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«Nel migliore dei casi, poesia, sarai letta attentamente, commentata e ricordata» auspicava un’autrice che tempo fa ha avuto un improvviso successo italiano grazie a una lettura tv di Saviano. La Szymborska aggiungeva: «Nel peggiore dei casi sarai soltanto letta. Terza eventualità: verrai sì scritta, ma subito buttata nel cestino». Il premio Nobel polacco non prevedeva l’opzione del rifiuto editoriale o della pubblicazione con copie invendute ma sono in verità i casi attuali più frequenti per il genere lirico. Lo ha fatto emergere l’allarme di Zaccuri su “Avvenire” con il salutare dibattito che ha contrapposto lo slancio letterario degli autori (con molti giovani «che insistono e resistono») alle scelte commerciali degli editori che, alla rincorsa del best seller pop, per dirla con Cucchi, abbandonano sempre più un campo di basse tirature e pareggi difficili.

Occorre però guardare oltre: nello spazio intermedio della filiera editoriale dove si vive maggiormente una crisi per certi aspetti cronica ma da analizzare come una trasformazione. Sugli scaffali della libreria e nei meccanismi della distribuzione, sempre più incapace di comunicare e promuovere cultura profonda, si gioca gran parte della decadenza di una «Poesia ai margini» per citare un titolo di Tesio. E non vanno dimenticate responsabilità e abitudini né dei lettori (spesso gli aspiranti poeti sono lettori inappetenti: colpa anche della scuola?) né dei mass media dove l’assenza è grande. Così è l’intero sistema dispersivo che genera la dismissione di collane prestigiose sebbene resista, festeggiando il mezzo secolo di vita, la “Bianca” Einaudi diretta da Mauro Bersani che non si ferma certo alle solite mille copie con alcuni nomi femminili che vendono bene quali Merini, Valduga e il recente caso Chandra Candiani (curioso che gli italiani acquistino pochi stranieri: è forse indice di un orizzonte chiuso dei nostri lettori).

La colpa non è di chi scrive ma la facilità di apparire con pochi euro grazie a stampa digitale e blog crea cortocircuiti deleteri, autoreferenziali e autopromozionali senza ricerca né paragone critico. Ha ragione Conte quando afferma che serve «riguadagnare voce e autorità parlando non soltanto al loro piccolo ego». Una soluzione deve venire dagli editori, con una direzione severa, di progettualità culturale al di là della sola pubblicazione, un’azione quasi etica. Serve qualità anche per marcare la distanza dalle autopubblicazioni o dagli stampatori pirata: non basta andare in tipografia ma serve pubblicare con una distribuzione nazionale, una promozione autorevole nel mercato globale, un catalogo riconosciuto e con la formula mista tra carta e e-book ma soprattutto attività collaterali come festival, eventi e letture che non dipendono sempre dai libri, come ha ben notato Rondoni, ma rinviano ad essi aiutando «l’immissione di un virus nel sistema».

La risposta al disaccordo tra cultura letteraria e marketing al dettaglio resta perciò nel rigore dell’atto editoriale per eccellenza, quello della scelta. Naturalmente la selezione dovrebbe già avvenire da parte degli autori, come consigliava la Szymborska: «poesia, potrai approfittare di una quarta soluzione: / scomparirai non scritta / borbottando qualcosa soddisfatta». Ma soltanto con la capacità di dire sì o soprattutto no dell’editore la poesia riuscirà a trovare ossigeno nello slancio verso il lettore, senza disperdere le poche risorse disponibili in una mercato superficiale, modaiolo e asfissiante, per raggiungere la salvezza cantata da Clemente Rebora: «varco d’aria al respiro a me fu il canto: / a verità condusse poesia».

 

Roberto Cicala

(con il titolo Il «gran rifiuto» editoriale che fa bene alla poesia, in “Avvenire”, 25 giugno 2015, all’interno di un dibattito del quotidiano)


(in "Editoria & Letteratura", editoria.letteratura.it).