

Arianna Marturano

 

[1] Ibidem.

[2] S. Ferlita, Vassalli e la Sicilia. Così diedi fastidio, in “La Repubblica”, 24 maggio 2008, pagina non reperibile. Articolo fotografato nell’archivio Vassalli, per gentile concessione della moglie dell’autore, signora Paola Todeschino Vassalli.

[3] S. Ferlita, Vassalli e la Sicilia. Così diedi fastidio, in “La Repubblica”, 24 maggio 2008.

[4] Ibidem.

[5] S. Vassalli, Il Cigno, p.29.

[6] Ibi, pp. 39 – 40.

[7] Ibi, p. 59.

[8] Ibi, p. 103.

[9] Ibi, p. 113.

[10] Ibi, p. 122.

[11] Ibi, p. 159.

[12] Ibi, p. 231.

[13] Ibi, p. 249.

[14] Ibi, p. 275.

[15] Ibi, p. 284.

[16] Ibi, p. 285.

[17] Ibi, p. 286.

[18] Ibi, p. 289.

[19] In “Tuttolibri”-“La Stampa”, agosto 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli, grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[20] S. Petrignani, Ma quante storie!, in “Panorama”, 17 ottobre 1993, p. 124.

[21] Informazioni tratte dall’enciclopedia “Treccani on line”, alla voce Tangentopoli. In:
<https://www.treccani.it/enciclopedia/tangentopoli_%28Enciclopedia-Italiana%29/> (ultima consultazione: 4 maggio 2022).

[22] Il computo approssimativo è stato fatto sulla base degli articoli di quotidiani e periodici presenti nell’archivio Vassalli, fotografati per questo lavoro grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[23] F. Marcoaldi, Il cigno e la mafia, in “la Repubblica”, 5 novembre 1993, p. 35.

[24] R. Cascio, Storia di un omicidio eccellente nella Sicilia di fine secolo, in “il Manifesto”, 6 novembre 1993, p. 12.

[25] G. Bonura, Vassalli e una mafia didascalica, in “Gutemberg” – “Avvenire”, 20 novembre 1993, p. 2.

[26] E. Paccagnini, C’è un cigno per la mafia, nel “Sole 24 ore”, 28 novembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[27] C. Fini, Lo scandalo della mafia, in “La voce del campo”, 13 novembre 1993, p. 7.

[28] T. Madia Jr, Il Cigno di Sebastiano Vassalli, “Gli oratori del giorno”, n. 9, Roma, novembre 1993, p. 63.

[29] S. Vertone, Canto del Cigno per Palermo. Sebastiano Vassalli racconta l’Italia di oggi con una storia di cento anni fa, in “L’Europeo”, 48/29, novembre 1993, p. 6.

[30] M. Bernardi, Un cigno disperato. La rassegnazione, il fulcro della civiltà dei poveri, in “Il Gazzettino”, 22 novembre 1993, p. 16.

[31] L. Baldacci, Il Cigno dalle ali insanguinate. I Fasci, le banche, la mafia e il potere: l’omicidio     Notarbartolo.

[32] G. Amoroso, Fantasma della mafia, in “Gazzetta del sud”, 23 novembre 1993, p. 26.

[33] G. Pampaloni, Delitti d’epoca, in “Il Giornale”, 28 novembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[34] E. Paccagnini, C’è un cigno per la mafia, in “Il sole 24 ore”, 28 novembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[35] P. Chessa, Che tentacoli quel Cigno. Assassini e politici, pavidi ed eroi. La storia di un omicidio di mafia nella Sicilia di ieri che è quasi un ritratto dell’Italia di oggi, [s.e.], novembre 1993, p.5, periodico non citato. Documento conservato nell’archivio Vassalli, consultato per gentile concessione della moglie di Sebastiano Vassalli, signora Paola Todeschino Vassalli.

[36] S. Vertone, Canto del Cigno per Palermo. Sebastiano Vassalli racconta l’Italia di oggi con una storia di cento anni fa, in “L’Europeo”, 48/29, novembre 1993, p. 6.

[37] P. Chessa, Che tentacoli quel Cigno. Assassini e politici, pavidi ed eroi. La storia di un omicidio di mafia nella Sicilia di ieri che è quasi un ritratto dell’Italia di oggi, [s.e.], novembre 1993, p.5, periodico non citato. Documento conservato nell’archivio Vassalli, consultato per gentile concessione della moglie di Sebastiano Vassalli, signora Paola Todeschino Vassalli.

[38] P. Chessa, Che tentacoli quel Cigno. Assassini e politici, pavidi ed eroi. La storia di un omicidio di mafia nella Sicilia di ieri che è quasi un ritratto dell’Italia di oggi.

[39] R. Martinoni, L’isola del cigno. Il nuovo romanzo di Sebastiano Vassalli – Di frittelle e lupini – E di un invito a Pirandello, in “Giornale del popolo”, Lugano 2 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[40] R. S. Crivelli, L’annientamento del Cigno tra mafia e sicilianità, in “Corriere di Novara”, 2 dicembre 1993, p. 28.

[41] S. Casini, Storie di ordinaria Sicilia, in “Noi”, 49, 22 dicembre 1993, p. 11.

[42] G. Bonalumi, Vassalli, una grande parabola. Einaudi ha pubblicato un nuovo romanzo dello scrittore Sebastiano Vassalli; «Il Cigno»: un libro che affronta il problema della mafia in Sicilia, in “Corriere del Ticino”, 24 dicembre 1993, p. 34.

[43] R. Cotroneo, Lasciamoli lavorare questi bravi scrittori, in “L’Espresso”, XXXIX, 48, 5 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[44] S. Ferrari, Ma il cigno non è uguale alla civetta, in “Il secolo XIX”, 15 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[45] L. Petronio, Cigno e gattopardo, in “Trieste Oggi – il Meridiano”, 8 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[46] S. Fiori, Quel cigno deve morire, in “Cultura”-“La Repubblica”, 11 dicembre 1993, pagina non reperibile; articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[47] C. Toscani, La cantata del «Cigno», in “Brescia oggi”, 14 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[48] P. Mauri, L’Italia s’è desta? in “la Repubblica”, 16 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[49] A. Melli, 1893, Il delitto è di Stato. La vittima fu l’ex direttore del Banco di Sicilia, in “il Giorno”, 1993, data e pagina non reperibili. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[50] O. Burelli, Se il narratore sceglie la storia, in “Messaggero veneto”, data e pagina non reperibili. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[51] C. Augias, Problema Sicilia sangue e romanzi. Sebastiano Vassalli si è ispirato all’assassinio di Notarbartolo per il suo ultimo romanzo Il Cigno, in “Il venerdì di Repubblica”, 31 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[52] Sebastiano Vassalli. Il Cigno, Inserto pubblicitario in “La Repubblica”, 10 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[53] Ibidem.

[54] Ibidem.

[55] L. Mondo, Il giorno del Cigno. Sebastiano Vassalli nella Sicilia di fine Ottocento. Un romanzo civile intorno al delitto Notarbartolo, in “Tuttolibri” – “La Stampa”, data e pagina non reperibili. Articolo fotografato presso l’archivio Vassalli, per gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[56] Sebastiano Vassalli. Il Cigno, Inserto pubblicitario in “La Repubblica”.

[57] Ibidem.

[58] Inserto pubblicitario, in “la Repubblica”; data e pagina non reperibili. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[59] M. Serri, Il Falcone dell’800 e i suoi padrini. Le mani dei biografi sul sindaco assassinato in treno dalla mafia, in “La Stampa”, 10 dicembre 1993, p. 22.

[60] S. Fiori, Quel cigno deve morire.

[61] S. Fiori, Quel cigno deve morire.

[62] S. Fiori, Quel cigno deve morire.

[63] S. Fiori, Quel cigno deve morire.

[64] S. Fiori, Quel cigno deve morire.

[65] G. Marci, Ma Vassalli non è Sciascia. Senza tensione morale e con qualche goffaggine linguistica, in “La Nuova Sardegna”, 336, 11 dicembre 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[66] D. Pecile, Quando la mafia riuscì a dividere il Nord dal Sud, in “Messaggero veneto”, 1993, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[67] M. Serri, Il Falcone dell’800 e i suoi padrini. Le mani dei biografi sul sindaco assassinato in treno dalla mafia.

[68] E. Magrì, L’onorevole padrino. Il delitto Notarbartolo: politici e mafiosi di cent’anni fa, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1992 (“Le scie”).

[69] S. Vassalli, G. Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo.

[70] Ibi, p. 82.

[71] E. Stefanelli, Letteratura e mafia secondo Vassalli, in “l’Adige”, 14 gennaio 1994, p. 44.

[72] F. Maj, Un efferato assassinio in treno e lo scandalo è evitato, in “Messaggero Veneto”, 15 gennaio 1994, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[73] M. Trecca, La ragione intonò il canto del “Cigno”, in “Gazzetta del Mezzogiorno”, 15 gennaio 1994, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[74] L.Piccioni, Storia del Cigno uomo d’onore, in “il Tempo”, Roma, 28 gennaio 1994, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[74] Ibidem.

[75] G. Baldissone, Il Cigno di Sebastiano Vassalli, in “Letture”, Marzo 1994, pagina non reperibile; articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[76] R. Barilli, Un rosario già noto, in “L’immaginazione”, 110, gennaio-aprile 1994, p. 54.

[77] S. La Spina, Caro Vassalli non venga in Sicilia, in “Avvenire”, 25 luglio 1995, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.

[78] S. Ferlita, Vassalli e la Sicilia. “Così diedi fastidio, in “la Repubblica”, 24 maggio 2008, pagina non reperibile. Articolo fotografato per questo lavoro nell’Archivio Vassalli grazie alla gentile concessione della signora Paola Todeschino Vassalli.


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).

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